Pubblichiamo un articolo di Carlo Saviani, curatore della traduzione in italiano di “La religione e il nulla” di Nishitani Keiji (Città nuova, Roma 2004), autore dell’interessantissimo libro “L’Oriente di Heidegger” (Il melangolo, Genova 1998) e senza dubbio uno dei principali fautori della scoperta della scuola di Kyoto in Italia, di cui Nishitani è una figura essenziale.
La tradizione filosofica occidentale nel pensiero di Nishitani Keiji*
Il pensiero e l’opera di (1900-1990) da almeno un ventennio, prima negli Stati Uniti e in Germania e poi anche in Belgio, Messico, Francia e Spagna, suscitano un vivo interesse e una cospicua produzione di studi e traduzioni, dalla quale emerge una figura di pensatore tra le più originali e stimolanti del Novecento, i cui temi potrebbero anche in Italia arricchire il dibattito filosofico e teologico oltre che gli stessi studi orientalistici.[1]
Nishitani, infatti, riveste un ruolo di primo piano nei campi del dialogo interreligioso, della questione del nichilismo, della storia della cultura giapponese e della storia contemporanea del buddhismo zen. Nel corso di una sintetica introduzione proverò a marcare alcuni tratti del pensiero di Nishitani, almeno quelli più inerenti al tema generale di queste nostre discussioni. Spero di mostrare come, al pari di Heidegger, Nishitani abbia considerato ineludibile il confronto tra il pensiero orientale e quello occidentale e sentito l’esigenza di impostare un pensiero che, con le felici espressioni di Ernesto Balducci, riesca ad essere «planetario» e «dalle molte memorie».
Con Nishida Kitarô (1870-1945) e Tanabe Hajime (1885-1962), Nishitani è uno dei grandi pilastri della cosiddetta «Scuola di Kyôto». Sorta negli anni Venti intorno alla personalità e al pensiero di Nishida, la scuola di pensiero fiorita presso l’Università Imperiale di Kyôto rappresenta uno dei tentativi più interessanti di stabilire un dialogo e una sintesi tra il pensiero occidentale e quello estremo-orientale. Più precisamente, da Nishida e Tanabe allo stesso Nishitani e a Ueda Shizuteru (1926) i pensatori della Scuola di Kyôto, tutti legati alla tradizione buddhista, zen e shin, hanno tentato di delineare un’ontologia relazionistica attraverso l’assimilazione della concettualità filosofica e religiosa occidentale e, in un serrato confronto con essa, hanno tentato di esprimere una sintesi epocale capace di comprendere e fronteggiare con i propri modelli e metodi tradizionali la crisi della modernità e la sfida nichilistica dell’impero planetario della tecnica, di matrice occidental-europea.[2]
Già a partire dai suoi primi scritti e corsi universitari, Nishida improntò la Scuola di Kyôto in due sensi: innanzitutto, intese offrire un contributo prettamente orientale alla tradizione filosofica occidentale con l’impiego di concetti-chiave buddhisti; inoltre, intese arricchire la riflessione buddhista sottoponendola al rigore della filosofia europea.
E questo fu anche l’intento di Nishitani. Nel 1949, in una breve ricostruzione della personalità e del pensiero del maestro, egli scriveva:
Si possono ritrovare nel pensiero di Nishida sia il pensiero occidentale che una modernizzazione dello spirito orientale. Questa, mi sembra, è la strada che la cultura giapponese deve prendere. A fronte di tutti gli splendori della storia culturale dell’Oriente, il presente esige da noi qualcosa di più; non è il caso di riesumare idee dal passato per farle rivivere nel presente. Occorre un’accettazione fondamentale del pensiero, e forse anche della cultura, occidentale. D’altra parte, seguire pedissequamente le orme dell’Occidente non contribuisce alla cultura mondiale, per quanto diligente possa essere il nostro impegno. A livello mondiale, noi ci troviamo in una posizione vantaggiosa, nel senso che serbiamo una tradizione profondamente radicata nello spirito orientale, che i popoli occidentali non hanno: in un modo o nell’altro, dobbiamo trovare un modo per riportarla in vita, non possiamo lasciarla logorare dal tempo. Il giusto modo di procedere è, secondo me, far rivivere la cultura dell’Oriente attraverso la cultura dell’Occidente – nella forma di una rinascita attraverso la cultura occidentale o di un nuovo sviluppo della cultura occidentale.[3]
Nel 1967, in un saggio sullo stato della filosofia nel Giappone contemporaneo, dirà:
Noi Giapponesi abbiamo ereditato due culture completamente differenti. (…) Questo è un grande privilegio, del quale gli occidentali non partecipano (…) ma al tempo stesso ci carica di una grande responsabilità: porre basi filosofiche per un mondo in formazione, per un mondo nuovo, unito al di là delle differenze di Oriente e Occidente.[4]
E, riassumendo la sua posizione al riguardo, in un saggio autobiografico del 1963 affermerà: «Penso che d’ora in poi il pensiero filosofico debba trascendere la distinzione tra Oriente ed Occidente e stabilirsi su fondamenta più estese».[5]
Con questi intenti, a differenza di Nishida e Tanabe, che rivolsero i loro scritti solo al lettore giapponese e non si preoccuparono di farli tradurre nelle lingue occidentali, Nishitani, grazie anche alle sue notevoli competenze linguistiche, diede conferenze in Europa e in America, collaborò attivamente con i traduttori dei propri scritti, con l’obiettivo che il suo pensiero fosse letto e discusso da filosofi occidentali. E, sebbene già ottantenne, interpretò un ruolo principale in Giappone nell’animare pubblici dibattiti con filosofi occidentali.
