Il principio della biologia è la teoria dell’evoluzione, un principio che resiste da 150 anni. La formulazione originale di Charles Darwin è stata confermata con solo piccole correzioni da ogni sorta di prove scientifiche. Questo principio sembra capace di fornirci di un’identità reale e di dare un senso esistenziale alla biologia dell’uomo, a tutto ciò che ha dietro le spalle. In questa riflessione vogliamo esaminare quali identità l’evoluzione biologica ci propone e soprattutto che esperienza fenomenologica accompagna il nostro considerare questi modelli biologici; dopo esserci chiesti “cosa si prova a essere un pipistrello” dobbiamo chiederci: come ci si sente a essere il veicolo di geni egoisti?
Identità bio-evolutiva
Viviamo su un pianeta che ha cinque miliardi di anni e in un universo che ne ha circa il triplo; tre miliardi e mezzo di anni fa è comparso il primo stromatolita, e da allora la vita è esplosa in tutte le direzioni possibili, fino a noi.
Se accogliamo questa visione espansa ci possiamo collocare in un contesto più ampio di quello personale: ci ritroviamo affratellati con gli sforzi e i fallimenti evolutivi dei batteri, con la lotta dei primi insettivori e la levata su due zampe dei primati.
Nasce quasi un entusiasmo per l’improbabile ma perfetta espansione della corteccia del cervello umano, frutto di un sottile bilanciamento evolutivo che ha permesso di prolungare la gestazione e di far crescere al massimo la testa, ma non tanto da impedire che le femmine di primate (le nostre progenitrici) avessero da partorire piccoli troppo grandi di cranio: l’evoluzione le dotò di un bacino più ampio per far passare il nuovo cervello pur conservando la posizione a due zampe (pagando solo il prezzo di un parto più doloroso degli animali a quattro zampe).
Lo stesso entusiasmo si estende anche ad altre specie, per esempio osservando la specializzazione alla vita notturna dei pipistrelli: questi mammiferi hanno reinventato il volo milioni di anni dopo i primi dinosauri piumati che oggi chiamiamo uccelli.
E dagli uccelli trovarono già occupato il cielo diurno, così da trovarsi costretti a colonizzare la notte evolvendo un geniale sistema di eco-locazione; senza bisogno di dotarsi di enormi teste e occhi come i gufi, oggi i pipistrelli sono senz’altro, come numero di specie, il più grande successo dei mammiferi su questo pianeta.
Perché entusiasmo? Perché realizziamo che noi siamo parte di questo enorme, incessante movimento dell’evoluzione, espanso nel tempo ma tangibile qui e ora nella precisione di ogni nostro atto e pensiero.
Ci si sente parte di qualcosa di infinitamente più potente dell’individuo e della specie: come stare al sicuro nel cuore stesso della vita.
Però alcune domande premono, in particolare quelle che riguardano quell’“Io” che sembra sempre così difficile da collocare e far coincidere con qualcosa di preciso.
Anche se preda dell’entusiasmo evolutivo, a ciascuno è evidente che non è un fiero abitante delle savane occupato solo a uccidere e accoppiarsi: cosa siamo? Primati malinconici che si impegnano in futili questioni filosofiche?
E poi ci sono altre domande, accompagnate da tonalità emotive di inquietudine e sgomento: perché c’è tutta questa danza evolutiva della vita? Dove ci sta portando questa magnifica continua trasformazione? Poteva darsi meno da fare, tanto davanti c’è solo la morte… e la morte è sempre la stessa, sia che si muoia come pesce polmonato che tenta il grande balzo evolutivo sulla terraferma, sia che si muoia come scienziato che lo studia: in entrambi i casi in quell’istante siamo fatti di carne, sangue e cieco terrore.
La biologia evoluzionistica a queste domande fornisce una risposta netta: tutte le forme di vita prodotte dell’evoluzione, nella loro magnificenza, sorgono per l’azione combinata del caso e della selezione naturale [i]; non avendo una causa, non hanno neppure alcun fine se non quello di perpetuare se stessi.
La mirabile varietà delle forme viventi sembra un prodigio se visto da fuori, ma se si considera che anche Io è un prodotto evolutivo del caso allora si avverte quella malinconia, un sottile senso di desolazione: l’evoluzione è da niente, e per niente.
Per caso e senza scopo.
Il correlato esperienziale della visione della biologia evolutiva – corretta ma sterilizzata di ogni significato – è una sottile forma di sconforto: se non riusciamo a tenerlo a distanza aderendo a qualche teoria sovrannaturale, sembra persino assurdo che la vita insista tanto nel perpetuare se stessa.
Identità ecosistemica
Il principio dell’evoluzione porta con sé questo perplesso “per niente”, ma forse possiamo cercare il senso della vita nella stupefacente armonia naturale che rivelano le danze di molecole, di organismi, di ecosistemi.
La biologia dei sistemi [ii] si occupa delle sottili relazioni e dei processi che permettono la vita; una rete impalpabile ma reale, indagabile dalla fisica, dalla chimica, dalla matematica, che indagano come dal caos emergano organizzazioni complesse e ordine spontaneo.
