Nel 1918, di ritorno dal fronte, Wittgenstein conclude il Tractatus logico-philosophicus, un’opera che doveva riguardare i fondamenti della logica, ma che era infine diventata una riflessione sull’ “essenza del mondo”.

Wittgenstein inizia la sua carriera di filosofo come allievo di Bertrand Russell, il quale con i Principia Mathematica aveva cercato di sviluppare il programma logicista, secondo il quale bisognava ricondurre tutte le proposizioni della matematica ad asserzioni logiche; ben presto, però, egli segue un percorso filosofico originale, che poi condenserà nel Tractatus.

L’elemento chiave del libro è la distinzione tra “dire” e “mostrare”, tra ciò che può essere detto e ciò che si mostra: “Il punto centrale è la teoria di che cosa può essere detto mediante una proposizione – cioè mediante il linguaggio – (e, il che finisce per essere lo stesso, che cosa può essere pensato) e che cosa non può essere detto mediante una proposizione, ma solo mostrato; il che, io credo, è poi il problema fondamentale della filosofia”[1].

Le proposizioni della logica, secondo Wittgenstein, sono tutte tautologie, cioè proposizioni sempre vere, qualunque sia la loro condizione di verità; ad esempio la proposizione “p o non-p” è una tautologia, poiché è sempre vera, sia se la proposizione p è vera, sia se p è falsa. In questo senso le proposizioni della logica non dicono nulla del mondo: sono proposizioni analitiche, che non possono “essere confermate dall’esperienza, così come dall’esperienza non possono essere infirmate”. “Ma tutte le proposizioni della logica dicon lo stesso. Ossia nulla” (5.43)[2].

La logica rappresenta la struttura del linguaggio, e il linguaggio descrive la realtà; in questo modo, tramite il linguaggio, la logica rispecchia la struttura del mondo: “Le proposizioni della logica descrivono l’armatura del mondo, o piuttosto, la rappresentano” (6.124).

Le proposizioni descrivono gli stati di cose, e rappresentano la realtà, in quanto esse sono delle immagini della realtà. Così come il disegno di un’automobile rappresenta l’automobile, in quanto gli elementi del disegno sono in relazione fra loro nello stesso modo in cui lo sono gli elementi dell’automobile reale, così la proposizione rappresenta la realtà in quanto condivide con essa la struttura logica.

Se conosciamo il significato delle parole che la costituiscono, noi comprendiamo il senso di una proposizione senza che essa ci venga spiegata; “La proposizione è un’immagine della realtà: Infatti io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la proposizione la comprendo senza che me ne si dia il senso” (4.021).

Noi capiamo una proposizione così come guardando una figura ne comprendiamo il contenuto, senza che questo debba essere spiegato. Infatti il senso di una proposizione lo spiegheremmo con un’altra proposizione, e dunque dovremmo comunque comprendere questa seconda proposizione.

Una proposizione, quindi, può rappresentare tutta la realtà, tranne la relazione fra la proposizione e la realtà stessa, poiché lo faremmo comunque con una proposizione; questa relazione, allora, si mostra da sé, ed è la forma logica del mondo: “Ciò che nel linguaggio esprime , noi non possiamo esprimere tramite il linguaggio. La proposizione mostra la forma logica della realtà. L’esibisce” (4.121).

Ecco, quindi, la distinzione fra la possibilità che ha il linguaggio di descrivere, di rappresentare il mondo, e la relazione fra lo stesso linguaggio e il mondo, che invece si mostra, nel senso che non è rappresentabile; infatti per descrivere tale relazione dovremmo uscire – per così dire – con il linguaggio al di fuori del linguaggio, ma ciò evidentemente non è possibile: “Ciò che può essere mostrato non può essere detto” (4.1212).

Non ha senso, quindi, “mondo” indipendentemente dal linguaggio: il linguaggio descrive la realtà, e non è possibile pensare alla realtà indipendentemente dal linguaggio; in questo senso “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (5.6), e “Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo” (5.62); dunque “Il mondo e la vita sono tutt’uno” (5.621).

