Poesie di Ryokan. Monaco dello zen
di Ryokan Daigu
a cura di Soletta L.
La Vita Felice Editore (2000)

 

“Mi rivolgo a Te e non mi rispondi,
ma il Tuo silenzio mi parla al cuore.
Libri aperti sparsi sul pavimento;
la pioggia cade sulla pianta di pruno”

Coloro che considerano lo Zen una via del distacco, dell’allontanamento dal mondo, votata al rifiuto degli slanci più dolci dell’animo umano in favore di una secchezza vagamente imbronciata – magari incarnata dalla figura di un monaco dal volto ceruleo e inespressivo – resteranno delusi nel leggere i versi di Daigū Ryōkan (1758 – 1831). Versi in cui l’essenzialità dei più profondi insegnamenti del Buddhismo non si traduce nell’inaridirsi del cuore dell’autore, che fino all’ultimo battito testimonia la propria umanità.

Il padre di Ryōkan era un ricco commerciante appartenente al rango dei samurai; capovillaggio, prete scintoista e poeta (allievo nientemeno che del grande Matsuo Bashō), egli educò il figlio severamente, secondo l’etica neoconfuciana, e lo affidò dodicenne alla guida di ōmori Shiyō, maestro all’epoca famoso in tutto il Giappone. Il ragazzo, studente appassionato, incline all’introspezione e alla solitudine, crescendo dimostrò la sua totale inadeguatezza alla carriera da amministratore, cui pure sembrava destinato; amante della compagnia e del sakè, mite e allegro, il 18 luglio 1775 lasciò di stucco famiglia e compagni, decidendo inaspettatamente di entrare nel tempio Kōshōji della setta Sōtō Zen, con l’intenzione di farsi monaco. La notte precedente aveva ballato e bevuto sakè fino al mattino, festeggiando con gli amici l’urabon, la festa dei defunti. Si dice che prima della sua improvvisa conversione religiosa avesse assistito all’esecuzione capitale di un ladro; altri raccontano fosse perdutamente innamorato, e che una notte raggiunse la sua amata, lasciandola però prima dell’alba per correre a radersi il capo… Quale che sia la causa che lo spinse verso il tempio, da quel momento fino alla morte Ryōkan seguì il proprio proposito, pur non abbracciando immediatamente la vita monacale; di sé scriverà: “Molti uomini diventano prima monaci e poi praticano lo Zen. Ma io ho praticato lo Zen per molto tempo, prima di diventare monaco.”.

A trentatré anni ricevette l’inka, il riconoscimento che ancora oggi in ambito Zen certifica l’illuminazione; nella sua umiltà, tuttavia, Ryōkan  non raccontò mai di aver vissuto tale esperienza. Nel monastero di Entsūji scriveva poesie, praticava la calligrafia e, di tanto in tanto, cedeva al piacere di un bicchiere di sakè; i suoi componimenti ritraggono con delicatezza e ironica fedeltà questo suo vivere quieto e non privo di innocenti diletti, ma esprimono anche – con uguale finezza – tutto il dolore che lo colpì poco dopo: quello dei numerosi e prematuri lutti (in seguito ai quali divenne monaco errante), della fatica del vagabondare e del questuare, della malattia, del tornare al paese natio e di scoprire che molti degli antichi affetti erano scomparsi e la sua famiglia caduta in rovina. Infine si stabilì nell’eremo di Gogōan; lì ricevette visite, compose versi, lesse Dōgen e i classici cinesi, mendicò e spesso si fermò a giocare coi bimbi dei villaggi vicini, fino a che età e malattia gli impedirono di questuare e sopportare l’inverno della montagna: allora dovette mettere fine a oltre vent’anni di vita eremitica, “tornando al mercato” – secondo la parabola Zen dei Dieci Tori -, cioè fra la gente, cui dispensò i doni interiori maturati nella propria lunga ricerca. La giovane monaca Teishin, con la quale condivise lo studio del Buddhismo e l’amore per la poesia, fu compagna affettuosa dei suoi ultimi anni: con lei Ryōkan dialogò fin sul letto di morte nel linguaggio in cui sempre aveva espresso gli aneliti del proprio cuore – quello poetico.