In effetti, l’ondata di interesse per il suo pensiero, sia in Occidente che nello stesso Giappone si è levata proprio grazie alle traduzioni tedesca e inglese nel 1982 del suo capolavoro, Shûkyô to wa nanika (Che cos’è religione?, 1961).[6]
Nishitani scrisse saggi su autori classici come Kant, Aristotele, Plotino, Agostino, Eckhart, Boehme, Descartes, Schelling, Hegel, Nietzsche, Dostoevskij, Bergson e Heidegger, e fu uno dei pionieri nella traduzione in giapponese di classici del pensiero occidentale, come alcune opere di Schelling e Kierkegaard. Contemporaneamente, ricorse di frequente a classici orientali del buddhismo, del taoismo e del confucianesimo ed offrì originali interpretazioni di temi biblici.
Come egli stesso ebbe a dire, la direzione fondamentale di questi vasti interessi filosofici fu quella di «attraversare il nichilismo e trovare una via per superarlo».[7]
Le motivazioni di questo suo cammino filosofico non furono per nulla accademiche; esse si radicano negli anni della sua adolescenza. Rievocando quel periodo, nel 1949 scrisse:
Riassumendo in una sola frase i giorni della mia giovinezza, devo dire che quello fu un periodo senza alcuna speranza. Meglio ancora, fu un periodo in cui tutte le speranze erano state sradicate fin dal profondo. Certo, in quei tempi il mio non era un problema diffuso. Al contrario, era appena finita la prima guerra mondiale e per il Giappone, almeno così appariva dall’esterno, era iniziato un periodo di prosperità. Si può dire che la gioventù di quel tempo viveva un periodo pieno di sogni e di speranze. Ma io ero caduto in uno stato in cui tutti i sogni e le speranze apparivano senza senso. Non che essi fossero obiettivamente così; piuttosto, era quello il modo in cui io li sentivo dentro di me. Era come se avessi una spina conficcata nel cuore: e soffrivo, in preda ad una costante pena. Incapace di estrarre quella spina e pensando che non c’era altro modo di liberarmi dalla sofferenza se non con la morte, vivevo in un assoluto senso di nullità e di disperazione. A sedici anni avevo perso mio padre. (…) La mia decisione di studiare filosofia, per melodrammatico che possa suonare, fu davvero una questione di vita o di morte. (…) lessi avidamente autori come Tolstoy, Dostoevskij, Ibsen e Strindberg. A causa dell’esperienza della malattia, mi era sempre presente il problema della morte, e così lessi la Bibbia ed altre opere religiose. Per lo stesso motivo lessi anche qualche opera buddhista e lo Zarathustra di Nietzsche. (…) Allora non mi rendevo conto che stavo vivendo all’interno del fondamentale problema filosofico dell’esistenza e del nulla. (…) La decisione di studiare filosofia fu una sorta di conversione.[8]
Nishitani inizia, così, il suo cammino filosofico studiando testi occidentali, per poi rivolgersi sempre più all’approfondimento della tradizione orientale.
Il punto di partenza filosofico di Nishitani non è né la meraviglia né l’apologia della fede, ma il sentimento dell’insensatezza dell’esistenza e dell’illusorietà delle risposte etiche e religiose tradizionali; e l’interesse per il nichilismo europeo, con il sempre più marcato confronto con la propria tradizione culturale, nasce da un’esigenza esistenziale.
