La schiusura dell’improvviso, totalizzante, irreversibile sentimento rivelante che esserci è evento eccedente il niente è il momento in cui la via ha davvero inizio.
Tale sentire parla la voce di quel che non dovrebbe stare accadendo perché non può.
Quello che non ha cause e condizioni che lo rendano possibile non può stare accadendo.
Essere riguarda tutto ciò che differisce da niente, senza eccezione.
Il niente non è qualcosa; il niente non esiste.
Tutto quello che, in qualsiasi modo, esiste, differendo da niente, è parte dell’essente nel suo insieme.
Il confine è netto:
o niente del tutto
o del tutto altro-da-niente.
Accade – assurdo! – che ci si ritrovi a essere.
Poiché cause e condizioni che rendano possibile un accadimento devono esse stesse esistere, con ciò non possono esistere cause e condizioni dell’esistenza stessa, poiché ne costituirebbero parte, e il problema dell’esistenza, dell’alterità rispetto a niente, non potrebbe essere così risolto.
Un problema si risolve, un mistero no. Esso, appurato tale, desta stupore senza fine. Lo si contempla.
Di ciò si sa. Si sa il niente e si sa l’interezza dell’altro-da-niente, definito proprio dal niente.
Non necessitiamo di conoscere i dettagli della composizione dell’altro-da-niente; ci è sufficiente sapere che la sua differenza totale rispetto a niente lo pone interamente dalla parte dell’essente.
Tutto ciò che si presenta, anche in tempi diversi, differendo rispetto a niente, fa parte dell’altro-da-niente nel suo insieme.
L’altro-da-niente, definito e confinato dal niente e dai significati fondamentale di “altro da…”, “differente rispetto a…” – significato che ci ritroviamo “in dotazione” – lo chiamiamo “essente”.
Ma la parola “essente”, in sé, non ci dice nulla, se non è definita come alterità, differenza rispetto a niente.
Di ciò si sa. Il sapere è sapere dell’essere anche del sapere.
Il confine netto tra niente e l’altro-da-niente – mostra l’impossibiltà di stabilire un ponte di generazione o di annichilazione tra essente e niente.
L’altro-da-niente non può esser venuto all’essere dal niente (infatti il niente non può niente, poiché non esiste), e neppure può ritornare al niente, poiché il niente non esiste e non è contemplabile una entrata in qualcosa di inesistente.
L’altro-da-niente dunque, differisce da niente senza ragione, causa, condizione, possibilità, giustificazione, fondamento…
Non può essere, eppure accade.
Ciò, ben contemplato, risveglia un magico stupore.
Sta accadendo quel che non può accadere.
Di ciò si giunge al sapere nel sapore della meraviglia. Solo se tale sapore significativo si risveglia e domina il nostro sapere, si sa davvero di esistere. Se no lo si pensa solamente, anche se a livelli di altissimo concetto.
Tale stupefatta sapienza è dell’essere circa l’essere.
Non è una sapienza ordinaria. Non è mentale. Essa è suprema e, purtroppo, eccezionale.
Si risveglia compiutamente solo in pochi, perché pochi la cercano.
Questa nostra dimensione umana ha una relazione debole con tale sapienza; solo raramente la pone al centro dei suoi obiettivi.
La tradizione tramanda che tale sapienza fosse stata preservata per secoli nel mondo dei Naga, creature serpentiformi che vivono sul fondo degli oceani, finché Nagarjuna non la riportò tra gli uomini e non ne rivelò di nuovo il significato profondo.
Punto focale:
poiché il sapere presenta anche un aspetto esperito, esso stesso è altro-da-niente, ovvero esiste.
Si sa che v’è sapere dell’essere – e non niente di sapere dell’essere.
Anche tale estremo sapere, dunque, differisce rispetto a niente, rientrando così nell’altro-da-niente nel suo insieme.
Ma, se sapere è sempre sapere di qualcosa, cosa significa sapere dell’essere anche del sapere?
Il sapere pare dunque avere due aspetti: uno, entificato, appare ed è esperito come altro-da-niente; l’altro, invece, non può essere considerato ente, poiché “sa” di ogni altro-da-niente – inclusi ogni apparire ed esperire.
Tale aspetto sempre differente è il vero sapere dell’essere.
È impensabile – poiché anche ogni pensiero è altro-da-niente –, eppure tale sapienza è costantemente accesa.
Non è qualcosa, poiché sa di ogni cosa, anche del proprio essere esperito; e neppure è un mero niente, poiché dell’essere – differire da niente – si sa.
Il sapere del differire da niente di OGNI altro da niente – incluse queste mie stesse parole e i pensieri che le generano ed accompagnano – è la Prajna.
Non è spirito (atman), poiché anche esso sarebbe altro-da-niente.
Non è una coscienza osservatrice suprema (purusha) per la stessa ragione.
Neppure si può definirlo pensiero (chit), termine troppo vago e comunque sempre differente rispetto a niente, poiché pensiero c’è, e non niente di pensiero.
Nel Tantra si dice che non esiste un “quanto” di sapere disgiunto dal suo correlato energetico.
Il sapere certamente ha il suo correlato energetico, esperito nel tempo, ma anche tutto questo è saputo essere.
Quando si giunge al sapere differente – Prajna – e quando si è nelle condizioni di questa contemplazione che avviene né da parte di qualcuno né di nessuno, si vive la “Unione di vacuità e beatitudine”.
Ne vale la pena, amici.
Ma, infine, è il nostro destino ultimo, e nessuno ne verrà escluso.