Appunti sulla domanda di senso. Parte I
Altre puntate della stessa serie:
- Wittgenstein e il buddhismo. Appunti sulla domanda di senso/2
- Wittgenstein e il buddhismo. Appunti sulla domanda di senso/3
- Introduzione
- Cosa so?
- Mondo
- “È”
- So che io
- Io è mondo
- Il problematico
- Fuori dal mondo
- Vita
- Volontà
- Bene e male
- Prima conclusione
Introduzione – indice
“Quaderni 1914-16” sono uno straordinario taccuino filosofico-esistenziale nel quale Ludwig Wittgenstein scriveva durante il periodo della guerra, periodo in cui prestava servizio nell’esercito austriaco.
Dopo molte pagine dedicate alla logica formale i Quaderni registrano una svolta nell’estate del 1916, quando il giovane filosofo è stato appena trasferito in prima linea. In un appunto dell’11 giugno irrompe la domanda sul senso del mondo. Segue una secca sequenza di osservazioni, ognuna delle quali condiziona la successiva fino a formare il mondo del bene e del male, della felicità e del dolore. Al termine, utilizzando un linguaggio teologico, si apre una direzione di soluzione:
Che cosa so di Dio e del fine della vita?
So che questo mondo è.
Che io sto in esso come l’occhio nel suo campo visivo.
Che qualcosa in esso è problematico, ciò che noi chiamiamo il suo senso.
Che questo senso non risiede in esso, ma al di fuori di esso.
Che la vita è il mondo.
Che la mia volontà compenetra il mondo.
Che la mia volontà è buona o cattiva.
Che dunque bene e male sono in qualche modo congiunti al senso del mondo.Il senso della vita, cioè il senso del mondo possiamo chiamarlo Dio.
E collegare a ciò la similitudine di Dio come padre.
La preghiera è il pensiero sul senso del mondo.
Non posso volgere gli avvenimenti del mondo secondo la mia volontà; piuttosto sono completamente impotente.
Solo così posso rendermi indipendente dal mondo – e in un certo senso quindi dominarlo – rinunciando a un influsso sugli avvenimenti. (Q 11.6.16).
Un appunto filosofico, una preghiera, una poesia. Che cercheremo di esaminare riga per riga, per ritrovare il nesso tra ciò che Wittgenstein sentiva in prima linea e quello che noi sentiamo in prima persona. Cercando di aprirci alla sua intuizione.
Una intuizione che come vedremo ricorda da vicino quella descritta dal buddhismo nella coproduzione condizionata (sans. pratîtyasamutpâda), il meccanismo che lega l’uomo alla sofferenza esistenziale.
Cosa so? – indice
Il giovane Wittgenstein due anni prima di scrivere queste righe aveva lasciato il palazzo dorato della sua ricchissima famiglia a Vienna ed era partito volontario per la guerra. Davanti alla sofferenza, alla morte, non aveva mai smesso di interrogarsi su Dio. Scavando, portando ai limiti tutti i suoi strumenti di logica e di ragione.
L’appunto dell’11 giugno 1916 rappresenta una svolta nei Quaderni. Nei mesi successivi Wittgenstein non scriverà più di logica formale ma di temi etici, che si ritrovano poi ordinati secondo l’originale percorso numerato della sua opera più famosa, il Tractatus Logico Philosophicus, pubblicato nel 1921.
A partire da questa nota si può proporre un parallelo con un’altra rigorosa sequenza di osservazioni nata in una cultura ed in un tempo assai diversi: la coproduzione condizionata (sscr. pratîtyasamutpâda) fu enunciata in India 2500 anni fa ed è la descrizione fenomenologica del buddhismo di come nell’esperienza di ciascuno si produce un “mondo” di attaccamenti e sofferenze. Un parallelo appena abbozzato, solo per aprire ad ulteriori riflessioni. Rivolto a chi, come scriveva Wittgenstein nell’introduzione del Tractatus, possa ricavare piacere ritrovando qui espresso in pensieri ciò che ha già sentito e vissuto per suo conto.