Nel citato saggio autobiografico del 1963, egli dice:
Se dovessi cercare di definire il mio punto di partenza filosofico, non troverei altra parola che “nichilismo”. Quando iniziai gli studi di filosofia, il concetto non mi era molto chiaro; ma ad uno sguardo retrospettivo non esiste oggi un termine migliore. Certo, rigorosamente parlando, il nichilismo è già una posizione filosofica; ma io non lo intendo in quel senso né intendo dire che ero semplicemente in uno stato d’animo nichilistico. Il genere di nichilismo di cui sto parlando è qualcosa che precede la filosofia e nel contempo contiene essenzialmente uno spinta verso una dimensione filosofica.[9]
Per «nichilismo» egli non intende il mero sentimento dell’insensatezza della vita, da superare magari appellandosi a qualche sistema etico o a qualche tradizione religiosa. È piuttosto un nichilismo di secondo grado, che nasce dall’insufficienza delle risposte etiche e religiose a questa insensatezza. Questo nichilismo si attiene fermamente al proclama nietzscheano che Dio non solo è morto, ma soprattutto «resta morto» (La gaia scienza, af. 125).
Chiarendo questo punto, egli dice:
Penso che, persino quando la disperazione e il nulla siano stati vinti dalla religione, ciò non ponga fine al problema del nichilismo. Il nichilismo non è il problema del nulla nel senso ordinario di questo termine. C’è un’importante differenza. Il nichilismo è quel nulla che riappare nella dimensione religiosa ovvero a quell’altezza (o profondità) in cui il nulla ordinario è stato vinto. (…) Forse potrebbe essere paragonato ad un germe o ad un virus che, pur vinto da un potente farmaco, fa di nuovo la sua comparsa, stavolta dotato però di una resistenza costruita proprio contro quel farmaco. Il nichilismo è un nulla che ha realizzato una prospettiva che resiste alla religione, negando persino la religione. (…) Facendosi strada attraverso la dimensione etica e quella religiosa, questo nulla guadagna in resistenza. (…) Piuttosto che essere vinto dall’etica o dalla religione, il nichilismo include nella sua essenza un dubbio che possiede un’irriducibile resistenza all’etica e alla religione. Nel bel mezzo della vita questo nulla provoca un senso di insensatezza dalle sue profondità, un dubbio che riguarda il fondamento della vita umana. Così, si dubita di qualsiasi tentativo di trovare un senso nella vita umana, specialmente mediante l’etica o la religione.[10]
Come spiega Heisig, già nel saggio che scrisse su Nietzsche ed Eckhart al termine del suo soggiorno di studi in Germania con Heidegger, Nishitani assume il compito di superare la disperazione nichilistica non dall’esterno ma dall’interno del nichilismo stesso, addentrandosi nelle sue profondità. Ciò che gli appariva come il pericolo maggiore era sentirsi a distanza dalla vita, «come una mosca che sbatte contro il vetro di una finestra senza poterlo attraversare», o come una persona che dalla finestra guarda una tormenta, incapace di sentire sulla faccia il contatto della neve e del vento. «Per un certo periodo arrivò perfino a mettere in questione la stessa validità della filosofia e della vita accademica. Non che le ombrose aule dell’accademia lo separassero dall’aria fresca e dal sole brillante del mondo reale; all’opposto, la luce artificiale e l’ambiente confortevole dell’università lo separavano dalla grande oscurità e angoscia che là fuori se ne stavano in attesa».[11]
Al problema del nichilismo Nishitani dedica nel 1949 una raccolta di saggi, dal titolo Nihirizumu (Nichilismo).[12] Gli autori più estesamente trattati sono Nietzsche, Stirner, Dostoevskij e Heidegger.
Il senso del libro può essere colto in questi brani tratti dalla Prefazione:
Quando ero un ventenne, le figure di Nietzsche e Dostoevskij marchiarono a fuoco il fondo della mia anima (…) e da allora in poi i tremiti che provai hanno continuato a far fremere il mio cuore. (…) Il nichilismo che qui tratto non è semplicemente un vago sentimento o una semplice tendenza; è piuttosto qualcosa che è diventato autocosciente. Inoltre, è un nichilismo che in un certo senso è l’autosuperamento di ciò che viene comunemente chiamato «nichilismo». (…) Ciascuna delle figure rappresentative che segnano il corso del nichilismo europeo sviluppò una forma totalmente differente di idee. Se in ciascuno di loro sono evidenti le manifestazioni del nichilismo, un accurato esame del loro pensiero appare rivelare un fondamentale modello comune. Ho tentato di delineare questo modello come la fondamentale integrazione di nichilismo creativo e finitezza. Da questa posizione io percepisco i segni di un nuovo orientamento che prende forma nelle profondità dello spirito dell’Europa moderna e mi accorgo che questo spirito sta cominciando ad aprire un orizzonte per importanti contatti con il buddhismo [pp. XXXIII-XXXIV].