Vita e poesia s’intrecciano nei versi di questo monaco umile e allegro, per quanto segnato da profonde sofferenze; tutto trova spazio nei versi di Ryōkan: nessuno degli aspetti del suo quotidiano viene censurato, ridimensionato o al contrario ingigantito, enfatizzato. Il dolore è dolore, la vecchiaia è vecchiaia, la malattia e l’amore sono proprio malattia e amore; i componimenti narrano la fatica del tendere la ciotola sotto la neve come il piacere di rivedere gli amici, le parabole buddhiste come le filastrocche dei bambini. Questo suo nutrirsi dell’affliggersi come del celebrare, del patire la solitudine come del ringraziare il Buddha e i Patriarchi, talvolta impreziosito da una sottile autoironia (“Capelli arruffati, orecchie tese, / veste a brandelli e scolorata. / Torno a casa mezzo ubriaco e mezzo sobrio, / scortato da una fila di bambini.”), distingue Ryōkan dalla maggior parte degli altri poeti zenisti, e lo rende un autore prezioso anche per i lettori occidentali, talvolta interdetti, sospettosi (e forse un po’ infastiditi) al cospetto di un’austerità che, spesso a torto, richiama l’immagine stereotipata del monaco estraneo alle passioni umane. Ryōkan rompe gli schemi (occidentali e orientali) secondo cui ‘ascetismo’ fa rima con ‘penitenza’, ‘ricerca interiore’ con ‘durezza esteriore’: la Via su cui egli si incammina non porta da nessuna parte se non la si percorre con un cuore che, oltre ad essere puro, deve tuttavia rimanere tenero, capace di dolcezza e indulgenza (“Prediche e penitenze / sono inutili; / se nutri rancore, / infrangi gravemente / la regola del Bodhisattva.”); non per niente Ryōkan, per quanto monaco Zen, non perde occasione di sottolineare il proprio legame con l’Amidismo (“Se qualcuno / chiede a Ryōkan  / un canto di addio, / egli risponde: / Namu Amida Butsu!”).

Non si tratta affatto di buonismo (che per la dottrina buddhista semplicemente non avrebbe senso), ma piuttosto della consapevolezza che le intuizioni più profonde sul significato di vita e morte necessitano, per essere accolte e comprese, di un luogo interiore sgombro da cianfrusaglie egoiche, fra le quali, per l’appunto, figurerebbe anche la pretesa di una siderale quanto improbabile lontananza dal dolore, dal desiderio, dalla paura, dagli affetti. Tale consapevolezza si accompagna all’accettazione di quanto avviene all’interno di sé come all’esterno, e quindi alla possibilità di ascolto di alcune delle sfumature del sentire più difficilmente sopportabili – una solitudine senza spiragli, il senso di morte o di perdita, la negazione impietosa del ‘mai più’. Tutto ciò si traduce, nel caso di Ryōkan, in distillati di grande poesia, soave e sobria: “Dopo vent’anni sono tornato al paese natio: / i vecchi amici scomparsi, o andati in miseria. / La campana del tempio disperde i miei sogni: / la casa è vuota, la lampada quasi spenta.”. “Triste autunno con vento e pioggia, / pellegrino in ansia per le strade. / Nella lunga notte, mi sveglio con sogni strani; / non distinguo la pioggia dal rumore del fiume.”. E ancora: “A chi raccontare / la tristezza di un vecchio / che ha perduto / il suo bastone / mentre tornava / verso casa di sera?”.

In tutto questo, le abissali rivelazioni del Buddhismo Mahāyāna mormorano la loro essenza fra versi apparentemente innocenti, quasi ingenui: “La palla di stoffa colorata / che porto nelle mie maniche / vale più di mille monete. / Nel farla rimbalzare, / nessuno mi supera. / Se mi chiedete il segreto, / questa è la risposta: / «Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette!»”. “Il fiume è in piena, la primavera passata. / Fiori di salice cadono sulla mia veste. / Nella foschia risuona la melodia del flauto del pescatore. / A chi dire questa profonda solitudine?”, dove il “chi” dell’ultimo verso si riferisce forse alla mancanza reale di un amico, o più probabilmente all’insegnamento buddhista di Anātman, Non-sé, e quindi al non-io dell’autore stesso. Altri componimenti sono più espliciti, ma ugualmente delicati: “Di notte, nel silenzio della capanna, / suona l’arpa che non ha corde. / La sua melodia sale al cielo col vento: / la sua musica si unisce a quella del torrente; / risuona nell’intera vallata, / mormora nelle foreste e nelle montagne. / Se uno non chiude gli orecchi, / non può udire questa musica silenziosa.”. Insegnamenti vertiginosi, autoironia e semplicità disarmanti, finezza d’immagine e di espressione costituiscono l’alchimia dell’intera opera di Daigū Ryōkan, fino all’ultima poesia, dettata all’amata Teishin pochi giorni prima della morte: “Come rugiada / sui fili d’erba / di Musashino, / così scompare / la nostra vita.”.

Un ringraziamento a Roberta Galli