Che cosa so di Dio e del fine della vita?
Dio, come si legge oltre, è un modo di chiamare il senso del mondo.
La questione del senso è l’origine di ogni domandare. Cosa so riguardo al senso di tutto questo e al suo fine? Cosa è? Da dove viene? Verso cosa va?
Una domanda che abita nella nostra mente come fosse qualcosa di vivo, nascosta e pronta a balzare fuori. Una domanda non troppo diversa da quella che ciascuno può porsi in ogni momento, se non si è già narcotizzato in una vita di ripetizioni tranquillizzanti o se non si è dato per vinto. O se, come Ludwig Wittgenstein si trova all’improvviso scaraventato – senza nessuna voglia o possibilità di chiudere gli occhi -nell’assurdo della guerra, del lutto, della perdita, del dolore.
Il Buddismo pone all’origine della sofferenza l’ignoranza fondamentale (sansc. Avidya) della causa prima e del fine ultimo[1]. Non si pone in questione se il mondo abbia o no “senso”, non è termine che appartiene alla cultura orientale. Ma l’ignoranza di Avidya evidenzia come all’inizio della catena di eventi che porta all’attaccamento e alla sofferenza non c’è una risposta. C’è una domanda, un abisso. Chi lo ha visto?
Il brâhmana Dona vide il Buddha seduto sotto un albero
e fu tanto colpito dall’aura consapevole e serena che emanava,
nonché dallo splendore del suo aspetto, che gli chiese:
– Sei per caso un dio?
– No, brâhmana, non sono un dio.
– Allora sei un angelo?
– No davvero, brâhmana.
– Allora sei uno spirito?
– No, non sono uno spirito.
– Allora sei un essere umano?
– No, brahmana, io non sono un essere umano […]
– […] E allora, che cosa sei? […]
– […] Io sono sveglio.
(Anguttara Nikâya -“Dona Sutta”)
Mondo – indice
So che questo mondo è.
La prima evidenza. Il puro fatto del “c’è mondo”. Non ha un senso o una finalità, e proprio per questo sorge la domanda di senso: c’è un mondo, Perché? Quali sono le ragioni e le giustificazioni per questo fatto? Nessuna? Un Dio creatore?
Per ora esaminiamo cosa intende Wittgenstein con “mondo”.
Per Wittgenstein è tutto ciò che accade, la totalità dei fatti.
I fatti sono gli stati formati da interconnessione tra le cose (T 1, 1.1, 2), così come il linguaggio è la totalità delle proposizioni formate da interconnessioni tra nomi (T 4.001).
Questo significa che la struttura del mondo non esiste di per sé in modo oggettivo, ma è costituita a partire dalle strutture logiche e linguistiche che in ogni istante necessariamente usiamo per rappresentarcelo[2].
Sia i fatti sia le proposizioni che usiamo per descriverli sono costruzioni, la cui natura è interconnessa, relazionale, non indipendente:
“Non possiamo concepire nessun oggetto fuori della sua possibilità di nesso con altri”(T 2.0121).
Riuscite a immaginare un qualsiasi oggetto, soggetto, atto, parola, particella o organismo che abbia significato di per sé? Una “cosa” che possiate riconoscere al di fuori della rete di rapporti in cui è inserita?
Wittgenstein non crede che esistano oggetti o elementi logici semplici e dotati di propria sostanza, di propria essenza. Non crede che esistano particelle elementari che si combinano per dare materia e linguaggio. Infatti anche questi “atomi di realtà” sono a loro volta combinazioni[3] e hanno natura relazionale e non sostanziale. Su questa stessa conclusione oggi convergono anche la fisica quantistica e la filosofia del linguaggio, in un parallelo fortissimo con il pensiero buddista: non vi è alcuna sostanza propria (sscr. svabhavasunya: vacuità di essenza propria) a nessun livello della realtà.
La totalità dei fatti, il mondo, è la totalità delle connessioni. Tra cosa? Non c’è nient’altro.
“È” – indice
Ancora su: So
che questo mondo è.