Nel volume il pensiero di Nietzsche gioca un ruolo preminente. Sebbene non appaia influenzato dall’interpretazione che Heidegger ne aveva offerto nei corsi della fine degli anni Trenta, frequentati dallo stesso Nishitani, potremmo riassumere il pensiero del filosofo giapponese proprio mediante la lettura che Heidegger offre del capitolo dello Zarathustra intitolato «La visione e l’enigma». Dice Heidegger: «Il serpente nero è l’aspetto tetro, sempre identico e in fondo senza fine e senza senso del nichilismo, è il nichilismo stesso. (…) Zarathustra tira il serpente – invano. Questo vuol dire: il nichilismo non può essere superato dall’esterno, tentando di strapparlo e di cacciarlo via, ponendosi semplicemente al posto del Dio cristiano un altro ideale, la ragione, il progresso, il “socialismo” economico-sociale, la mera democrazia». In fondo, prosegue Heidegger,
Da un lato si ha: tutto è nulla, tutto è indifferente, sicché nulla vale la pena: tutto è uguale. Dall’altro lato si ha: tutto ritorna, ogni attimo è importante, tutto è importante: tutto è uguale. La spaccatura minima, l’apparente ponte rappresentato dal detto “tutto è uguale” nasconde l’assolutamente diverso: tutto è indifferente, nulla è indifferente.[13]
Nell’ultimo capitolo, dedicato al significato del nichilismo per il Giappone, Nishitani però avverte:
Rimane chiaro, tuttavia, che c’è nel buddhismo mahâyâna una posizione che non può essere raggiunta neanche dal nichilismo che supera il nichilismo, sebbene esso tenda in quella direzione [p. 180].
Questa «posizione» (tachiba) è la vacuità (scr. úûnyatâ, g. kû), che costituirà d’ora in poi il motivo dominante del pensiero di Nishitani.[14] Assunto che Dio non solo è morto ma resta insostituibilmente morto, è possibile attraversare il deserto che avanza, solo «realizzando» ed «interpretando» il nulla in un modo radicalmente diverso.[15] Il nulla assoluto (zettai mu, termine-chiave nel pensiero di Nishida), la vacuità, non equivale al nulla relativo all’essere (g. kyomu), ossia al nihilum della tradizione creazionistico-volontaristica dell’Occidente cristiano, altrettanto oggettivato quanto il sostanzialistico essere dell’eredità greca, bensì è la radicale insostanzialità (scr. anâtman, g. muga) ed interdipendenza (scr. pratîtya-samutpâda, g. engi) della nostra esistenza, delle cose (scr. rûpa, g. shiki) che viviamo e dei concetti (scr. vikalpa, g. funbetsu) che ne abbiamo. In questa prospettiva teorica ed esistenziale persino «la vacuità è, nella sua Forma originaria, autosvuotantesi»,[16] sia nel senso che svuotando originariamente se stessa, la vacuità è (lascia essere) le cose vuote di sostanza e perciò nodi di infiniti rimandi, sia nel senso delle parole di Nâgârjuna, per il quale «coloro per cui anche la vacuità è un’opinione, i Vittoriosi (gli Svegliati) li han detti inguaribili».[17] La vacuità, insomma, non si lascia comprendere in un’indagine obiettivante, nei termini del dualismo soggetto-oggetto (scr. grâhya-grâhaka), ma la si può realizzare solo nella vacuità del sé; la desostanzializzazione dell’essere (e del nulla nichilistico) è tutt’uno con la desoggettivazione di se stessi.
Perfino nei suoi risultati più elevati, il nichilismo europeo fallisce nel tentativo di superare se stesso proprio perché non riesce a svincolarsi dall’ontologia occidentale e dai suoi concetti di essere e di nulla, entrambi sostanzializzati ed oggettivati. Afferma infatti Nishitani:
Il nihilum non può da se stesso scuotersi dal nihilum. Il nichilismo è ostacolato nelle sue positive intenzioni proprio dal nihilum sul quale si basa così risolutamente.[18]
Alternativa all’ontologia sostanzialistica occidentale, che entifica persino il nulla, è allora la meditazione buddhista della vacuità o, nella formula di Nishida, del «nulla assoluto». Spiega Nishitani in un importante saggio:
È noto che quello di anâtman, corrispondente a qualcosa come il senza sé [das Selbst-lose], è un concetto fondamentale del buddhismo. Esso rappresenta la negazione della realtà di un’entità quale l’âtman, ossia di ciò che, da sostegno permanente e unitario, assegna ad ogni singolo ente la sua identità con sé. Nel buddhismo mahâyâna il concetto di anâtman viene evocato in egual modo per due diversi ambiti: quello delle cose in generale e quello degli uomini in particolare. Si potrebbe forse dire che il concetto di âtman (il sé) corrisponda più o meno al concetto di sostanza [Substanz] fisica per le cose in generale e a quello di soggetto [Subjekt] per l’uomo, all’incirca nel senso dell’ego cartesiano (res cogitans). Il concetto di âtman, che racchiude in sé questi due significati, con una certa approssimazione corrisponderebbe, allora, all’antico concetto europeo di subjectum, che rappresenta ciò che sta al fondo di ogni singolo ente, sia esso una cosa o un uomo. Nel pensiero buddhista dell’anâtman, e ciò è molto importante, viene negata proprio la realtà di un tale sostrato.[19]
La vacuità non è un «qualcosa» che appartenga al campo dell’essere o del non essere, ma ingloba ogni opposizione e permea ogni cosa; è, come dice Nishitani ne La religione e il nulla, l’abisso dello stesso nihilum abissale, che «svuota se stessa persino della prospettiva che la rappresenta come una qualche “cosa” vuota» (p. 137).
Ne La religione e il nulla, quella della vacuità, o del nulla assoluto, costituisce la posizione dalla quale Nishitani si confronta con la tradizione filosofica occidentale, sia nei suoi esiti nichilistici che con quelle correnti di pensiero che egli considera affini alla sua tradizione.
I termini di confronto negativi sono Aristotele (principalmente i concetti di usia e logos), il creazionismo e il personalismo ebraico-cristiano (considerati come matrici e, insieme, vittime del nichilismo) e Descartes (per le nozioni di soggetto e cogito); ma anche l’umanismo ateo di Sartre (per il suo coscienzialismo) e l’ontologia fenomenologica del primo Heidegger (il suo sarebbe un nichilismo sì desostanzializzante, ma non riaffermativo).
Affini alla sua tradizione Nishitani considera invece i concetti cristiani dell’agapç e della kenôsis, e soprattutto la teologia negativa di Meister Eckhart. Avviandomi a concludere, vorrei focalizzare l’attenzione su quest’ultimo punto riassumendo le analisi che Nishitani elabora nel secondo capitolo de La religione e il nulla, laddove il pensiero di Eckhart è affrontato discutendo la questione della personalità divina.
Com’è noto, Eckhart propone la forma più radicale di teologia negativa, in quanto distingue tra Dio e Deità, o essenza di Dio, nella quale sono trascesi tutti i modi d’essere (attività creatrice, provvidenza, giudizio selettivo), che sono solo attribuzioni creaturali. La Deità, ciò che Dio è di per se stesso, si rifiuta alla logica dell’essere e, sottolinea Nishitani, può essere definita solo come «nulla assoluto». Ora, quando una persona diventa una vivente immagine di Dio, in lei nasce non solo Dio, ma anche la Deità. Per l’anima, ciò significa unirsi a Dio, irrompendo oltre il proprio sé e penetrando sempre più nel Dio che è nato in essa; in ciò, l’anima diventa sempre di più se stessa fino ad irrompere nell’essenza di Dio, il nulla assoluto o il deserto della Deità. In questo fondo senza fondo, l’anima è deprivata della sua egoità. In questo luogo, l’anima ritorna in se stessa e insieme raggiunge il punto in cui Dio è in se stesso. Non è semplicemente unita a Dio, ma è tutt’uno con Dio. In questo deserto di assoluta morte, sgorga una sorgente di vita assoluta – una sorgente che fermenta in se stessa, condivisa sia da Dio che dall’anima. Dio e l’anima sono un singolo, vivente «puro Uno». È importante notare, secondo Nishitani, che 1) Eckhart colloca l’«essenza» di Dio al di là della personalità; 2) questo nulla assoluto diventa il campo della nostra assoluta vita-morte; 3) solo nel nulla assoluto l’uomo può veramente essere se stesso e realizzare la sua libertà e la sua soggettività; qui, spiega Nishitani, la soggettività non è la soggettività dell’ego, ma quella che risulta dalla morte dell’ego, o Abgeschiedenheit, e dalla pura unità con Dio nel nulla della Deità. Il vero sé ha qui il suo luogo originario, nella Deità prima ancora che Dio pronunciasse il suo Verbo. Ora, spiega Nishitani, Eckhart non considera il nulla assoluto una landa deserta, lontana dalla realtà, o un inebriato isolamento dalla realtà. Al contrario, Eckhart mette energicamente in guardia da simili tendenze e loda le attività pratiche della vita quotidiana. Sebbene il campo della Deità sia chiamato «nulla assoluto», Eckhart insiste sul fatto che esso debba essere vissuto proprio nel bel mezzo della vita quotidiana, nella cui immediatezza esso si dischiude. Né lo «stare nella Deità» può essere interpretato come una mera contemplazione di Dio. Esso è piuttosto la realizzazione (nel duplice senso di attuare ed assumere), nella nostra vita quotidiana, del nulla della Deità. Insomma, riassume Nishitani, proprio la distinzione tra Dio e Deità è necessaria all’apertura di questa via alla vera e originaria soggettività. Eckhart parla di «rinunciare a Dio per Dio» e scrive: «Preghiamo Dio di diventare liberi da Dio»[20]. Rinunciare a Dio per amore di Dio sembra voler dire che l’uomo, solo essendo veramente se stesso nel nulla della Deità, testimonia essenzialmente Dio attraverso il suo esserci qui ed ora.
Quindi, sebbene il campo della Deità sia definito «nulla assoluto», esso va vissuto nelle attività pratiche della vita quotidiana. Eckhart considera il nulla della Deità, al fondo del Dio personale, come il luogo dove si radica l’autonomia dell’anima in una profonda unità con l’essenza di Dio. Ora, nel corso del libro, Nishitani assume la differenza teologica tra Deus-Trinitas e Gottheit come modello di una ontologia negativa o, si potrebbe forse meglio dire, kenotica. Afferma infatti in un passaggio-chiave:
La sostanza rappresenta il punto in cui una cosa preserva la sua identità: indica ciò che una cosa è di per se stessa solo nella misura della forma eidetica nella quale la cosa si dischiude a noi. Ma se è così, qual è il modo d’essere della cosa completamente recisa da questa apertura a noi? Eckhart parla della Deità, o essenza di Dio, nei termini di un nulla assoluto, assolutamente senza forma, dove Dio è nella sua terra natia, al di là di qualunque delle forme in cui si dischiude alle sue creature, e in particolare oltre le forme personali attraverso le quali si rivela all’uomo. Vorrei assumere qui quella nozione di «essenza» riguardo a tutto ciò che esiste.[21]
Qui Nishitani sembra «tradurre» la teologia eckhartiana nei termini di una nuova ontologia. Come la Deità, l’essenza delle cose, il loro esser di per se stesse non è sostanziale e si rifiuta ad un atteggiamento oggettivistico e teoreticistico; è la vacuità. Solo irrompendo oltre il campo della coscienza e del suo atteggiamento oggettivistico, possiamo realizzare la realtà e diventare tutt’uno con la vacuità. La vacuità è inoggettivabile; la si può solo vivere in un esercizio continuo di autosvuotamento nel bel mezzo della vita quotidiana. Solo in un tale esercizio le cose e noi stessi, già nientificati, veniamo ri-entificati.[22]
A conclusione di questa presentazione possiamo proporre l’analisi di uno scritto del 1984, nel quale Nishitani riassume nel modo più chiaro la propria posizione.
Nell’aprile 1984, negli Stati Uniti fu organizzato un importante convegno in occasione della pubblicazione di Religion and Nothingness. Non potendo parteciparvi per motivi familiari, Nishitani inviò un breve scritto, Incontro con la vacuità, nel quale appare mirabilmente condensato il suo pensiero[23]. Innanzitutto, egli chiarisce che il tema dominante del libro è il concetto del nulla e che il suo interesse centrale è stato quello di affrontare filosoficamente il problema del nulla; ciò ha comportato, a proposito di una chiarificazione del «nulla orientale», la necessità di orientarsi a partire dai vari temi della filosofia occidentale contemporanea. In generale, afferma Nishitani, nel singolare crocevia culturale costituito dal Giappone contemporaneo, in cui convivono cultura occidentale e tradizioni orientali, è necessario per i giapponesi «ri-pensare» la loro tradizione con l’ausilio di ciò che hanno appreso dalla filosofia occidentale.
Ora, il tratto peculiare del pensiero orientale è, afferma Nishitani,
aderire strettamente alla vita quotidiana e ai problemi che ne nascono, ossia trattare i problemi contenuti nella vita quotidiana e di cercarne la soluzione attraverso una intuizione profonda. La caratteristica del pensiero orientale potrebbe essere proprio questa: identificarsi con i problemi della vita ordinaria, come camminare, stare in piedi, sedere o coricarsi, e risolverli mediante il pensiero. […] La questione è: qual è il volto reale delle nostre banali esperienze di vita quotidiana? Nel buddhismo l’intuizione profonda è considerata estremamente importante; e vedere, udire, percepire sono definiti il vero sentiero del buddhismo.[24]
Lo zen sottolinea nel modo più radicale la necessità di realizzare l’intuizione profonda della realtà nel bel mezzo della vita quotidiana; ed è in questo senso che assume il nulla o vacuità come la sua nozione centrale. Infatti, spiega Nishitani, per lo zen questa nozione deve intendersi alla luce dell’espressione «niente a cui tenersi».[25] Uno dei primi kôan assegnati nella pratica zen, tratto dal mondo contadino, riguarda proprio la vacuità: «Maneggiare la vanga a mani vuote; camminare a cavalcioni del bufalo». Chiarisce Nishitani:
Quando la vanga, il lavoro e il lavoratore sono tutt’uno, non ci sono né vanga né lavoro né lavoratore. Questa è la realizzazione della vacuità; e questo è ciò che s’intende con l’espressione «a mani vuote». Lo stesso accade quando il contadino coltiva le risaie a cavalcioni del suo bufalo: se il contadino e il bufalo diventano tutt’uno, il contadino può camminare stando nello stesso tempo a cavalcioni del bufalo. Egli sta camminando sedendo sul bufalo, passo dopo passo. Questo vuol dire che l’universo nella sua totalità si manifesta come bufalo. Altrettanto accade quando camminiamo per le strade della città o nuotiamo nel mare. Credo che in ciò risieda lo spirito fondamentale della cultura orientale. E ciò che si può maneggiare a mani vuote non è solo la vanga, ma anche la penna quando scriviamo, la sigaretta quando fumiamo o l’automobile quando guidiamo.[26]
In questo senso, spiega ancora Nishitani, la prospettiva dello zen e, più in generale, il nocciolo della prospettiva buddhista consiste nel considerare la vita quotidiana come il problema fondamentale e, nello stesso tempo, la chiave di tutti i problemi.
Quanto al senso del proprio impegno filosofico, Nishitani lo coglie sì nel pensare filosoficamente una tale prospettiva, ma secondo le modalità proprie della tradizione zen. Si chiede infatti: «Che cosa significa pensare in questa filosofia della vita quotidiana?» e riporta un dialogo zen citato da Dôgen. Alla domanda di un monaco: «A che cosa pensi, così imperturbabile?», il maestro Yakusan Kôdô, assorto in zazen, rispose: «Penso al non-pensiero». E quando il monaco gli chiese: «Come si pensa al non-pensiero?», il maestro rispose: «Senza pensare».[27] E conclude Nishitani:
Questo fondamentale «senza pensare» è lo stesso che stare «a mani vuote». Io intendo il lavoro filosofico come pensare al fondamentale senza pensare, proprio nel modo in cui nel quotidiano lavoro dei campi si estirpano le erbacce «maneggiando la vanga a mani vuote», manifestando così direttamente il nulla assoluto. Da una tale prospettiva vorrei chiarire i tanti problemi del nostro tempo.[28]
Note:
* Con qualche aggiornamento il seguente testo riproduce una relazione presentata al convegno su Comparatismi e filosofia, tenuto a Napoli nel 2004, ora in Comparatismi e filosofia, a cura di M. Donzelli, Liguori, Napoli 2006, pp. 219-37.
[1] Di Nishitani sono stati pubblicati in traduzione italiana: La religione e il nulla, trad. dall’inglese di C. Saviani, introduzione di James W. Heisig, Città Nuova, Roma 2004, pp. 387, e La relazione io-tu nel buddhismo zen e altri saggi, trad. dal tedesco e dall’inglese di C. Saviani, L’Epos, Palermo 2005, pp. 196 (contiene: I giorni della mia giovinezza, Il punto di partenza della mia filosofia, L’esistenza religioso-filosofica nel buddhismo, Il risveglio del sé nel buddismo, La relazione io-tu nel buddhismo zen, Ontologia e proferimento; è inoltre in corso di pubblicazione, trad. dall’inglese di C. Saviani, Dialettica del nichilismo (L’Epos, Palermo).
[2] Sulla Scuola di Kyôto, il testo più chiaro ed esaustivo finora apparso è J. W. Heisig, Filosofi del nulla, trad. dall’inglese di E. Fongaro, C. Saviani e T. Topolini, L’Epos, Palermo 2007, pp. 821. Il maggiore contributo alla diffusione in Occidente della Scuola di Kyôto è offerto dal “Nanzan Institute for Religion and Culture” di Nagoya (Giappone), diretto dallo stesso prof. Heisig; cf. www.ic.nanzan-u.ac.jp/SHUBUNKEN. In Europa, un importante centro di studi si è costituito all’Università “Pompeu Fabra” di Barcellona.
[3] Nishitani K., Nishida Kitarô, trad. ingl. di Yamamoto S. e J. W. Heisig, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1991, pp. 40-41.
[4] Il passo è citato in J. W. Heisig, Filosofi del nulla, cit., pp. 465-6.
[5] Il punto di partenza della mia filosofia, in La relazione io-tu nel buddhismo zen e altri saggi, cit., p. 35.
[6] La religione e il nulla, cit.
[7] Il punto di partenza della mia filosofia, cit., p. 45.
[8] I giorni della mia giovinezza, in La relazione io-tu nel buddhismo zen e altri saggi, cit., pp. 19-30.
[9] Il punto di partenza della mia filosofia, cit., p. 36.