Anche in questo caso a monte ritroviamo il principio evolutivo, però ora appare come un principio non casuale ma necessario: date certe condizioni iniziali della materia e certe variabili, la vita sorge e si sviluppa per necessità.
La rete della vita fa emergere forme (arbitrarie nelle modalità ma necessarie in essenza) sempre più complesse e integrate.
Non per un motivo preciso ma perché non può fare diversamente.
A questo punto possiamo restare di nuovo ammirati dalla direzione del movimento evolutivo verso la complessità e dalla finezza della rete, e possiamo dirigere le nostre energie nel proteggerne la fragile trama ecologica.
Così facendo ci procuriamo, come uomini, un’identità più profonda e duratura, come parte di un tutto esteso non solo nel tempo ma anche nello spazio, collegato a tutte le forme viventi: allora lottiamo per difendere le ecologie e l’ambiente, e in fondo la nostra identità “eco-globale”; il che è importante e va sostenuto, senza però cadere in una posizione impersonale e sterilizzata, per cui tentiamo di consolarci pensando che quando moriremo diventeremo il combustibile fossile di qualche civiltà futura, esattamente come le sostanze organiche e i dinosauri del Cretaceo sono diventati benzina per le nostre macchine.
Oppure, possiamo di nuovo ritrovarci nell’esperienza dell’angoscia, per questa necessità evolutiva, che ci costringe a danzare per forza un ballo in cui il nostro “me stesso” – ormai diluito in una rete di relazioni ecologiche – non riesce però a diluire la sua sofferenza, la sua mancanza di un senso: quelli restano indubbiamente a suo carico, perché il sentire non si spersonalizza con una teoria.
Come ci si sente a essere delle macchine biologiche di precisione, necessarie perché il DNA possa viaggiare nel tempo ed espandersi nello spazio [iii] , in una folle danza con miliardi di altri DNA forzati a riprodurre se stessi?
Non se ne può uscire, esistere significa essere costretti nella rete della vita.
Se dunque non ci basta una mistica del tutto-uno, del sentirsi interrelati tra rane, panda, foreste e un’identità globale e solidale, andremo ancora a cercare un senso.
Identità coscienziale
Nel tentativo di trovare uno sbocco a valle, una finalità, si potrebbe essere tentati di uscire dalla biologia ufficiale e spingersi fino a Teilhard de Chardin [iv] : questo gesuita e scienziato di inizio ‘900 sostenne che la vita evolve verso una sempre maggiore complessità perché è guidata dalla spinta a far sorgere la coscienza e la spiritualità.
Per lui la rete della vita è anche una rete di pensieri e idee, di coscienze.
La coscienza è un effetto dell’evoluzione della complessità organizzata della materia, e il suo fine è giungere alla fusione con lo Spirito.
Per Teilhard ovviamente la fonte della spinta evolutiva era Dio, ma a prescindere da questo si può osservare che in fondo il “canale” dello sguardo è stato reinventato almeno 40-50 volte nei più diversi ordini zoologici, e la visione è apparsa con caratteristiche identiche anche in linee evolutive molto differenti, come l’uomo e il polpo.
La stessa spinta evolutiva preme per generare la mente e la coscienza: l’universo si affanna per darsi un occhio per scrutarsi, a diversi livelli biologici, fino a quello umano, e forse altri a noi sconosciuti.
Dietro a eventi come l’espansione evolutiva di 400 milioni di anni fa (il big-bang biologico del Carbonifero) e come l’estinzione di massa dei dinosauri, sembra dunque esserci una spinta, una volontà di dirsi di sé, di capire.
Certamente si può contestare a Teilhard de Chardin che non bisogna confondere causa iniziale con causa finale; la causa della vita non può essere il suo prodotto; ma è certamente vero, dal punto di vista fenomenologico, che ogni evoluzione della coscienza è prima di tutto per la coscienza, poiché solo grazie alle osservazioni e ipotesi della coscienza, questa teoria si presenta alla coscienza stessa.
Questa è una via d’uscita dal “ per niente ”: c’è almeno un progetto – anche se non un progettista.
Possiamo anche immaginare che il progetto sia di giungere a una comprensione superiore, magari scientifica.
Allora la forma umana non è un caso: non è un caso che proprio i tetrapodi che partoriscono i piccoli vivi siano alla fine riusciti a mettersi in piedi e a prevalere nelle terre emerse; non è un caso che abbiamo queste due stranissime mani, un cranio così sviluppato e che la laringe (dopo molti tentativi in diversi tipi di primati, per esempio il Neandherthal) sia finalmente scesa per permettere la fonazione, il linguaggio.
Allora non ha senso pensare a millepiedi intelligenti, perché non hanno l’anatomia adatta, e gli UFO saranno molto probabilmente antropoformi.
Forse questa forma di Io è sufficiente (o funzionale) per un fine come quello di dirsi di sé.
In contrasto con il punto di vista della biologia classica secondo cui la natura non ha alcun fine, la visione finalistica di Teilhard, rilanciata anche in tempi recenti dal Principio Antropico [v] , porta un vantaggio netto per l’uomo che indaga la natura: si passa a una visione non più spersonalizzata ma con al centro la coscienza umana; perché oscuramente sentiamo che il problema siamo noi, io, non la vita in generale.
In realtà, neppure piegando il cieco principio evolutivo a un principio cosciente si risolve lo scenario di desolazione, e proprio a causa del fatto che ogni problema è per la coscienza.
Il problema della “evoluzione per niente” si ri-applica in modo potenziato, perché la coscienza, io , amplifica anche il sapere del dolore, del distacco, della mancanza, della morte.
La coscienza ha sviluppato la consapevolezza della finitezza di ogni relazione e di noi stessi, e questo recentissimo prodotto evolutivo funziona come una miscela ustionante versata sulle ferite che la vita ci procura.
Probabilmente un dinosauro non sapeva di dover morire e addirittura che si sarebbe potuto estinguere, né lo sa una lucertola; dal loro punto di vista sono eterni, e non soffrono di soffrire.
Noi invece proviamo qualcosa (soffriamo) a essere coscienti: siamo costretti ad anticipare il dolore e a ricordarlo ad anni di distanza, mentre a un dinosauro tutto ciò scivolava addosso; allora questa coscienza che scopo ultimo sarebbe? Uno scopo masochistico?
Come pizzicarsi il braccio, e capire che siamo già svegli.
Siamo in un vicolo senza uscita, non detto, ma sentito oscuramente come il male: meglio non pensarci, tenerci occupati con viaggi e sensazioni, dormirci su.
Anche se le nostre viscere (un secondo cervello totalmente autonomo) continuano a pensarci, a fare della biologia esperienziale.
Identità senza causa
Abbiamo sempre una tendenza, nella scienza come in filosofia o nella religione, a cercare un assoluto che sia risposta a tutti i nostri dubbi.
Un principio affermativo e senza ombre in cui collocarci.
Quello che è interessante è che non lo troviamo mai: sempre riemerge la strana e persistente sensazione che qualcosa non torna.
Questo non significa che non ci siano principi; è innegabile l’esistenza di dati primi e originari, sia oggettivi come le costanti fisiche dell’universo e il principio evolutivo, sia soggettivi come l’esser coscienti, il domandare, il sentire.
Se la scienza si dedica con successo a indagare i primi e trarre da essi tutte le conseguenze, la meditazione è la via per penetrare i principi soggettivi (che non sono personali ma universali e condivisi tra tutti i senzienti) e passare dai concetti sulla coscienza come quelli di Teilhard de Cardin a esperienze e significati reali.
Realizzare tutta la portata del principio soggettivo “ io ” significa realizzarne l’ esistenza , e questo rilancia con nuova forza verso la perplessità radicale: perché esistono questi principi di vita e di coscienza? Perché si sono dati un “ me stesso ” (non solo cognitivo ma anche fenomenologico, che si rivela nell’esperienza della tonalità emotiva del coinvolgimento, del “ne va di me”) che non sembra coincidere pienamente con alcuna identità biologica o metafisica ?
Appare allora chiaro che l’evoluzione o la coscienza sono come orfani, senza genitori alle spalle che li giustifichino; sono principi potenti, sapienti, funzionali e… senza causa ; dal punto di vista cognitivo sono inizi, ma i suoi correlati fenomenologici (il fatto che “ne va di me”) hanno il sapore del senza inizio .
Il principio dell’evoluzione biologica (così come quello della coscienza) sono incapaci di fornire all’uomo un’identità stabile e sensata perché – e ce lo dice la nostra esperienza sentita – la loro, la nostra esistenza resta un mistero bruciante, al cui inizio sembra esservi solo una incausata esplosione di cause.
Osando criticare ogni principio, la visione del Buddha è riuscita a tornare a questo inizio magmatico e da lì ha visto che la spinta evolutiva nasce proprio dal non senso iniziale, che il Canone Buddhista chiama avidya e definisce come “ignoranza dell’origine prima e del fine ultimo” [vi] : l’esistenza è senza causa e quindi in uno stato intrinsecamente instabile e come “radioattivo”; genera un’energia che spinge e cerca sfogo, e che evolve corpi e menti.
Questi corpi e menti – noi – con la meditazione possono spingersi fino a interrogare avidya , calandosi senza paura nella vampata dell’inizio degli inizi; per riemergerne con una nuova consapevolezza del “per niente”, capace di contemplarlo affascinata ma incapace di giudicarlo.
Centro Studi di Cognitivismo Buddhista A.S.I.A.
– Bologna
[i] Monod J. , 1970, Il caso e la necessità , Mondadori, Milano 1997.
[ii] Lazlo E., 1985, Evoluzione , Feltrinelli, Milano 1986; Kauffman S., 1995, A casa nell’universo. Le leggi del caos e della complessità , Editori Riuniti, Roma 2001.
[iii] Dawkins, R. 1976, Il gene egoista , Mondadori, Milano 1992.
[iv] Capra F., 1982, Il punto di svolta , Feltrinelli, Milano 1984.
[v] Barrow J.D., 2001, Il Principio Antropico, Adelphi, Milano 2002.
[vi] Bareau A., 1985, Vivere il buddismo , Mondadori, Milano 1990, p.156.