È Se il mondo è la totalità dei fatti, cosa significa che “è”?
Non che sta in un luogo o in un tempo, perché anche luogo e tempo fanno parte dei fatti.
Come si può cogliere la totalità e dire che “è”? Non enumerando e sommando singoli fatti. Ma attraverso esperienze in cui, di colpo, i fatti si unificano. Come quando, nel caos di una nave da guerra, solo, sottoposto allo scherno di rozzi commilitoni[4], Wittgenstein scrive
“Mi sento perduto ed abbandonato. Solo una cosa è necessaria: essere capaci di osservare tutto ciò che accade. Concentrati. Dio mi aiuti” (DS 25.8.14).
Gli succede di “osservare tutto” e “sapere che questo mondo è” proprio nel momento in cui si ritrova nell’assoluta contingenza. Nella percezione che le situazioni casuali, caotiche, in cui ci ritroviamo siano appiattite nel loro esser-così. Tutti i fatti restano irrilevanti.
Il mondo in questo momento si dà a Wittgenstein nella forma della guerra, una follia che egli non può che vedere come un “accidente” non necessario, non giustificato. L’assoluta contingenza gli permette di realizzare che “questo mondo è”: una illuminazione sulla esistenza non diversa da “Io sono” ed estesa alla totalità dei fatti.
Al giovane Wittgenstein si presenta da subito non come una esperienza risolutiva, anzi problematica: l’esistenza del mondo è immediatamente ingiustificatezza e mancanza di senso. Come scriverà nel Tractatus:
“Qualcosa può accadere o non accadere e tutto il resto rimane uguale” (T 1.121).
“Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene. Non v’è in esso alcun valore – né se vi fosse avrebbe un valore” (T 6.41).
In questa frase si mostra chiaro, anche se non tematizzato, il significato di “nulla”: appena si coglie “tutto c’è” attraverso la contingenza, immediatamente appare il nulla di significazione e, più radicalmente, un nulla di fondamento che nega valore a tutti i fatti. È questo l’abisso sotto al mondo che il Buddha nella coproduzione condizionata chiama Avidya.
Da lì sorge la domanda sul senso: Che senso ha tutto? Come, in base a che valore, debbo vivere?
L’accompagna un grande sconcerto, un “sentirsi perduto” che sfocia in irrequieto impulso all’azione (sansc. Samskara), al domandare, un tentativo di capire, o di fuggire, o di trovare il modo giusto per vivere, l’etica adeguata.
Wittgenstein spesso parla di “etica” come sinonimo di “senso del mondo” o “senso della vita” (T 6.521, 6.53) o “problema della vita” (PD pag. 58).
Questo sconcerto e il suo movimento sono raccolti intorno a un centro, evidenziano il nucleo che li vive in prima persona: Io. Sarà l’osservazione successiva.
So che io – indice
So che io sto nel mondo come l’occhio nel suo campo visivo.
Il mondo sa di sé grazie ad un Io, come il campo visivo si sperimenta grazie a un occhio.
In termini più filosofici : come l’occhio è la condizione di possibilità del campo di esperienza della visione, così l’Io è la condizione di possibilità perché il mondo faccia esperienza di sé e sappia di essere.
Nei termini del Pratītyasamutpāda buddista, l’intensità della ignoranza fondamentale (Avidya) e degli impulsi che essa genera (Samskaras) si condensa nella esperienza di un Io, di un soggetto centrale (sansc. Vijnana).
Ciò che Wittgenstein sottolinea qui è per lui capitale: Io non è fuori dal mondo, dalla totalità dei fatti. È pure esso contingente e ingiustificato.
Sulla base di questa comune natura di soggetto e mondo, Wittgenstein negherà per tutta la vita la metafora dualistica di colui che vede e di ciò che è visto, di soggetto e oggetto. Per questo è stato a volte travisato fino a considerarlo quasi un comportamentista che nega l’esistenza dell’esperienza interna[5]. Ma nulla è più lontano dal vero, semplicemente egli nega la natura trascendente del soggetto come uno Spirito idealista e metafisico, che sta al di là del mondo.