[10] Ib., pp. 40-44.
[11] J. W. Heisig, Filosofi del nulla, cit., p. 415
[12] Ora in traduzione inglese, The Self-Overcoming of Nihilism, trad. ingl. di G. Parkes, SUNY, Albany 1990. Del volume è in corso di pubblicazione la traduzione italiana, dal titolo Dialettica del nichilismo (L’Epos, Palermo). Più che dai corsi friburghesi di Heidegger su Nietzsche e il nichilismo, a due dei quali aveva assistito lo stesso Nishitani negli anni 1937-39, soprattutto nell’interpretazione di Nietzsche l’analisi di Nishitani appare segnata dalle ricostruzioni di Karl Löwith.
[13] M. Heidegger, trad. it. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994, p. 370.
[14] Nishitani impiega il termine tachiba nel senso di luogo d’osservazione, postazione e, insieme, di prospettiva e postura. Il termine «posizione» può forse renderne al meglio l’ambiguità. Nelle traduzioni in inglese, tedesco e spagnolo dei testi di Nishitani tachiba è stato di solito reso rispettivamente con standpoint, Standpunkt e punto de vista.
[15] Nel suo capolavoro, Nishitani afferma che la nozione di realizzazione ha, come nell’inglese realization e nel tedesco realisation, il doppio significato di attuazione e comprensione (La religione e il nulla, Roma 2004, p. 36; Religion and Nothingness, Berkeley 1982, p. 5; Was ist Religion?, Frankfurt a.M. 1982, p. 44); in tal senso, si potrebbe aggiungere, essa condivide il doppio significato della nozione di interpretazione. Soprattutto nel caso del nulla, tale ambivalenza è strettamente connessa al senso etico-trasformativo delle nozioni propriamente buddhiste di ignoranza (scr. avidyâ, g. mumyô) e risveglio (scr. bodhi, g. hongaku; nello Zen: g. satori, kenshô). Buddha è letteralmente il “risvegliato”, colui che ha realizzato la realtà, e nel contempo se stesso, come insostanzialità (scr. anâtman, g. muga; letteral. “senza io”), impermanenza (scr. anitya, g. mujô) e vacuità (scr. úûnyatâ, g. kû).
[16] K. Nishitani, La religione e il nulla, cit., p. 137. In questo senso, la “vera vacuità” (g. shinkû) è nel contempo “presenza meravigliosa” (g. myô-u) e viceversa (ivi, p. 234).
[17] Madhyamaka kârikâ, XIII.8; tr. it. Stanze del cammino di mezzo, in Testi buddhisti in sanscrito, (a cura di R. Gnoli), Utet, Torino 1983, p. 339.
[18] The Self-Overcoming of Nihilism, cit., p. 128.
[19] L’esistenza religioso-filosofica nel Buddhismo, in La relazione io-tu nel buddhismo zen e altri saggi, cit., p. 54.
[20] Meister Eckhart, Qui audit me, in Id., Sermoni, Paoline, Milano 2002, p. 170; Beati pauperes spiritu, quia ipsorum est regnum coelorum, in Id., Sermoni, cit., p. 391.
[21] La religione e il nulla, cit., p. 158.
[22] Ne La religione e il nulla Nishitani impiega il termine muka per tradurre il neologismo heideggeriano Nichtung, nientificazione, e il termine uka (o il neologismo Ichtung) per indicare la rientificazione che ha luogo grazie alla realizzazione della vacuità.
[23] Encounter with emptiness. A Message from Nishitani Keiji, in The Religious Philosophy of Nishitani Keiji, ed. by Unno T., University of California Press, Berkeley 1989, pp. 1-4.
[24] Ib., p. 2.
[25] Il termine ripreso da Nishitani, «muichimotsu», era impiegato dal maestro cinese Hui-neng (638-713) per indicare l’insostanzialità delle cose. In questo brano viene tradotto con «not having a single thing». Nel Japanese-English Buddhist Dictionary, Daitô Shuppansha, 1979, p. 202, viene tradotto con «nothing to cling to».
[26] Encounter with emptiness, cit., p. 3.
[27] Il dialogo è riportato da Dôgen nello Shôbôgenzô all’inizio dello Zezenshin. Sulla differenza in Dôgen tra shiryô (pensiero oggettivante e discriminante), fushiryô (non-pensiero, assenza di pensiero) e hishiryô (senza pensare, condizione corporeo-mentale che non cerca né di seguire né di sopprimere i pensieri), vd. anche lo Zazengi, lo Shinjin gakudô e il Fukan zazengi.
[28] Encounter with emptiness, cit., p. 4. La traduzione inglese del passo di Nishitani su Dôgen è stata corretta su segnalazione del prof. Heisig.