Un film che scandaglia il mare delle debolezze umane e ne riemerge con un tesoro che, pur affondando nell’umano, ci parla del divino.
Ci sarà pure la crisi, ma Natale è ormai arrivato. E difficilmente si rinuncia alla consuetudine dei doni. Se in queste ultime ore ne state cercando uno che arricchisca interiormente il fortunato che lo riceverà, e preferibilmente per pochi euro, eccolo qua: il dvd del film Ostrov – L’isola è ciò che fa per voi; lo trovate su Amazon (recapitato in pochi giorni).
Una presentazione un po’ materialista per un film che vive di spirito, e che nello spirito lascia inciso un segno profondo. Si tratta però di uno spirito cui forse non siamo abituati, neppure se siamo credenti: la cristianità ortodossa, ritratta nella pellicola di Pavel Longuine, si allontana non poco, infatti, dalle consuetudini della nostra spiritualità, cuore della cristianità cattolica, e parla facilmente (per molte ragioni, che qui non è il caso di approfondire) anche a tutti coloro che non sono credenti, ma che sono consapevoli della propria interiorità e desiderano nutrirla.
La storia è molto semplice (non così il messaggio, che va meditato, va vissuto). Mar Bianco, 1942: un rimorchiatore russo con a bordo un giovane marinaio e il suo capitano viene bloccato da una pattuglia nazista; al marinaio, folle di paura, viene concessa la possibilità di avere salva la vita, a patto che “sia uomo”, come dice l’ufficiale tedesco, e prema il grilletto contro il proprio compagno. Terrorizzato, il ragazzo spara. I nazisti se ne vanno, ma non senza far esplodere il rimorchiatore; il marinaio, miracolosamente salvo, viene raccolto la mattina dopo dai religiosi di un monastero vicino… Una trentina di anni dopo, nel monastero troviamo un monaco guaritore, padre Anatoly, la cui condotta causa scompiglio tra i confratelli: i laici vengono da lontano per parlare con lui ed alleviare così le proprie sofferenze, e l’abate sembra riconoscergli una saggezza superiore alla propria; ma il monaco, il cui animo è tormentato da un segreto che gli nega la pace, oltre ad aiutare il prossimo con arti quasi divinatorie e metodi efficaci (benché non sempre ortodossi), assume tuttavia comportamenti provocatori, talvolta apparentemente ingiustificabili, che creano imbarazzo e sconcerto fra i laici come fra i religiosi. Solo l’arrivo al monastero di un uomo e della sua figlia “molto malata” permetteranno all’animo di Anatoly di placarsi davvero.
Malgrado l’ambientazione religiosa, questo è un film che racconta l’essere umano: l’umanità e tutte le sue contraddizioni sono il carbone che, come quello spalato instancabilmente da Anatoly, dà vita alla narrazione; i meccanismi che nutrono il senso di colpa, l’invidia, l’avidità e la superbia sono gli ingranaggi che la fanno avanzare; l’apertura di cuore che suscita il film (un dono raro e prezioso nel quotidiano come nel mondo dell’arte, cinematografica o meno) è la sua destinazione. La parola chiave è accettazione: del dolore che pure non volendo si provoca negli altri, di quello che divora il nostro cuore, di quello gratuito – terribile, ma inflitto da nessuno; accettazione di quelle che comunemente chiamiamo ‘le nostre debolezze’, ma che di fatto ci sono connaturate, fanno parte di noi quanto la carne che ci sostiene, esattamente come quella che chiamiamo ‘forza’ o che, in tempi forse troppo remoti, era la ‘virtù’. A fare i conti con tutto questo, per quanto guidati ed amati, siamo soli: è solo Anatoly, che prega un Dio che non lo può aiutare perché il monaco stesso, avvinghiato alla propria colpa, glielo impedisce; lo è il padre attendente, il quale, per quanto sinceramente si sforzi, non riesce a spegnere l’invidia velenosa che lo consuma; lo sono i laici, che chiedono di essere liberati dalla responsabilità delle proprie scelte e che Anatoly aiuta proprio obbligandoli a vedere (dolorosamente) ciò che veramente vogliono; lo è l’abate, che non trova il coraggio di ritirarsi nel deserto ed esserlo davvero, solo… L’isola del titolo è quindi quella su cui Anatoly si trincera per penitenza, ma siamo anche tutti noi, alle prese con noi stessi.
Bene deve sapere tutto ciò l’attore che impersona Anatoly, Pëtr Mamonov: rockstar russa di successo, anni fa visse una crisi esistenziale che lo spinse a condurre una vita religiosa, che per gli ortodossi non significa solo credere, ma anche cercare concretamente tracce di Dio in sé, scandendo la propria quotidianità con pratiche spirituali impegnative come la preghiera del cuore – nella quale anche il protagonista del film cerca eroicamente un contatto con il proprio se stesso divino. Si tratta di una ricerca che mira, prima che al cambiamento, alla presa di coscienza di ciò che si è veramente, ad uno sguardo lucido che non censuri ciò che di noi non ci piace. Senza questo sguardo (che è poi quello che padre Anatoly tenta di spalancare in chi, coscientemente o meno, glielo chiede), la pace semplicemente non è possibile, così come una morte serena; si sarà forse in grado di aiutare il prossimo, di diventarne la guida, ma non di guarire se stessi. Il perdono resta una grazia su cui non abbiamo potere, ma che è sensato cercare nei recessi di quella che, ergendoci a spietati giudici di noi stessi e degli altri, chiamiamo goffamente ‘colpa’.