Nei mesi successivi sono numerosi gli appunti sulla natura dell’Io. Da un lato Wittgenstein ne coglie l’evidenza come centro di conoscenza, come Io metafisico e non psicologico che “è limite e non una parte del mondo” (Q 2.9.1916). Dall’altro dubita della sua reale esistenza come oggetto o soggetto metafisico:
“Ove nel mondo vedere un oggetto metafisico? Tu dici che è proprio così, come l’occhio nel campo visivo. Ma l’occhio in realtà tu non lo vedi. E io credo che nulla nel campo visivo faccia concludere che esso sia visto da un occhio” (Q 4.8.1916).
Può sembrare una affermazione contraddittoria rispetto a quella iniziale. Ma forse basta distinguere meglio tra piano conoscitivo (in cui il mondo oggettivo appare con la forte impressione di un Io-soggetto che lo conosce) e quello dell’unica totalità dei fatti ( in cui Io fa parte della totalità e non è di natura diversa e privilegiata rispetto a tutto il resto).
Anche per il buddismo, l’Io cosciente (Vijnana) è una porta di accesso alla conoscenza della realtà interiore ma – a differenza di quanto afferma la tradizione induista criticata dal Buddha – resta ancora una sottile illusione: non ha una propria sostanza ed essenza, ma come tutti i fatti è un costrutto formato da interconnessioni tra elementi a loro volta costruiti o aggregati (skanda). Fa parte del mondo, non garantisce la liberazione.
Ma come fa l’occhio a cogliere se stesso? E a cogliersi come un pezzo di mondo piuttosto che come uno sguardo esterno ad esso, di natura metafisica?
Dovremo esaminare ancora questa riga.
Io è mondo – indice
Ancora su: So che io sto nel mondo come l’occhio nel suo campo visivo.
È interessante chiederci come è avvenuto in Wittgenstein il passaggio dal “soggetto metafisico” idealista, all’io come parte del mondo.
Non è avvenuto negando l’esperienza in prima persona e riducendo il soggetto a un pezzo di natura, come tendono a fare oggi le neuroscienze che si occupano della ricerca sulla mente e la coscienza: esse criticano il dualismo mente-materia riducendo tutto alla materia cerebrale.
Il passaggio di Wittgenstein è estremamente più sottile e parte proprio da una esperienza interiore tra le più radicali, quella del solipsismo. Come affermerà in seguito
“Ciò che il solipsismo intende è del tutto corretto; solo, non si può dire, ma mostra sé.” (T 5.62).
Racconta questa esperienza in un appunto di pochi mesi dopo (Q 11.10.16), in cui descrive l'”unificarsi” dell’Io-occhio del mondo con i fatti del mondo. In quattro passaggi sintetici:
1) l’Io-Spirito si esprime nel dare significato al mio corpo e mondo, e parimenti ogni animale o cosa esprime il suo spirito (idealismo).
2) Ma posso essere certo solo di questo mio spirito, quindi lo spirito di un leone o di una casa è il mio spirito (solipsismo).
3) Proprio perché Io si esprime come spirito comune in tutto ciò che c’è al mondo, vedo che Io è mondo, Io appartiene al resto del mondo;
4) il “solo Io” del solipsismo diviene “solo mondo”, un unico tutto, ed oltre ad esso, nulla.
E conclude:
“La strada che ho percorso è questa: l’idealismo separa dal mondo gli uomini come unici; il solipsismo separa soltanto me, e infine vedo che anch’io appartengo al resto del mondo; da una parte resta dunque nulla, dall’altra, unico, il mondo. Così l’idealismo, pensato con rigore profondo, porta al realismo“. (Q 11.10.16)
La posizione idealista del “tutto è in me”, portata agli estremi giunge a un tutto unico che comprende il “me” e che coincide con il realismo: “La realtà tutta è il mondo” (T 2.063). Non c’è illusione come opposto della realtà, non c’è una metafisica dell’Io o di Dio opposta al mondo. Solamente resta da una parte tutta l’esistenza (mondo-realtà) e dell’altra il nulla, ciò che non c’è ma mostra ciò che è.