A questo punto si potrebbe concludere che semplicemente tutto è linguaggio; ma il fatto che qualcosa si mostri e sia indicibile conduce Wittgenstein in un’altra direzione: verso l’etica e verso il mistico. Questa seconda parte del Tractatus viene concepita nel 1916, dopo che Wittgenstein dalle retrovie viene trasferito in prima linea, e vive in prima persona e in modo drammatico la paura di essere ucciso. È molto probabile che questa esperienza sia stata determinante perché Wittgenstein arrivasse a  sviluppare il suo trattato oltre i confini della pura logica; le considerazioni che seguono non saranno mai condivise né da Russell, né dai filosofi positivisti del Circolo di Vienna, come Schlick e Carnap, con cui Wittgenstein entrò in contatto.

Tornando al Tractatus, nel momento in cui il mondo non è un mondo impersonale, ma è il mio mondo, sto percependo un soggetto; ma un soggetto non può trovarsi nel mondo, altrimenti lo si potrebbe descrivere: “Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo” (5.632); “Ove, nel mondo, vedere un soggetto metafisico? Tu dici che è proprio così come con occhio e campo visivo. Ma l’occhio in realtà non lo vedi. E nulla nel campo visivo fa concludere che esso sia visto da un occhio” (5.633).

Il soggetto a cui fa riferimento Wittgenstein, quindi, non lo si può rappresentare o descrivere; non è il corpo o l’anima dell’uomo, non può appartenere al mondo, ma si situa ai confini del mondo come “Io filosofico”.

Il mondo descritto dal linguaggio è il mondo dei fatti, il mondo delle scienze naturali, dove le cose sono come sono, all’interno del quale non è possibile trovare alcun valore. Quindi “Se un valore che ha valore v’è, dev’esser fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende non accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori dal mondo” (6.41).

L’etica, quindi, non può essere espressa; non possono esistere proposizioni sensate che descrivano che qualcosa sia buono o cattivo, proprio perché il linguaggio descrive solo i fatti, e i fatti sono semplicemente quelli che sono, sono “accidentali”. “Se il volere buono o cattivo àltera il mondo, esso può alterare solo i limiti del mondo, non i fatti, non ciò che può essere espresso dal linguaggio” (6.43).

Quindi la dimensione etica non è connessa con le specifiche modalità che caratterizzano il mondo, poiché essa è indifferente a tali modalità che sono, appunto, accidentali. Il problema della vita, invece, è collegato col fatto che il mondo c’è: “Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è” (6.44). “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta” (6.52).

Ancora ritorna la differenza fra ciò che può essere descritto, il mondo delle scienze naturali, e ciò che si mostra e si sottrae ad ogni rappresentazione: l’etica e il mistico.

A questo punto si potrà notare una sorta di contraddizione nell’autore del Tractatus, che con la sua stessa opera parla riguardo a ciò di cui egli stesso sostiene non si possa parlare; infatti egli dice che non si può dire nulla di sensato sull’etica, ad esempio. Quindi nelle ultime righe Wittgenstein spiega il senso della sua opera: come una scala da usare per salire più in alto e poi gettare via, come un dito puntato per andare oltre lo stesso dito. “Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salite per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito.) Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo” (6.54):  “La strada che ho percorso è questa: l’idealismo separa dal mondo, come unici, gli uomini, il solipsismo separa me solo, e alla fine io vedo che anch’io appartengo al resto del mondo; da una parte resta dunque nulla, dall’altra, unico, il mondo”[3].

 

[1] Dalla lettera di Wittgenstein a Russell del 19 agosto 1919, citato in R. Monk, Wittgenstein, Bompiani 2000, p. 167.
[2] Le proposizioni del Tractatus sono numerate secondo un ordine crescente; maggiore è il numero di cifre associato alla proposizione, più questa è rilevante. Tutte le citazioni del Tractatus sono riprese dal testo tradotto da Amedeo G. Conte, edito in L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi 1990.
[3] L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in data 15 ottobre 1916, ed. cit. p. 188.