Intervento della prof.ssa Raquel Bouso Garcia al convegno su comparatismi e filosofia Napoli 2004, tradotto da Carlo Saviani.
Il mio intervento si accosterà al nostro tema, comparatismi e filosofia, a partire da un esempio concreto, l’opera del filosofo giapponese Ueda Shizuteru, considerato un rappresentante della cosiddetta “Scuola di Kyoto”, e tenterà di chiarire in quale misura nel suo caso si possa parlare di filosofia comparata. Prenderemo in considerazione tre aspetti: innanzitutto, la scelta dei temi affrontati da Ueda; in secondo luogo, la sua posizione rispetto alla interculturalità e all’incontro tra Oriente ed Occidente; da ultima, la sua interpretazione del problema del linguaggio, che ci offrirà una chiave per determinare cosa possa apportare l’intera prospettiva filosofica di Ueda al nostro tema in questione.
I.
A proposito del primo aspetto, ossia le tematiche sviluppate da Ueda nella sua opera, alcuni riferimenti biografici ci serviranno per presentare brevemente il filosofo. Ueda Shizuteru è nato nel 1926 a Tokyo, nella famiglia di un sacerdote della scuola buddhista Shingon. In effetti, prima di dedicarsi alla pratica zen con il maestro Kajitani nel tempio Shôkokuji di Kyoto, di tradizione Rinzai, aveva studiato presso il Monte Kôya, sede della scuola Shingon.[1]
Il suo approccio al buddhismo zen, come egli stesso spiega nel saggio La pratica dello zen, appare rispondere ad una necessità esistenziale:
Al punto morto in cui mi trovavo, lo zen mi parve una via d’uscita, e questo, insieme a molte altre cose, mi indusse a praticare la meditazione zen (zazen) e l’apprendistato zen (sanzen).[2]
Fra queste «molte altre cose», continua Ueda, il fattore più determinante fu forse l’influsso di altre persone:
Credo che gli altri esercitino un’influenza decisiva su chi prende la decisione di iniziare a praticare lo zen. Nel mio caso, per esempio, ciò che mi indusse a cominciare non fu soltanto l’interesse che sentivo per le storie zen, né il credere che lo zen mi avrebbe offerto un cammino verso la libertà; da sole, tutte queste cose non avrebbero mai rappresentato per me una motivazione sufficiente. Credo che l’unico che possa portare veramente una persona a credere che lo zen possa essere il miglior percorso, e a perseverare in esso una volta iniziato, sia una persona in carne ed ossa, che faccia da esempio vivente.
Ueda nomina D. T. Suzuki non solo per le opere che lo iniziarono allo zen, ma come la persona che gli ispirò questo cammino. Sebbene la parola scritta sia importante, aggiunge Ueda, «ciò che fa sì che crediamo in qualcosa è questo agire vibrante, libero e immediato di un essere umano vivente».[3] Quindi, l’interesse di Ueda per il buddhismo zen fu il frutto della sua personale pratica, della sua meditazione filosofica su di essa, dello studio dei classici zen e dell’opera di pensatori zen contemporanei, come D. T. Suzuki, Ômori Sôgen e Sawaki Kôdô. Pertanto, esperienza, studio e dialogo costituiscono i tre spazi di approccio di Ueda allo zen, come indica Amador Vega in un saggio sulla Scuola di Kyoto.[4]
Quanto alla sua formazione accademica, nell’aprile del 1945, pochi mesi prima della resa del Giappone agli Alleati, si iscrisse all’Università imperiale di Kyoto. A diciotto anni aveva assistito nel suo liceo di Tokyo ad una conferenza di Nishitani Keiji, che gli fece decidere di andare a studiare con lui all’Università di Kyoto.[5] Questa è la celebre istituzione nella quale il filosofo Nishida Kitarô (1870-1945) aveva dato vita alla prima scuola filosofica originale del Giappone, la Scuola di Kyoto, e nella cui terza generazione di pensatori che hanno elaborato il loro pensiero seguendo la linea inaugurata da Nishida, si suole inserire anche Ueda Shizuteru.
Ueda si laureò con una tesi su Kant. In seguito, i suoi studi furono orientati da Nishitani sulla mistica medioevale europea, in particolare su Meister Eckhart, che rimarrà uno dei suoi principali punti di riferimento. Come aveva già fatto Nishitani, Ueda si recò a studiare in Germania, presso l’Università di Marburgo, conseguendo il dottorato con una tesi su Eckhart, La nascita di Dio nell’anima e l’irruzione nella deità. Al suo ritorno in Giappone, si dedicò all’insegnamento universitario, succedendo in seguito a Nishitani sulla cattedra di Filosofia della religione all’Università di Kyoto, incarico che occupò fino al 1989. Successivamente ha tenuto corsi all’Università di Hanazono e, come professore emerito, all’Università di Kyoto.
L’opera di Ueda, che si sviluppa nei campi dell’ontologia e della filosofia della religione, riflette la sua preferenza per la filosofia tedesca moderna. Tra gli autori che più lo hanno interessato, vi sono Kant, Hegel, Heidegger, Jaspers, Bollnow e Buber, e in particolare Meister Eckhart e altri mistici tedeschi. Tuttavia, nelle sue pubblicazioni appare frequentemente lo zen, e due delle sue opere più importanti sono dedicate alla filosofia di Nishida. I titoli degli undici volumi previsti nel piano di pubblicazione delle sue opere complete in giapponese, per l’editore Iwanami, possono darci un’idea delle tematiche affrontate: vol. 1: Nishida Kitarô; vol. 2: Esperienza e risveglio (su Nishida); vol. 3: Luogo; vol. 4: Zen. L’essere umano fondamentale; vol. 5: Visione globale dello zen; vol. 6: Le dieci immagini del bue; vol. 7: Meister Eckhart; vol. 8: Non-mistica: Meister Eckhart e lo zen; vol. 9: Spazio vuoto / mondo; vol. 10: Fenomenologia del sé; vol. 11: Che cos’è la religione?.