In questo tutto unico Io è il sapere che il mondo esiste, il luogo dello stupirsi e interrogarsi sul senso dell’esistenza del mondo. In modo apparentemente contraddittorio, il soggetto che conosce il mondo è nel contempo dentro il mondo dei fatti e introvabile nel mondo:
“È vero che un soggetto che conosce non è nel mondo, che non v’è” (Q 20.10.16).
Il problematico – indice
So che qualcosa nel mondo è problematico, ciò che noi chiamiamo il suo senso.
Secondo il Pratityasamutpada del Buddhismo, “Io” si articola nel mondo attraverso corpo, mente, sensi (sansc. Namarupa, Sadàyatana) e ogni volta che vi entra in contatto (sansc. Sparsha) incontra il “problematico”. Il problematico nasce dal denso unico tutto contingente, che ci coglie quando viviamo la mancanza, la perdita, la minaccia, l’assurdo. Da un lato il tutto contingente e dall’altra parte – che non c’è – il nulla. Il problematico è il fatto unico dell’esistenza.
Da questo impatto e dal contrasto tra l’unico e il nulla nasce la domanda di senso. Può prendere la forma di perplessità e smarrimento come quelli che Wittgenstein stava provando nella guerra in prima linea. O la forma della domanda sulla esistenza di Dio, del senso di inutilità, della percezione di ingiustizia.
Una domanda di senso che nasce – ripetiamolo con le parole di Wittgenstein – dall’impatto non con il “come” dei fatti, ma con il fatto che tutti – comunque siano – sono. Una domanda molto vicina al silenzio dei mistici (dal greco muein, tacere):
“Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è” (T 6.44).
Fuori dal mondo – indice
So che questo senso non risiede nel mondo, ma al di fuori di esso.
Qui si apre un inciso – una ferma considerazione sull’insormontabile difficoltà contenuta nel problema del senso. Se un senso del mondo esiste, non può stare dentro al mondo dei fatti, poiché i fatti sono proprio così come sono. Per Wittgenstein
“Ciò che rende un valore non-accidentale non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Deve essere fuori dal mondo” (T 6.41).
Ovvero, se il “senso” che pretende di spiegare e di donare valore a tutti i fatti del mondo, fosse qualcosa del mondo (ovvero un fatto a sua volta contingente e ingiustificato come la conoscenza scientifica, la spinta evolutiva, la legge morale, l’Io spirituale o un dio) non avrebbe senso alcuno perché non spiegherebbe se stesso.
Teniamo presente che tutto il lavoro che Wittgenstein poi svilupperà nel Tractatus è una gigantesca demolizione – o meglio, delimitazione – delle possibilità di indagare e spiegare in modo logico-scientifico le domande relative al valore e al senso. Non per questo bisogna pensare, come fecero i Positivisti del circolo di Vienna, che egli negasse importanza alle espressioni etiche e religiose, e le giudicasse insensate e da dissolvere con una corretta analisi logica. La loro “insensatezza” significa l’indicibile ed è per Wittgenstein la loro intrinseca e peculiare essenza, che egli non avrebbe voluto “a costo della vita, porre in ridicolo” (LC).
Ma anche cercare altri tipi di soluzioni e di senso è un’impresa destinata al fallimento. Ad esempio se vivessimo una vita eterna – o senza sofferenza – essa sarebbe sensata?
“Forse per il fatto che io sopravviva in eterno è sciolto un enigma? Non è forse questa vita eterna così enigmatica come la presente?” (T 6.4312).
Il fatto che c’è vita, eterna o impermanente, gioiosa o sofferente, resta accidentale[6], perché un altro modo di vita, o una nuova “costruzione di senso”, sono fatti, e
“I fatti appartengono tutti soltanto al problema, non alla soluzione” (T 6.4321)
Ora il problema è totalizzante: se il mondo è tutto, che significa cercare o trovare un senso “fuori dal mondo”?
Vita – indice
So che la vita è il mondo.
Wittgenstein – dopo aver indagato l’origine del problema del senso – inizia da qui le sue osservazioni su come esso si dispiega, come diventa bene e male, gioia e dolore.
Riparte dalla “vita”, ovvero l’Io vissuto che coincide con il mondo:
“Il mondo e la vita sono tutt’uno. La vita fisiologica naturalmente non è la vita, e nemmeno quella psicologica. La vita è il mondo“. (Q 24.7.1916)
Ma cosa significa “vita” se non la fisiologia o la psiche?
Vita, il vivente in prima persona, è un immediato sentire accoppiato con un’azione. Una senzienza anche semplicissima, cellulare, che è sempre associata ad una energia manifestata dal movimento. Di seguito si autorganizza e si struttura in un organismo, un comportamento, una ecologia. Ma sempre resta sentire ed agire.
Il sentire-agire della vita è il luogo in cui il mondo sente se stesso. Per questo la vita è il mondo. E dal vivente la domanda di senso si dispiega – come vedremo – nella volontà.
Una struttura molto simile a quella della coproduzione condizionata del buddismo: quando accade il contatto (Sparsha) con il “problematico” non c’è fredda constatazione, ma un sentire che lo gradisce o meno (sansc. Vedana). Ciò vale per tutte le forme di vita: ogni organismo quando impatta uno stimolo per lui significativo lo sente immediatamente e necessariamente o piacevole o spiacevole ed ha una reazione vitale. Un battere preferisce avvicinarsi o allontanarsi da certe concentrazioni di sali nel suo liquido, una pianta orienta la sua crescita verso la giusta quantità di luce.
La vita nel suo sentire, colorato di apprezzamento o repulsione, crea le condizioni per il movimento della volontà e del desiderio (sansc. Trishna). L’osservazione successiva.
Volontà – indice
So che la mia volontà compenetra il mondo.
Ad ogni contatto con il problematico accade che il mondo venga innervato dalla volontà personale e dal desiderio che è un suo atto (Q 21.7.16). La volontà è la struttura formata dall’insieme dei contatti e delle reazioni precedenti; per sua azione si generano teorie e risposte per spiegare il mondo e si produce un Ego che lo abita, con un certo carattere e immagine di sé.
Il buddhismo chiama questa forza “sete” (sscr. Trishna), il desiderio di stare in una situazione piacevole e di allontanarsi da una sgradevole. È la forza psichica che colora il nostro mondo di aspettative, che trasforma l’impatto con “il problematico” in spinta a progettare, a mantenere o a distruggere.
So che la mia volontà è buona o cattiva.
In noi c’è questa ineliminabile percezione del meglio e del peggio. Essa ci guida nelle domande, nella ricerca, nelle scelte. Può essere una ricerca di sollievo illusorio o una ricerca di verità ultima, ma è sempre sospinta dalla volontà:
“Io voglio chiamare volontà soprattutto il portatore del buono e del cattivo” (Q 21.7.16)
La volontà del soggetto separa in modo funzionale il mondo, e stessa, in due.
“Il mondo è allora, in sé, né buono né cattivo. […] Bene e male non interviene che attraverso il soggetto” (Q2.8.1916)
Anche per il buddismo sono la volontà e il desiderio che dividono il mondo in bene e male, e che ci portano ad abitare queste qualità con grande attaccamento.
L’idea di bene e nel male, di giusto e sbagliato, di mio e tuo ci fornisce coordinate definite per la nostra vita nelle quali siamo fortemente immedesimati (sansc. Upadana).
Bene e male – indice
So che dunque bene e male sono in qualche modo congiunti al senso del mondo.
Wittgenstein individua in modo straordinario il nesso tra la volontà del soggetto e il problema del senso. Lo indica quindi non come un problema in sé, inevitabile, ma come un problema di rapporto.
Egli non giudica la “volontà cattiva” come causa del “male”, della sofferenza, dell’orrore della guerra. Infatti
“Della volontà come portatore dell’etico non può parlarsi. E la volontà come fenomeno interessa solo la psicologia” (T 6.423).