Oltre alla sua tesi di dottorato, Ueda ha scritto in tedesco parte della sua opera, e ha tenuto spesso corsi e conferenze in università come quelle di Marburgo, Basilea, Bonn, Duesseldorf, Tubinga, Monaco, Vienna e Zurigo, partecipando anche agli incontri annuali del circolo Eranos ad Ascona (Svizzera). Questa parte in tedesco della sua opera ha pertanto la sua origine nelle numerose conferenze o contributi a volumi collettanei e, come egli stesso ha detto in più di un’occasione, l’interesse che lo zen ha suscitato tra gli studiosi europei ha a che vedere con la scelta dei temi che ha trattato nelle sue conferenze. A ciò bisogna aggiungere un dato significativo, segnalato dallo stesso Ueda nella sua introduzione ad una raccolta di suoi scritti, edita in spagnolo e in italiano: a partire dalla pubblicazione in Germania della sua tesi di dottorato (con un’appendice in cui comparava Eckhart e lo zen, seguendo il suggerimento del suo tutor, Ernst Benz), il destino del suo percorso era stato in parte già tracciato.[6]
Prima della realizzazione della sua tesi, Ueda si era già interessato allo zen, ma non aveva ritenuto necessario parlarne in essa, sebbene ora ammetta, alla luce delle analisi altrui, che lo zen abbia potuto influire sulla sua interpretazione di Eckhart. Il suo tutor, Ernst Benz, aveva ritenuto che, dato che era un autore giapponese esperto della materia, un approccio comparativo potesse arricchire la sua lettura di Eckhart, e così Ueda scrisse al suo ritorno in Giappone un’appendice intitolata appunto Eckhart e lo zen, che avrebbe poi richiamato l’attenzione degli studiosi tedeschi e che fece da sottotitolo alla tesi una volta pubblicata: L’antropologia mistica di Meister Eckhart e la sua comparazione con la mistica del buddhismo zen.[7] Sebbene alla luce di questo fatto molti di loro abbiano denunciato che Ueda interpretasse Eckhart dal punto di vista dello zen, certo è che l’opera nel suo insieme stimolò nuove ricerche da diverse prospettive sul mistico tedesco e che lo stesso Ueda si dedicò successivamente a ridefinire la sua posizione, inoltre contribuendo enormemente ad ampliare la conoscenza dello zen nel mondo accademico europeo.
Da tutto questo derivano diverse considerazioni. Da un lato, lo zen e la filosofia appartengono ad ambiti diversi e perciò occorre chiarire il loro rapporto. Accogliendo la proposta di Suzuki di dare conto del ruolo dello zen nel mondo moderno e di ripensare il tipo di pensiero che esso implica alla luce dell’altro, specialmente il modo di pensiero occidentale introdotto in Giappone in tempi relativamente recenti, così come la sintesi tra zen e filosofia operata da Nishida, Ueda trovò una maniera propria di riunirli nei suoi scritti. Dall’altro lato, sebbene la sua intenzione iniziale non fosse quella di elaborare uno studio comparativo, subito si vide spinto a farlo e perciò dovette chiarire se lo zen potesse essere inteso come una forma di mistica analoga ad altre, come ad esempio quella eckhartiana.
Come osserva il teologo Fritz Buri, nella sua comparazione tra i due tipi di spiritualità, Ueda, a differenza di Suzuki (che d’altra parte avrebbe con il tempo modificato la sua posizione), non cade nella trappola di un’identificazione prematura della mistica di Eckhart con quella dello zen, ma lavora tanto sulle differenze come sugli aspetti comuni.[8] Uno dei suoi principali contributi allo studio di Eckhart consiste nell’aver richiamato l’attenzione su ciò che egli chiama «il motivo dell’irruzione» (Durchbruchsmotiv). Questo motivo, insieme all’altro motivo che egli rileva nell’opera eckhartiana, «il motivo della nascita» (Geburtsmotiv), forma la cornice nella quale Ueda sviluppa la sua interpretazione di Eckhart. La tesi del filosofo giapponese è che il motivo della nascita, che consiste nel fatto che Dio fa nascere il Figlio nell’anima preparata ad accoglierlo, viene segnato dalla passività dell’anima e può essere compreso a partire dal dogma cristiano trinitario, mentre il motivo dell’irruzione, più legato al neoplatonismo, si caratterizza per l’attività di irrompere oltre lo stesso Dio, per raggiungere il nulla della deità (Gottheit), l’essenza o il fondo senza fondo di Dio.
In questo modo, Ueda riprende la distinzione eckhartiana tra il Dio ente, creatore, rivelato, personale, e la deità senza modo né attributo, che lo stesso Eckhart chiama «nulla», «deserto» o «abisso». E sostiene che nel momento in cui si è fatta irruzione oltre Dio e si è penetrati nella deità, non si possa più parlare di unio mystica, poiché la «distanza ontologica» o regio dissimilitudinis resta salvata dalla coincidenza tra il fondo di Dio e il fondo dell’anima. Secondo Ueda, in questo punto Eckhart si situa oltre il teismo e l’ateismo. Occorre dire che l’idea eckhartiana di una parte increata dell’anima umana, una «scintilla» (vünkelin) che comporta una possibilità di divinizzazione dell’uomo, già allora destò diffidenze nella gerarchia ecclesiastica e alcune delle tesi di Meister Eckhart furono condannate post mortem in una bolla papale. Nello stesso senso, ossia riguardo alla questione della mediazione, si rivolgono alcune delle critiche a Ueda, gli si rimprovera l’accento sulla via negativa, l’irruzione oltre Dio, a scapito del modello trinitario proprio della teologia cristiana, dal quale secondo questo punto di vista si dovrebbe intendere la dottrina eckhartiana,[9] sebbene Ueda insista sul fatto che la distinzione tra i due motivi, la nascita e l’irruzione, è meramente tipologica, dato che essi costituiscono due aspetti di un unico movimento, e pertanto sono indissolubili e non escludentisi.
Ad ogni modo, in un successivo articolo apparso lo stesso anno di pubblicazione della tesi, Ueda conia il termine «non-mistica» per riferirsi alla posizione comune ad Eckhart e allo zen, secondo la quale la mistica viene trascesa nell’impostare un tipo di identità non unitiva dell’Assoluto e dell’io.[10] In Eckhart, Dio e io sono uno nel loro fondo, da un lato nell’autonegazione (kenosis) divina di Dio nel Figlio e dall’altro nell’io «vuoto e libero» (ledig und vrie) dell’uomo nel «distacco» (Abgeschiedenheit). Nello zen, l’autonegazione dell’io o ego, che lo zen chiama «Grande Morte», è necessaria per risvegliare il nulla assoluto e con esso il vero sé, un sé senza sé. Per raggiungere l’assenza incondizionata di ego è necessario un salto nel puro nulla. Dove Eckhart dice: «Prego Dio che mi liberi da Dio», nello zen si afferma: «Se incontri Buddha, uccidilo!», ossia in entrambi i casi si cerca di rappresentare e determinare la realtà ultima. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, non è questo il punto in cui Ueda vede una maggiore affinità tra la posizione eckhartiana e lo zen. Per Ueda, nonostante la prossimità delle due posizioni, la teologia negativa o apofatica di Eckhart non è sufficientemente radicale, poiché implica sempre la negazione di qualcosa, in questo caso di Dio, e perciò quando parla di “nulla” si riferisce a Dio. Nello zen, al contrario, si tratta di una negazione totale, un “nulla assoluto” in sé. Lo studioso svizzero Alois H. Haas è d’accordo con Ueda sulla necessità di distinguere lo zen dalla mistica in questo senso, poiché lo zen rinuncia completamente a nominare l’Assoluto o la trascendenza. Dice Haas:
Anche la domanda su Dio – fondamentale in tutta la mistica cristiana – trova risposta nel Nulla in una forma diversa da quella cristiana. Per Eckhart Dio è il Nulla di tutte le determinazioni … la sua personalità trinitaria, che ammette di essere nominata. Per il buddhismo zen il nulla si riferisce alla domanda sull’essere di Dio.[11]
Là invece dove Ueda segnala una maggiore somiglianza tra lo zen e Eckhart e la mistica cristiana in generale, ad esempio in Angelo Silesio (Johannes Scheffler, 1624-1677), è nella questione della «vita activa» e della libertà «senza perché».
Per Ueda, la peculiarità della dottrina della vita activa eckhartiana risiede nel fatto che da essa si deduce che non c’è cammino verso Dio ma da Dio, il cammino a Dio non è la vita, ma la morte e la separazione. Questa dottrina appare legata alla dottrina del nulla della deità, in quanto si riferisce ad una vita anche senza Dio: abbandono di Dio per Dio verso la deità, in un caso, uscire da Dio verso la realtà del mondo, nell’altro. Ueda sostiene che questo doppio movimento corrisponde esattamente alla «via in salita» (kôjô) e alla «via in discesa» (kôge) dello zen. Al movimento estatico di uscita da sé, l’autonegazione estrema, corrisponde il ritorno all’affermazione più immediata, come egli spiega nel saggio Ascesa e discesa.[12]
Quindi, Eckhart concederebbe alla vita attiva un maggior grado di perfezione rispetto alla vita contemplativa, poiché non implica alcuna aspirazione a Dio, in quanto la piena unità con Dio è già stata raggiunta. Nello zen, alla pratica che consiste nel sederci in silenziosa meditazione (zazen) segue un colloquio con il maestro (sanzen). Ueda interpreta questo alzarsi dal silenzio del nulla dello zazen come un ritorno al mondo. Entrambi gli aspetti, egli dice, devono essere parte integrante della vita quotidiana: «La vacuità che si svela durante lo zazen diventa l’autentico fulcro dell’esistenza quotidiana; i nostri pensieri, le nostre azioni e il nostro stesso essere sono influenzati da essa in modo determinante».[13] Si tratta quindi di una struttura dinamica di negazione radicale fino al fondo originario, e da lì un ritorno alla vita attiva, l’affermazione della realtà del mondo e della vita: la correlazione, pertanto, di negazione e affermazione, di nulla e ora-e-qui.
Quanto alla libertà «senza perché», Haas sottolinea la coincidenza tra le idee zen e eckhartiana. In entrambi i casi la libertà «non si può fondare in un’opzione determinata tra due possibilità di scelta, ma si fonda senza fondamento nell’unità». Quando Eckhart parla di unità e libertà, questi non sono attributi di Dio:
Per Eckhart Dio è la libertà senza perché. Pertanto, la libertà è per Eckhart «struttura fondamentale del mondo creato», che comprende in uno Dio e uomo, e che è tanto piena dell’essere di Dio, che ogni duplicità e alterità devono essere viste come qualcosa di superato a priori.[14]
A proposito di questo tema, Ueda si concentra soprattutto su Silesio, come già fece Heidegger ne Il principio del fondamento, e stabilisce un’analogia tra la vita senza perché, che vive per se stessa senza causa o ragione, e il concetto zen di “natura” (shizen), che significa “esser in e da se stesso”. Ueda identifica questo concetto con la concezione zen della verità come “esser così come si è” (tathatâ in sanscrito, shinnyo in giapponese). Se, nel caso del cristianesimo, Ueda osserva un maggiore protagonismo della natura nella mistica barocca di Silesio, che accorcia la distanza dallo zen nel verso di Silesio «il fiore fiorisce perché fiorisce», egli coglie invece la presenza di un perché che indaga le cause o ragioni sebbene solo per rispondere che non c’è alcun perché, che semplicemente è perché sì, mentre lo zen, sempre più radicale, semplicemente parla di fiori che «fioriscono così come fioriscono», senza la minima allusione ad una logica causalistica o ad oggettivazioni in categorie come sostanza, essere o fondamento. Di nuovo, nonostante i tratti che condividono queste posizioni, il linguaggio dello zen si mostra più radicale.
Queste conclusioni alle quali si arriva nel confronto tra Eckhart e lo zen costituiscono un campione significativo degli studi comparatistici di Ueda che tentano di portare luce sui due mondi che riunisce nei suoi scritti: filosofia e spiritualità da un lato, Oriente e Occidente dall’altro. In tal modo, i suoi scritti situano sullo stesso piano pensatori come Eckhart, Silesio, Rilke, Buber o Heidegger e i classici zen, Suzuki, Nishida e Nishitani, sia per trattare aspetti relativi allo zen, come il concetto di bellezza, il teatro nô, gli scritti di Sôseki, la poesia renku, sia per sviluppare la sua posizione filosofica, che egli qualifica come «ontologia ermeneutica esistenziale», penetrando nella sua comprensione di questi autori e in distinti problemi filosofici che imposta a partire da temi come “parole e silenzio”, “libertà e linguaggio”, “vuoto e pieno”, “essere e nulla”, “evento e risveglio”, “non-fondamento e personalità”, “fede e mistica”.
Si potrebbe dire che, come Nishitani, Ueda cerca punti di contatto con la tradizione occidentale allo scopo di far conoscere la prospettiva che il buddhismo zen può apportare al mondo contemporaneo. I seguenti passi, che esemplificano la posizione di entrambi i pensatori, sono tratti dall’Introduzione di Nishitani al suo Dio e il nulla assoluto, citato da Ueda nel suo saggio Ascesa e discesa:
Il titolo che ho dato a questo lavoro su Meister Eckhart e la mistica tedesca medioevale può sorprendere. Posto che il nulla assoluto ha la sua origine nella tradizione buddhista e sebbene da parte sua anche Eckhart parli del nulla della deità, c’è una differenza fondamentale tra il suo nulla e il nulla buddhista, tanto come una differenza tra la mentalità orientale e quella occidentale, tra il cristianesimo e il buddhismo. In ogni caso, il nulla appartiene ad un mondo completamente diverso. Ciò nonostante, c’è un punto di contatto tra il buddhismo ed Eckhart. Proprio perché appartengono a mondi diversi, questo punto di contatto può trovarsi ad un livello profondo, fondamentale. (…)
Il titolo Dio e il nulla assoluto intende indicare che l’esperienza cristiana di Eckhart contiene una corrispondenza con l’esperienza buddhista. Questo fatto mi sembra molto importante nella nostra situazione attuale. Nel momento in cui i limiti storici di questi mondi molto diversi sono stati superati, i punti di partenza dell’esperienza religiosa originaria, ai quali ci predispone l’essenza dell’essere umano come tale, si rivelano gli stessi.[15]
L’ermeneutica comparativa di Ueda cercherà nello stesso modo di creare nella filosofia lo spazio per un incontro tra due tradizioni che si è prodotto a livello esistenziale nel proprio percorso personale. Come sostiene Raimon Panikkar, non basta leggere testi e conoscere contesti, ma possiamo parlare dei due mondi solo se adottiamo spontaneamente questi atteggiamenti per averne avuto esperienza.[16] L’obiezione mossa all’enfasi di Ueda sulla radicalità dello zen, a mio modo di vedere, non risponde ad una strategia per trasferire l’unità e la superiorità del proprio messaggio a popoli di altre culture, come suggerisce ad esempio Bruno Nagel.[17]
Ciò non solo entrerebbe in contraddizione con lo spirito dello zen, che consiste innanzitutto nell’abbandono dell’ego e di qualsiasi tipo di attaccamento, compreso ogni posizione fissa o assoluta, ma anche con il rispetto e la predilezione che hanno sempre manifestato i pensatori della Scuola di Kyoto per la filosofia e la tradizione spirituale occidentale, così come, come ha segnalato Panikkar, con i loro sforzi per superare tanto il dogmatismo della ragione quanto il dogmatismo della critica che caratterizza la filosofia postmoderna.[18] Inoltre, se l’approccio di Ueda al pensiero occidentale viene, in un certo senso, segnato dal proprio bagaglio culturale e dal suo interesse per lo zen, si può anche parlare di un’influenza in senso contrario, come egli stesso dice:
Ho avuto l’opportunità di ripensare questo percorso esistenziale dalla prospettiva di un’altra cultura durante prolungati soggiorni, di circa sei anni in tutto, in Germania e in Svizzera; questa esperienza mi ha condotto inevitabilmente a una nuova interpretazione dello zen, un’interpretazione più globale che prende in considerazione tanto il punto di vista dell’Occidente quanto quello dell’Oriente.[19]
II
È in questo contesto che occorre intendere la sua posizione rispetto all’incontro tra Oriente e Occidente. In questa posizione confluiscono almeno due aspetti: la relativamente recente presenza in Giappone della filosofia, intesa come una disciplina di origine occidentale, e l’eredità della filosofia di Nishida.
Tradizionalmente, la cultura giapponese si è caratterizzata per la sua flessibilità e la sua enorme capacità di adattamento alle influenze esterne, dall’adozione del sistema di scrittura cinese all’assimilazione di forme artistiche, idee e credenze religiose come il buddhismo e il confucianesimo (che ha dato luogo ad un tipo di sincretismo religioso, peculiare del Giappone). Posto che la tendenza predominante era non quella di rimpiazzare l’antico con il nuovo, ma facilitare la loro coesistenza, si è parlato di un’assenza di conflitto tra vecchio e nuovo[20], tendenza che si cercò di tenere durante la Restaurazione Meiji (a partire dal 1868) e la vertiginosa occidentalizzazione del Giappone. Sebbene si fosse infine imposto il motto “spirito orientale, tecnica occidentale”, non solo cominciarono ad udirsi voci discrepanti favorevoli all’isolazionismo precedente, ma altre che mettevano in questione l’adozione acritica di tutto ciò che veniva dall’Occidente e che minacciava di soppiantare la propria tradizione.
Tra i saperi occidentali che secondo una diffusa opinione promettevano un enorme progresso in tutti i campi figurava la filosofia. Dopo un grande lavoro di creazione di termini, edizione e traduzione di fonti, letteratura critica e opere di riferimento, formazione di un corpo docente, e così via, poche generazioni dopo, quando Ueda studiò filosofia, essa già era una disciplina consolidata nei piani di studio, distinta da altri tipi di sapere tradizionale e, tuttavia, anche un nuovo strumento per avvicinarsi a loro, come nel caso della filosofia di Nishida.
Sebbene nel mondo attuale le distanze si siano accorciate ed esso si caratterizzi per il meticciato e l’interculturalità, e il cosiddetto incontro tra Oriente ed Occidente non sia vissuto in una forma così drammatica come lo fu per i suoi predecessori, Ueda è critico con il mondo globalizzato: la sua unità è solo superficiale, non è il mondo unico che aspirava a costruire Nishida con una filosofia onnicomprensiva capace di dare conto anche del modo di pensare asiatico e non solo di quello occidentale. Secondo Ueda, Nishida situa il suo sforzo speculativo tra queste due tradizioni, ed è questo spazio intermedio che gli permette di costruire un mondo nuovo più fondamentale che non implichi né il dominio né la sottomissione dell’uno all’altro. Ed aggiunge che per dare forma a questo mondo unico, a Nishida non serviva la grammatica della tradizione orientale, caratterizzata dalle emozioni, né il sistema concettuale della grammatica di tradizione occidentale. Nishida avrebbe cercato l’apertura di un luogo dove Oriente ed Occidente stessero situati, ma che fosse al di là di entrambi, un luogo che li comprendesse entrambi nella loro specificità, senza limitarsi a contrapporli. Per Ueda, la situazione oggi è più complicata dall’opposizione Nord-Sud, ma considera una guida valida la proposta di Nishida di affrontare il problema a partire dalla fondazione di un’esperienza viva più che dalla cornice limitata di un solo sistema di pensiero[21].
Nishida avrebbe raggiunto questa idea dell’apertura di un luogo grazie alla pratica dello zen. Il suo modo di conciliare lo studio filosofico e la pratica dello zen, due compiti radicalmente diversi, il primo basato sulle riflessione, il secondo privo di qualunque forma di riflessione, imprimerebbe un timbro peculiare al filosofare della Scuola di Kyoto. Di fatto, ciò non sorprende se si considera che il pensiero asiatico tradizionale ignora il conflitto tra ragione e fede che invece si è dato in Occidente da quando, come spiega Panikkar, l’antico concetto di filosofia come saggezza, come dimensione intellettuale della religione, restò diviso in tre piani: la religione come esistenziale umano, una forma di realizzazione o salvezza, la teologia come saggezza ultima alla luce dell’autorivelazione divina, e la filosofia come ricerca razionale del significato della realtà che inizia con l’analisi dei nostri mezzi di conoscenza[22]. Dalla prospettiva della Scuola di Kyoto, la filosofia si orienta alla religione o si potrebbe dire che la religione è filosofia, un modo di vivere e un cammino di liberazione.
Fin dalla sua prima opera, Uno studio sul bene (1911)[23], Nishida integrò entrambe le prospettive nella sua indagine sull’origine stessa del significato, il momento privo di qualunque riflessione o giudizio, ossia l’evento che descrive come il momento del vedere un colore o udire un suono e che chiama «esperienza pura». Nishida, pertanto, cercava di conciliare il suo interesse teoretico, spiegare la vera realtà, con la fatticità dei fatti dati, l’evento primordiale che non può essere spiegato con parole. Così, l’esperienza primordiale, che ottiene il suo significato attraverso la riflessione, era contemplata come il principio della riflessione (come punto di partenza che precede la riflessione) e il principio fondazionale della filosofia, il fondamento del principio o «principio dei principi». Come spiega Ueda, questo principio non riflessivo è autocontraddittorio, implica la distruzione della propria forma preposizionale di principio e il fatto che la filosofia contenga qualcosa che la nega, ossia una compenetrazione di filosofia e non filosofia, una riflessione che ottiene il suo compimento in ciò che non può essere detto né pensato, l’immediatezza primordiale. Si muove in uno spazio asimmetrico, o una terra di nessuno, che unisce la riflessione a ciò che la precede, la vera realtà e la spiegazione teoretica. La tensione tra questi piani diversi, dice Ueda, conferisce un profilo peculiare alle sue opere, la coscienza della contraddizione del principio lo portò a rivedere continuamente il suo pensiero, ad una filosofia critica consapevole dei suoi limiti e a postulare infine l’autoidentità contraddittoria stessa come principio.
Pertanto, nel caso di Nishida, lo zen indica un modo di risolvere un problema filosofico fondamentale e il punto di contatto tra zen e filosofia si concretizza nella questione del risveglio di sé (jikaku). Questa parola viene da “risveglio” (kaku) che nello zen comprende il senso oggettivo di rivelazione e l’esperienza soggettiva di salvezza. La spiegazione, in Nishida, è un’attività del sé che si è risvegliato a se stesso e così concepisce la filosofia come la ricerca risvegliata a se stessa del risveglio di sé. La nozione di risveglio di sé esprime l’unità interna di esperienza pura e riflessione poiché è un evento che implica una rottura del nostro modo limitato di esistere, identificato con l’autocoscienza (il sé pensato a partire dall’io) o l’evento di irrompere oltre la cornice soggetto-oggetto e risvegliarsi ad un’Apertura infinita dove l’io è situato insieme al venire alla luce dell’Apertura stessa. Ueda dice che il risveglio di sé è una concezione affine alla heideggeriana autocomprensione (Selbstverständnis) dell’esistente reale (Dasein, noi) come essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein), dato che anche in Nishida il risveglio di sé ha una connotazione di luogo, altro termine chiave nel pensiero nishidiano, o il luogo (basho) è un momento inerente al risveglio di sé. Pertanto, il risveglio di sé si riferisce ad una svolta fondamentale dalla chiusura all’apertura, che avviene dall’irruzione della negazione dell’io (l’esperienza pura del momento di vedere un colore o udire un suono come evento che precede la scissione tra soggetto e oggetto) mediante la quale si apre il luogo dove è situato. Il luogo ultimo sarà il nulla assoluto o, nei termini di Ueda, l’Apertura infinita.
Finora ci siamo riferiti all’apertura di un luogo dapprima rispetto agli studi comparati di Ueda che cercano di creare uno spazio comune di comprensione, poi rispetto alla filosofia di Nishida. Ora cercheremo di indicare brevemente come Ueda articola questo spazio nella sua filosofia del linguaggio e, concludendo, come si concretizza nell’incontro io-tu.
III
A partire dalla correlazione presente nella filosofia di Nishida tra le nozioni di esperienza pura, risveglio di sé e luogo, Ueda sviluppa un quadro ermeneutico basato sulla relazione tra esperienza, comprensione e orizzonte di comprensione. In questo quadro Ueda affronta il problema dell’articolazione sorta dalla non-articolazione, il linguaggio sorto dal silenzio, così come Nishida aveva tentato di elaborare una «logica orientale» (tôyôteki ronri) che riflettesse «la forma del senza forma, la voce del senza voce», che sta alla base della cultura asiatica. Nella interpretazione di Ueda, l’esperienza immediata della realtà, o lo stato di indifferenziazione tra soggetto e oggetto, definita dall’assenza dell’io, può essere espressa verbalmente grazie al silenzio assoluto del nulla, il linguaggio della natura e il dialogo adialogico o asimmetrico nell’incontro con l’altro.
La presenza immediata di qualcosa di indicibile e incomprensibile, l’esperienza in se stessa, non lascia spazio all’interpretazione, anzi priva della parola la persona che normalmente si muove nel mondo del linguaggio e resta così in silenzio. Posto che il linguaggio non è dato, fin dal principio già siamo nel mondo del linguaggio e quando comprendiamo l’esperienza, lo facciamo grazie al linguaggio. Come si evince ad esempio dalla comparazione tra Eckhart e lo zen, le differenze evidenti tra queste due prospettive che procedono da tradizioni lontane rispondono a modi di comprendere diversi, condizionati culturalmente e storicamente. Tuttavia, la sorprendente prossimità tra il tipo di linguaggio utilizzato in entrambi i casi porta Ueda a constatare una specie di esperienza basilare comune, relativa ad un mutamento nel modo d’essere che determina il modo di comprendere, ossia la realizzazione del vero sé implica una rottura nella rete linguistica che avvolge il mondo e si trasforma in apertura, liberazione, risveglio, in una fonte nuova della parola. Così, il silenzio può convertirsi in una parola primordiale grazie alla quale il silenzio esprime se stesso. Per Ueda, questa parola precede il linguaggio e riapre nuovamente il cammino fino al linguaggio, esprime il movimento che esce dal linguaggio e ritorna ad esso. In tal modo, il silenzio risuona nelle parole di coloro che hanno questo tipo di esperienza e servono di orientamento per altri invitandoli a risvegliarsi alla verità.
Detto in termini filosofici, Ueda parte da ciò che la filosofia contemporanea chiama la «struttura d’orizzonte dell’esperienza» (die Horizont-Struktur der Erfahrung), secondo la quale il mondo dell’essere-nel-mondo è l’orizzonte finale dell’esperienza, ossia che non c’è un «orizzonte di significato» al di là del mondo. Ueda, invece, introduce nell’argomentazione un aldilà del mondo, un’Apertura infinita nella quale sarebbe collocato il mondo. Per questo egli parla di un «duplice modo d’essere nel mondo»: siamo collocati nel mondo e, insieme, nell’Apertura infinita nella quale è collocato il mondo.
Come l’orizzonte è essenzialmente finito, non possiamo parlare di ciò che ne è al di là, ma sappiamo che esiste. Così, l’Apertura infinita non può essere definita a parole, ma può essere indicata simbolicamente: la natura simbolica del linguaggio permette, secondo il suo uso, di indicare questa Apertura invisibile. Essere situato nell’Apertura infinita del nulla assoluto, al di là dell’orizzonte del mondo, equivale all’esperienza estatica del sé, l’uscita da sé, ossia la propria negazione, dove non si può più parlare di sé, ma di «sé senza sé». Al tempo stesso, posto che il risveglio di sé, come abbiamo visto, significa aprire un luogo, l’Apertura infinita come nuovo orizzonte di comprensione ci si fa visibile. Le parole relative a questa Apertura sorgono dal proprio risveglio (o, possiamo dire, dalla propria autocomprensione), dalla propria apertura, sebbene non siano più relative all’io. La tesi di Ueda è che se a causa del vero sé è necessario dissolvere il sé egocentrico, al livello del linguaggio si tratta della liberazione del linguaggio verso il linguaggio. È ciò che Nishitani chiama la realizzazione reale della realtà in noi quando la attualizziamo e comprendiamo, o l’autodeterminazione della realtà nell’individuo della quale parla Nishida, che d’altro lato partiva dall’idea che non c’è esperienza perché c’è l’individuo, ma c’è individuo perché c’è esperienza. Vale a dire che si tratta di una comprensione che disloca la prospettiva dal soggetto alla realtà stessa priva di io.
Così, dalla prospettiva di Ueda, che riconosce questa struttura di orizzonte del significato del mondo nella sua propria esistenza, il mondo al di là dell’orizzonte si converte in un nuovo orizzonte di comprensione, dando alla realtà una dimensione più profonda. È una comprensione basata nel sapere che non si sa nulla, non sappiamo cosa ci sia al di là dell’orizzonte, ma riconoscere la sua esistenza implica già un ingresso nell’infinito. Il processo, in quanto ha luogo nella vita quotidiana, va dal modo d’essere rinchiuso in un io che si sente parte di un mondo limitato e trova senso solo nella cornice intramondana e l’io in cerca di se stesso, aperto ad una dimensione più profonda di significati. Ciò accade quando la realizzazione della verità del mondo e dell’io ha luogo non con il mero esser in questo mondo, non come mera azione del soggetto, ma della realtà stessa. Una via per vivere questa esperienza della realtà è quella che propone la pratica zen:
La pratica zen è la ripetizione del movimento dallo zazen al sanzen, e dal sanzen di nuovo allo zazen. Questa sequenza circolare è la stessa che porta dalla vacuità all’opposizione e poi di nuovo alla vacuità; dal silenzio alle parole e di nuovo al silenzio; dal riposo all’attività e poi di nuovo al riposo. Attraverso questa ripetizione la vacuità diventa sempre più libera dalle cose, l’opposizione sempre più nitida, il silenzio sempre più profondo e le parole sempre più significative.[24]
La dinamica che corre tra negazione e affermazione del sé corrisponde al movimento che va dal silenzio al linguaggio, dal linguaggio al silenzio.
Nello zazen, dove non c’è opposizione, esiste solo l’individuo. O meglio, anche l’individuo è scomparso nella vacuità dello zazen, nello stato in cui l’individuo è nulla (mu). Dall’altro lato, nel sanzen un individuo sta di fronte a un altro individuo al limite estremo tra il sé e l’altro. Lo zazen è silenzio totale, un continuo sprofondare nella quiete; il sanzen ha a che fare con le parole, parole nate dal silenzio dello zazen. L’incontro “al limite”, proprio del sanzen, richiede di parlare poco: una parola o una frase sono sufficienti a rivelare tutto ciò che il maestro ha bisogno di sapere. Anche il silenzio “parla”, sia il silenzio che indica semplicemente un’incapacità di rispondere sia il silenzio attivo che contiene una risposta in se stesso. Nello zazen il praticante non fa niente; nel sanzen non può non fare qualcosa. Anche un dito alzato o un battito di ciglia possono assumere un significato capitale; il corpo stesso diventa un concreto mezzo di espressione.[25]
Vacuità, silenzio, quiete, indicano l’esperienza della non-dualità che lo zen persegue, mentre l’opposizione, il linguaggio e l’attività sono propri del ritorno al mondo. Ueda pone l’accento sul dinamismo che implica il continuo andare e venire dall’uno all’altro aspetto e la loro compenetrazione. In questo modo, la realtà stessa si converte in parole direttamente per il potere della presenza, dell’immediatezza. Il linguaggio sgorga come l’autoarticolazione dell’evento e, al tempo stesso, noi prendiamo coscienza di noi stessi. E questa doppia articolazione si converte in un’affermazione e una negazione, il contrasto e l’armonia asimmetrica lascia uno spazio aperto in cui risuona la voce del nulla assoluto.
Il linguaggio dello zen nelle sue differenti forme e livelli è un esempio di autoarticolazione di questo evento. Lo zen avverte il pericolo di confondere le parole utilizzate per rappresentare i fatti con i fatti stessi, di dimenticare che sono mere correlazioni verbali e non connessioni reali ed esistenti. Perciò tradizionalmente si è servito di un uso peculiare del linguaggio, cercando l’ambiguità, il paradosso o l’assurdo per porre in evidenza il suo uso convenzionale e i suoi limiti nel dar conto della realtà. In effetti, non rifiuta il linguaggio ma esige che le parole sorgano da una fonte specifica, «la dimensione primaria della realtà». Questo uso particolare del linguaggio non appartiene solo all’ambito religioso-esistenziale, ma anche all’ambito estetico, poiché le arti costituiscono un veicolo privilegiato di espressione dell’esperienza zen della realtà. In questo senso, Ueda sostiene che possiamo emanciparci dal pericolo del linguaggio solo volgendo la nostra parola ad un’attività creativa: il movimento estremo che abbandona il mondo del linguaggio e ritorna al linguaggio creativo, per così dire, forgiando il mondo.
Così, il risvegliarsi alla verità della realtà non si ferma all’esperienza pura, ma deve essere espresso positivamente nell’apertura, “senza soggetto, senza oggetto”, per cui il sé aperto a questa Apertura, un “sé senza sé”, dà origine ad una serie di relazioni. Il risveglio si concretizza nel momento di dire “io sono io”, e il luogo del risveglio si concretizza nell’incontro “io-tu”. Questa è una questione chiave negli scritti di Ueda, in sintonia con la sua idea del ritorno o discesa come momento costitutivo della dinamica della vita quotidiana insieme all’uscita o ascesa: egli considera fondamentale nello zen non solo il sedersi in meditazione silenziosa, ma anche la pratica dialogica tradizionale tra maestro e discepolo, e cerca di comprendere tutto questo filosoficamente.
Il modello definito che seguono i dialoghi zen consiste nel dare una risposta concreta alla questione metafisica dell’Assoluto, che, sebbene dall’esterno appaia un mero non-senso, risponde ad una logica interna che ha senso per chi ne partecipa. Questo tipo di dialogo, come ha spiegato Toshihiko Izutsu, ha lo scopo di captare la verità ultima ed eterna che luccica in un attimo dalle parole scambiate tra due persone vive nel punto estremo di una tensione spirituale e in una situazione concreta e unica della vita[26]. Il concetto chiave per questa nostra argomentazione risiede nello spazio che si crea tra i due interlocutori e che Ueda riconosce nella categoria impiegata da Buber nella sua filosofia dialogica, il “frammezzo” (das Zwischen), che definisce come un campo soggettivo che si apre solo quando due esseri umani si incontrano faccia a faccia come “io e tu” (Ich und Du), così come nella concezione di Nishida della realzione io-tu, dove l’io equivale al nulla assoluto, ad uno spazio vuoto.
Ueda contrappone all’idea di Buber che la pienezza dell’essere è raggiunta attraverso il contatto diretto tra due esseri umani mediante la reciprocità fondata nel Tu eterno (Dio), la relazione dinamica contenuta nella negazione che costituisce l’io-tu in Nishida, la corrispondenza tra l’indipendenza assoluta dei due e la sua relatività espressa nel mutuo riconoscimento attraverso la negazione assoluta, come a dire che per riconoscere l’altro devo negare me stesso. Secondo questa concezione, nell’incontro io-tu si realizza lo spazio intermedio tra i due, ossia il nulla assoluto che costituisce il fondamento abissale (Ungrund) si autodetermina nell’io e nel tu che si svuotano e risorgono. Così, “io e tu” vuol dire che nel fondo io sono tu, quando si dice “io sono io” nel fondo “non c’è io”. L’Apertura che si apre nel “non c’è io” non solo è percepita dal tu, ma la sua oggettività è garantita dall’altro, la realtà del sé senza sé è il tu.
Da questa concezione deriva che il sé non è una prospettiva fissa, ma è relativo ad un luogo e si costruisce nelle sue relazioni. Così, il concetto di io si desostanzializza e si pone l’accento nel flusso dinamico della realtà.
Per concludere possiamo dire che la tesi di Ueda, secondo la quale io e tu nascono dall’esperienza e pratica della perdita dell’io, dallo spazio di negazione creato dai due in ciascuno dei loro incontri, può essere estrapolata come base per ogni forma di dialogo. Come dice Panikkar:
Comprendere l’altro esige molto più che la buona volontà; esige penetrare attraverso il logos nel mythos dell’altro. Questo significa vedere l’altro non come un aliud, ma come un alter: come l’altra parte, la altera pars della nostra stessa persona – e non dico come individuo. Dobbiamo partecipare al mythos dell’altro.[27]
La comprensione dell’io rispetto all’altro nello spazio del quale parla Ueda, conferma la posizione di questo autore, che afferma che non c’è filosofia comparativa, ma imparativa (parola ripresa dal latino medioevale), ossia una filosofia che apprende dalle altre e le valuta criticamente dalla propria prospettiva.
Note:
[*] Viene qui riproposta, aggiornata e tradotta da Carlo Saviani, la relazione presentata dalla prof.ssa Bouso (Università “Pompeu Fabra” di Barcellona) al convegno su Comparatismi e filosofia, tenuto a Napoli nel 2004, poi pubblicata in versione originale in Comparatismi e filosofia, a cura di M. Donzelli, Liguori, Napoli 2006, pp. 239-61, con il titolo: Lenguaje y silenzio. Experiencia y comprensión in Ueda Shizuteru. Il traduttore desidera ringraziare la prof.ssa Bouso per i suoi preziosi suggerimenti.
[1] J. C. Maraldo, Zen, Language and the Other. The Philosophy of Ueda Shizuteru, in «Kuroda Institute», autunno-inverno, 1989, p. 21.
[2] Sh. Ueda, «La pratica dello zen», in Id., Zen e filosofia, trad. it. di C. Querci e C. Saviani, L’Epos, Palermo 2006, p. 63.
[3] Ib., p. 66.
[4] A. Vega, En los jardines de Kioto. Breve noticia sobre el pensamiento religioso moderno en Japón, in Id., Zen, mística y abstracción, Madrid 2002, p. 47.
[5] Sh. Ueda, My Teacher, in «The Eastern Buddhist», 25/1, 1992, p. 2.
[6] Sh. Ueda, «Introduzione», in Id., Zen e filosofia, cit., p. 45.
[7] Sh. Ueda, Die Gottesgeburt in der Seele und der Durchbruch zur Gottheit. Die mystische Anthropologie Meister Eckharts und ihre Konfrontation mit der Mystik der Zen-Buddhismus, Gütersloh 1965.
[8] F. Buri, The Buddha-Christ as the Lord of the True Self. The Religious Philosophy of the Kyoto School and Christianity, Georgia (USA), 1997, p. 253.
[9] B. Nagel, Beyond a personal God? Shizuteru Ueda’s Zen Buddhist Interpretation of Meister Eckhart, in «Studies in Interreligious Dialogue», 8, 1988, pp. 84-5, 87, 89 e 92.
[10] Sh. Ueda, «Der Zen-Buddhismus als „Nicht-Mystik” unter besonderer Berücksichtigung des Vergleichs zur Mystik Meister Eckharts», in Transparente Welt. Festschrift für J. Gebser, hrsg. von G. Schulz, Huber, Bern / Stuttgart 1965, pp. 291-313.
[11] A. M. Haas, «Poesía en la mistica cristiana y el budismo zen», in Visión en azul. Estudios de mistica europea, Madrid 1999, p. 88.
[12] Sh. Ueda, Die Bewegung nach oben und die Bewegung nach unten. Zen-Buddhismus im Vergleich mit Meister Eckhart, in «Eranos Jahrbuch», 50, (1981) 1982, pp. 223-72 (tr. ingl., Ascent and Descent: Zen in Comparison with Meister Eckhart, (I) in «The Estern Buddhist», XVI, n. 1, 1983, pp. 52-75; (II) in «The Estern Buddhist», XVI, n. 2, 1983, pp. 72-91).
[13] Sh. Ueda, «La pratica dello zen», in Id., Zen e filosofia, cit., p. 89.
[14] A. M. Haas, «Poesía en la mistica cristiana y el budismo zen», in Visión en azul. Estudios de mistica europea, cit., p. 81.
[15] K. Nishitani, Kami to zettai mu, Tokyo 1948, pp. 1, 4; citato in Sh. Ueda, «Ascent and Descent», I, cit., pp. 73-4.
[16] R. Panikkar, La experiencia filosófica de la India, Madrid 2000, p. 84.
[17] B. Nagel, Beyond a personal God?, cit., p. 96.
[18] R. Panikkar, La experiencia filosófica de la India, cit., p. 36.
[19] Sh. Ueda, «La pratica dello zen», in Id., Zen e filosofia, cit., p. 56.
[20] Sh. Kato, A History of Japanese Literature, vol. I, Tokyo 1981, pp. 5, 7.
[21] Sh. Ueda, «Il pensiero di Nishida», in Id., Zen e filosofia, cit., p. 273.
[22] Panikkar, op. cit., p. 31.
[23] K. Nishida, Uno studio sul bene, tr. it. di E. Fongaro, Bollati Boringhieri, Torino 2007
[24] Sh. Ueda, «La pratica dello zen», in Id., Zen e filosofia, cit., p. 88.
[25] Ivi, pp. 87-8.
[26] T. Izutsu, Toward a Philosophy of Zen Buddhism, Tehran 1977, pp. 96 sgg.
[27] R. Panikkar, “Prólogo” a J. W. Heisig, Filósofos de la nada, Un ensayo sobre la Escuela de Kioto, Herder, Barcelona 2002, p. 10.