Come vedremo Wittgenstein sta puntando non a un ennesimo giudizio e progetto di trasformazione del mondo, ma vuole rimettere in discussione il credito che diamo alla volontà che ci abita.
Nel Pratityasamutpada del Buddismo si individua il problema del “male” e della sofferenza – oggi diremmo del nonsenso, del mal di vivere – nel credito e nell’attaccamento che sviluppiamo verso una volontà illusa, verso aspettative ideali o arbitrarie.
In dettaglio, quando viviamo le spinte dell’attaccamento (Sanscr. Trishna) ci immedesimiamo completamente (sanscr. Upadana) in esse.
Allora ci slanciamo in avanti verso un progetto, un ottenimento, un modo di esistenza definito e riconoscibile, dotato di “senso” (sscr. Bhava).
Incollati a questo modo di esistenza restiamo trattenuti nel tempo, tra speranze e rimpianti, tra sofferenza del vivere e paura di morire (sansc. Jati, Jara-Marana, tre termini che indicano nascita, vecchiezza e morte: non da intendere come fatti futuri e inconoscibili ma eventi di ogni istante di coscienza, che sorge, ci trattiene, degrada e muore).
Prima conclusione – indice
Si conclude qui l’osservazione sui fatti del mondo. Su come appaiono gli uni in dipendenza degli altri. Su come si dispiegano fino a dare la sofferenza e la gioia dell’uomo.
Non sono legati da rapporti di causa effetto, ma sono istantaneamente presenti in ogni esperienza. Il parallelo tra le osservazioni di Wittgenstein e quelle del Pratityasamutpada del Buddha è impressionante. In entrambi i casi nasce da una esperienza vissuta ed esaminata:
1) domanda di senso (Avidya): cosa so di Dio e del fine della vita?
2) sconcerto, spinta a capire (Samskara): so che il mondo è!
3) Io cosciente (Vijnana): so che io sono parte del mondo
Nel buddismo, ma solo da un certo punto della sua storia in poi[7] a questo punto si riconoscono alcuni passaggi intermedi: l’Io cosciente si espande in una mente e in un corpo (Namarupa) e in canali di senso (Svadayatana). La parte enunciata direttamente dal Buddha prosegue:
4) contatto problematico (Sparsha): qualcosa nel mondo è problematico, ciò che noi chiamiamo senso e che non può stare dentro al mondo
5) reazione vitale (Vedana): so che la vita e il mondo sono tutt’uno
6) volontà (Trishna): so che la mia volontà compenetra il mondo
7) male e bene (Upadana): so che la mia volontà è buona o cattiva
8) esistenza riconoscibile e dotata di “senso” (Bhava): bene e male sono congiunti al problema del senso.
Nel buddismo, ma di nuovo solo da un certo punto della sua storia in poi, la descrizione si conclude con alcuni passaggi finali, che erano legati soprattutto alla dottrina della reincarnazione: Jati, Jara-Marana, nascita vecchiezza e morte. Ma come detto, possiamo intenderli anche in senso della fenomenologia d’ogni istante.
Quale alternativa all’inganno della volontà? La “vita felice” che sappia rinunciare e viva nel presente, in armonia con una volontà più grande (Q 8.7.16). Sarà il tema della seconda parte.
A cura di
Roberto Ferrari
NOTA: abbreviazioni per i testi di Ludwig Wittgenstein nelle traduzioni di cui dispongo.
(Q ): Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico Philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte Einaudi, Torino 1995.
(T ): Tractatus logico Philosophicus, in Tractatus logico Philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. italiana A.G. Conte Einaudi, Torino 1995.
(DS): Diari segreti (1914-1916), trad. italiana F. Funtò, Laterza, Roma-Bari 1987.
(PD): Pensieri Diversi (1914-1951), trad. italiana M.Ranchetti, Adelphi, Milano 1980.
(LC) Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, tr. it. M. Ranchetti, Milano, Adelphi, 1967.
Altre puntate della stessa serie: