Articolo di Roberto Ferrari Centro Studi Asia
Sommario
- La propria morte: rimandare l’appuntamento
- La morte degli altri: nascondere il cadavere
- Zone sacre e potere del limite
- Esplorare la morte
- Una conclusione?
- Una poesia di congedo
Estraniarsi dalla realtà è un buon modo di sopportarla. Utilizziamo una grande quantità di energia per porla a una certa distanza da noi, là dove sembra non riguardarci direttamente, dove possiamo non sentirla.
La morte è uno dei cardini della nostra realtà, uno “stigma della specie”[1] . E’ la perdita della nostra condizione “normale” e sicura che abitiamo tutti i giorni, il frantumarsi dell’individuo. Ci apre a incertezze sul “dopo”, ma soprattutto mette in crisi la normalità del presente, i significati stabiliti, il senso del nostro agire.
Trattare la morte come un’estranea, un evento sgradevole e distante anche se inevitabile, è un’opera di rimozione comune nella quale ci sosteniamo gli uni gli altri.
In queste righe cercheremo di mostrare come la esorcizziamo, come e perché sia importante reintegrarla nella nostra esperienza quotidiana e come nella tradizione buddista questa “fine di tutte le possibilità” si può trasformare in una possibilità.
1. La propria morte: rimandare l’appuntamento – indice
All’avvicinarsi della morte, il compito di rilanciare la nostra speranza spetta oggi non più alle religioni, ma soprattutto alla scienza. Essa si è conquistata questo ruolo sul campo: guarisce sempre più casi, migliora la qualità della nostra vecchiaia, prolunga la vita media. Ciò che si spera non è più un’altra “miglior vita”, ma di restare il più possibile in questa vita.
La scienza opera da bravo tecnico e diventa sempre più spregiudicata per raggiungere lo scopo di rimandare l’appuntamento[2]. Tra qualche anno saranno disponibili organi di ricambio – cresciuti in laboratorio o in maiali transgenici – da trapiantare, senza problemi di rigetto per concedere ancora qualche tempo. Il rovescio della medaglia sono i tanti casi di malati in stati vegetativi o terminali, che in tutto il mondo sperimentano quanto siamo impreparati a governare le nostre potenti tecnologie di sopravvivenza clinica. Se vista da fuori la morte è da allontanare e basta, sempre più spesso siamo costretti a chiederci se sia così anche per chi la sta vivendo in prima persona. A volte mi chiedevo se somministrare cure ai malati terminali di AIDS, che negli anni ’90 assistevo come volontario, fosse un’esigenza sanitaria reale. Forse a un certo punto ai ragazzi non importava di vivere un giorno di più, sarebbe bastato qualcosa per ridurre il dolore. Ma c’era come un bisogno di chi stava intorno al morente di fare, di intervenire continuamente: non di aspettare la morte, ma di gestirla.
Per contrasto, alla Dying Home (Casa del Moribondo) di Kalighat a Calcutta – fondata da Madre Teresa ed in cui ho avuto la fortuna di lavorare alcuni mesi – davano una aspirina e un po’ di vitamine a tutti, indistintamente, come caramelle per bambini. Si è consapevoli che quello è il capolinea per persone consumate da una vita di stenti, che quando arrivano a Kalighat muoiono dopo poche ore, o giorni. Non sono i farmaci ciò di cui hanno bisogno: è qualcuno che li guardi negli occhi, è non essere soli in quel momento.
La biotecnologia medica, così come non aggiunge una goccia di senso alla lunga vita “di qualità” di cui godiamo in Occidente, non la aggiunge neppure alla morte. Non dice nulla di me, della mia esperienza in prima persona.
La scienza opera in terza persona, studia i problemi sugli altri, ne spiega i meccanismi fisio-psico-neurologici… ma in realtà nessuno vive in terza persona. E nessuno muore in terza persona. Provo qualcosa Io-Qui ad essere vivo e quando penso alla mia morte; in quel momento non mi servirà sapere tutto sui meccanismi che la accompagnano negli altri. Non c’è distanza, mi riguarda direttamente… che faccio?
2. La morte degli altri: nascondere il cadavere – indice
L’altro atteggiamento tipico dell’ Occidente moderno verso la morte è un opera di occultamento. Si muore defilati in ospedali, tra somministrazioni di farmaci e visite specialistiche, luci al neon e pochi parenti attoniti.
Una volta c’era una istintiva preparazione psicologica da parte di tutto il contesto sociale, sia per chi moriva che per la famiglia. Era una circostanza di apertura, anche se dolorosa: c’erano persone che sapevano stare vicino al morente in modo partecipe, c’era una ritualità particolare che avvolgeva, che accompagnava senza interferire. Spesso la casa era piena di gente e si condivideva il passaggio. In molte tradizioni il cadavere veniva lasciato quieto per alcuni giorni – per favorire un distacco graduale, perché la morte non è un evento ma un processo. Il periodo successivo di lutto era una sorta di “decompressione ” per chi restava, dopo essere stati così intensamente al cospetto della morte.
Oggi il rapporto con la morte è caratterizzato per lo più da ribrezzo e angoscia. Quando non è all’orizzonte, ci nascondiamo dietro a frasi come “inutile pensare a queste cose” o ” tanto è un fatto naturale, è da accettare”. Quando arriva, siamo senza pelle: il morente è da nascondere ai bambini, da portare in ospedale e possibilmente lasciare che finisca di vivere in questo ambiente controllato. Avere la morte in casa spaventa forse più di avere la nascita in casa: l’energia che questi eventi sprigionano è così forte che pochi si sentono di poterla affrontare. Sono occhi, quelli del bimbo appena nato e quelli del morente, che ci guardano stupiti, sono volti che portano scolpita la domanda: “cos’è tutto questo?”. Ma nel caso del morente l’elemento di assurdo – la versione moderna del senso “tragico” degli antichi – non si fa diluire dalla gioia e dalla promessa di vita.
Anche il cadavere viene rapidamente rimosso: si occulta la salma in frigoriferi, la si fa gestire in camere ardenti da professionisti indaffarati, e si conclude con veloci seppellimenti meccanizzati. Non c’è sostegno, rito, la tradizione è morta: in quei momenti domina l’imbarazzo, la confusione, l’ottusità. Il morto non è più accompagnato, è spedito. Magari – come mi è capitato di assistere – sulle note delle canzoni pop che amava di più.
Questa efficiente logistica rende ancora più evidente la nostra incapacità a dare un senso alla morte. Si impone una domanda sgradevole, che quando trova le parole suona come: Cosa è la vita, se bisogna morire? Nelle diagnosi, nelle corsie d’ospedale, nelle operazioni dei necrofori, la morte viene ridotta a decesso, il comune destino della fine della vita che possiamo condividere come specie. Ma Io – in prima persona – non condivido nulla, Io vivo da solo l’esperienza del morire.
Eppure, se mantenessimo davanti agli occhi la nostra continua fragilità[3], se non negassimo il nostro sconcerto, se fossimo capaci di stabilire un rapporto diverso con questo momento, avrebbe molto da insegnare. La morte può trasformarsi da presenza estranea in voce sapiente.
3. Zone sacre e potere del limite – indice
Ci sono al mondo alcune montagne speciali. Le spedizioni alpinistiche possono scalarle solo pagando pesanti tasse e con il controllo delle autorità, perché c’è l’obbligo, a 100 metri dalla cima, di tornare indietro senza violarla. Su queste vette sacre si dice che vivano gli dèi.
La scienza applicata è la spedizione che fino ad oggi ha aperto più possibilità. L’uomo non sopporta di non sfruttarle: non c’è un ambito non conquistabile per principio (abissi marini, Antartide, ma anche particelle subatomiche, cervello, DNA) non c’è qualcosa da rispettare in assoluto: per questo ci sentiamo in diritto di ammassare tonnellate di scorie radioattive, di deforestare, di programmare le caratteristiche genetiche dei nostri figli. Un delirio di onnipotenza che ricorda l’atteggiamento di un adolescente impaziente che vorrebbe tutto subito, che pensa di avere sempre lo spazio per un capriccio. Come se nulla debba fargli da limite. E’ un atteggiamento utile nel periodo impetuoso della crescita, della scoperta, ma dopo occorre riconoscere che ci sono cose da rispettare, principi fisici e sociali già dotati di propria struttura e tempi: se no il giovane complicherà la vita a sé ed agli altri.
Anche la morte è terra di conquista[4], la cima inviolata che nel pieno della nostra adolescenza tecnologica cerchiamo di scalare combattendo l'”ultima malattia”. Ma il limite è intrinseco alla vita: anche se riusciremo a riprogrammare il nostro orologio biologico e rallentare la degenerazione cellulare, anche se saremo in salute per 200 anni, un incidente o un attacco terroristico ci minacciano sempre.
Dove recuperare le nostre “zone sacre”? Spazi di cui avere rispetto comunque e sempre, dove il cuore sia sempre permeabile, che possano riguardare tutti?
È importante trovarle, sia individualmente – per riappropriarci di un rapporto con la morte che ora ci provoca solo angoscia – sia globalmente – per affrontare questioni relative all’ambiente, alla bioetica, alla conoscenza: oggi l’impresa di conquista del mondo perde sempre più il carattere di conoscenza per conservare solo quello di dominio, perché le mancano i limiti necessari entro i quali dar senso alle informazioni al di là di una interminabile volontà di potere.
Scontrarsi con la morte in modo consapevole significa frequentare – non subire – il potere del limite: è una barriera di fronte alla quale si infrange il cinismo e l’indifferenza, ma anche la nostra capacità di progettare, di risolvere, di gestire. È ciò che ci trascende, che è più grande. Quando ci tocca da vicino lascia sempre sconvolti, è il momento della solitudine, del “mai più”. La nostra possibile morte e la continua morte di affetti, legami, progetti, rilascia un sapore di incompiutezza, di non significato. Ci lascia aperti, esposti al rischio di sentirci esistere “nostro malgrado”, senza alcun senso pre-fissato.
Anche se il sapore di questo momento è agghiacciante, molti riconoscono che porta con sé un naturale rispetto per la vita, una spontanea empatia verso le percezioni, i sentimenti, i pensieri altrui, senza imporre più nostri valori o preferenze. Le stesse religioni non si sono forse formate in embrione sul culto dei morti? Il grande cinema ha fissato in modo indelebile questo momento in Blade Runner (Ridley Scott, 1982) dove il sapere della propria morte rende umani – e distruttivi – anche i replicanti artificiali costruiti dall’uomo. Nella scena finale quando giunge la morte programmata dell’androide Roy Batty (Rutger Hauer) questa penetrante e poetica consapevolezza[5] lo apre all’empatia con ogni scintilla di vita, e l’ultimo suo atto è quello di salvare il suo nemico da morte certa.
Accompagnare il morente, soffrire insieme, sono elementi della sacralità del mondo. Con essa possiamo confrontare le nostre conoscenze e comportamenti, lasciando spazio a domande profonde ma non disperate:
ma dove corro? cosa credo di poter controllare? cosa posso dire “mio”?
la vita dà, la vita toglie… alla fine, cosa porto con me?
Uno scacco matto senza appello: il potente Re cade, perplesso, smarrito.
Forse scontrarci con questo mistero che ci abita, con ciò che non si può capire né controllare, può salvarci dalla rimozione della morte come estranea, e può calmare il bisogno di governarla con soli strumenti tecnici. Può ricreare in noi “riserve naturali di sacro”, isole di rispetto e di conoscenza, non di dominio.
Ma come possiamo indagare il nostro rapporto con la morte, evento vicino in ogni istante e nel contempo totalmente al di fuori del nostro potere?
4. Esplorare la morte – indice
Se pensiamo profondamente alla nostra propria morte, viviamo il più radicale distacco da tutto ciò che credevamo ci appartenesse. Noi stessi non ci apparteniamo, non possiamo nulla, condannati a subire la morte nostra o di chi più amiamo.
Questa dimensione agghiacciante però può essere esplorata quando ancora non si è presentata, per cercare la forza di accompagnare qualcuno o noi stessi ad occhi aperti, senza timore.
Ad esempio i buddisti tibetani hanno sviluppato uno straordinario patrimonio di percorsi mentali, analisi ed indicazioni che guidano l’esperienza del morire[6]. La meditazione è lo strumento per questa ricerca, attraverso la scomposizione dei “campi di esperienza” (sanscr. skanda) fino al nucleo senziente, in cui cercare la coscienza sottile, la chiara luce (tibet.rig-pa) che attraversa la morte. È uno stato estremamente intuitivo e sensibile, e quindi è importantissima la disposizione mentale nel momento estremo, perché esso influenzerà fortemente la comprensione – e la rinascita, in quella tradizione – del morente. Si tratta di uno stato in cui sono da evitare confusione, angoscia e terrore, per affrontare il quale bisogna prepararsi bene in vita.
Secondo la scuola buddista Vajrayana propria del Tibet la morte è un momento prezioso. In esso chiunque può far esperienza di uno stato estremamente delicato e sensibile, che proprio per questo richiede intorno al morente grande tranquillità e pace (ad esempio è fortemente sconsigliato che chi gli sta accanto ceda al senso di perdita o alla paura della solitudine). In queste condizioni la percezione della fine viene accompagnata da un senso di sicurezza e quiete, che permette di lasciare attaccamenti e affetti. Se chi muore ha molta esperienza di meditazione, viene portato a praticare fino alla fine, così che la coscienza sia pronta. Se non ce l’ha, si raccomandano percorsi di fiducia e abbandono (canti o preghiere, o contemplare l’immagine o le parole del proprio maestro spirituale). Vi sono componimenti poetici, come il famoso Bardo-Thödol della scuola Nyingmapa, da leggere al morente per descrivergli in dettaglio illusioni e allucinazioni che incontrerà nello stato intermedio (Bardo) “sospeso” tra la vita e la morte, prima di rinascere.
Pochi cenni per indicare che talvolta il morire non è solo un problema da risolvere, ma anche una porta sempre aperta. Come scrisse il VII Dalai Lama:
Il corpo disteso sul letto di morte
voci che sussurrano poche, ultime parole,
la mente che guarda l’ultimo ricordo dileguare:
quando arriverà anche per te questo dramma?
Crediamo sia possibile trovare nel buddismo suggerimenti importanti anche per la sensibilità e la cultura occidentale pur senza condividere dogmi e confessioni. Anche a noi interessa esplorare il morire prima di morire, e anche noi possiamo condurre una indagine sui fenomeni che si presentano di fronte alla minaccia della morte. Anche noi possiamo chiederci se vi sia un perno – un centro di esperienza indubitabile e ben localizzabile in noi – per attraversare quel momento in uno stato sereno e lucido.
Possiamo creare in modo semplice le condizioni per guardare realmente in faccia la morte, in uno spazio intimo preciso.
Comodamente seduti, rilassati, o a letto prima di dormire o in vacanza, quando c’è la salute propria e dei propri cari. Senza quel senso di macabro che respinge.
Solo vulnerabili, aperti all’ultimo respiro.
Possiamo ridurci consapevolmente lungo l’imbuto della percezione: di là c’è il mondo, la vita, la mente pensante, e di qua… a volte una strettoia che può avere il sapore della morte. La si può attraversare, fino ad un centro di esperienza, indubitabile. Prima che sia vivo, prima che sia umano, quel centro è un flusso di presenza, una intensità pulsante di istanti che si accorgono di essere. Ogni istante, adesso – anche il momento della morte sarà un “adesso” – questo accorgersi di essere, può diventare niente? È sensato un passaggio al niente?
5. Una conclusione? – indice
In conclusione , de-estraniarci dalla morte, praticarla ed imparare da essa, può essere una via per ritrovare il rispetto e il limite che ci permette di aprirci, stabilire un rapporto autentico con il prossimo proprio a partire dalla comune perdita di riferimenti e di significati.
Può aiutarci a vivere l’ultimo momento – nostro e di chi dobbiamo accompagnare – senza paura o angoscia, con un riferimento chiaro in noi stessi. Non disperati, anche se non speriamo in un al di là divino o naturale che ci accolga. Non una morte insensata, anche se non ci convince un Senso prefissato.
Può mostrare che di fronte alla nostra finitezza non è adeguato un freddo atteggiamento razionalista o eroico, un soggettivismo della libera scelta che reclama di fissare in modo autonomo un senso al mondo: esso rischia di incatenarci a noi stessi proprio quando dobbiamo lasciar andare tutto. Meglio coltivare uno stato mentale adeguato per un momento così importante, capace ancora di discernere e di lasciar andare pesi inutili per il viaggio.
Infine morire in modo consapevole e sereno può essere un approccio utile per esplorare la nostra natura più profonda e vera, e vedere se la morte sia davvero la sua conclusione.
Questa domanda, praticata nella meditazione, dischiude a esperienze importanti che lasciano una certezza indubitabile unita ad un forte senso di umiltà e da un genuino rispetto per il mondo dell’apparenza, delle cause e degli effetti, delle relazioni. Per i buddisti a conoscenza profonda di sé porta una profonda consapevolezza delle interrelazioni e mira a rendere capaci, anche in momenti di morte, di portare armonia, ridurre ansia, sofferenza e attaccamento.
6. Una poesia di congedo? – indice
Se la morte non fosse la conclusione, che rilievo ha?
Nella tradizione del Buddismo Zen la domanda sull’essenza – sul senso – del vivere e del morire è così radicale da non salva neppure uno stato di serenità di fronte alla morte. Come se ci fosse un bisogno di verità così forte che spinge a chiedersi sul significato di tutto, di ogni stato mentale. In questa tradizione la morte “non è nulla di speciale”, perché la salvezza non si consegue attraverso stati mentali sereni e pacificati, ma ponendo fine al pensiero dualistico delle polarità “vita” e “morte”, “agitato” e “pacificato”. Questa consapevolezza consente di fronteggiare la morte semplicemente impassibili, come riportato in famose storie sull’ “ultimo insegnamento” di maestri della tradizione Zen[7].
Ma neppure l’impassibilità è il modo “giusto” (sarebbe contrapposto a “sbagliato”). E neppure la poesia: jisei sono i versi di congedo dal mondo che tradizionalmente i maestri dello Zen lasciano appena prima di morire. Ecco quelli scritti dal monaco giapponese Daie-Soko[8]:
La vita è come la troviamo,
la morte pure.
Una poesia di congedo?
Perché insistere?
Uno stato di semplicità il cui significato si estende dal momento della morte ad ogni istante della vita. In termini Occidentali, possiamo leggerla come una apertura di consapevolezza alla domanda sul senso di tutto, una domanda stupita ma senza rammarico: quale senso per l’intensità di questa agonia in vita, o per il dolore lacerante quando muore chi amiamo? Quale senso per la presenza indubitabile che attraversa la morte, per la forza che ci ritroviamo? E anche questo lasciare la vita e congedarci poeticamente… tutto già così com’è, senza significato e assurdo. Tutto ciò poteva non esserci, anzi doveva non esserci.
Perché c’è tutta questa storia, perché non il nulla? E se ci ritroviamo già dentro di essa, perché rifiutarla o schierarci in suo favore?
Quel “perché insistere?” non è indifferenza, non è rifiuto e neppure accettazione: è un sobrio sconcerto per ritrovarsi già e sempre lì, esistenti nella condizione di rapporto con la morte. Senza insistere a dare significati ma aprendoci completamente al nostro limite.
Martin Heidegger avrebbe chiamato quel momento, nel suo linguaggio a trattini: essere-per-la-morte, un essere costitutivamente inclini a sostenere il proprio rapporto con la morte[9]. Il filosofo tedesco ha sempre lottato perché questo non fosse scambiato per una “filosofia della morte” che proclama “siamo per il nulla”[10]. Piuttosto ha evidenziato come la nostra condizione di “mortali” (il nome che i Greci riservavano agli uomini, i viventi consapevoli del loro destino) sia un esser-gettati, e che la pienezza della gettatezza ha a che fare non con l’annientamento o la perdita di riferimenti, ma con lo svelamento della verità.
Così come è il potere del limite che permette una conoscenza significativa e rispettosa, così è il potere della incompiutezza, della incapacità a fissare un Senso, che permette di restare aperti nel momento estremo.
Se la morte può dare un senso all’esistenza, non è il senso fornito da un gesto individuale per cui “ciascuno costruisce il suo senso della vita”; né è un Senso prefissato (Dio, la Natura o la Storia) [11] che cala dall’alto e a cui affidarsi. È piuttosto la pratica concreta del rapporto con l’esistenza e con il nulla, che minaccia di privarla di ogni significato.
E se da questo rapporto nasce un’etica, non è un’etica che procede da una origine determinata e da principi morali da custodire, bensì un’etica dell’esporsi al rischio di esistere senza significato, che nella morte si evidenzia massimamente. E del rispetto assoluto per la natura salvifica di ciò che trascende la mente che discrimina, che oppone “questo momento” a “quel momento”, “prima” a “dopo”, “Qui” a “là”, “accettare” a “rifiutare”. Per il Buddismo Zen, neppure “morte” ha una sua essenza, significa qualcosa.
La morte allora è un significato di transizione, un simbolo di passaggio totale: il rapporto costitutivo con essa ci slancia nell’abisso di non-significato ma anche apre la strada alla nostra capacità di lasciar andare, di affrontare e forse risolvere il nostro rapporto con il nulla, che la morte rappresenta.
Note:
[1] Vittorino Andreoli, L’uomo di vetro, ed. Rizzoli, 2008
[2] All’estremo opposto si può immaginare la morte “tecnica” come una pianificazione di massa della durata della vita, fino a un termine unico per tutti. È quanto immagina lo svedese Carl-Henning Vijkmark (La morte moderna, ed. Iperborea, 2008), che ipotizza uno scenario in cui gli imperativi economici e produttivi e il picco di spese sanitarie per la cura dei “grandi vecchi”, portino lo stato svedese ad questa soluzione egualitaria. Come nota Caludio Magris nella prefazione, questa impostazione razionalista “per il bene comune” appare molto più forte di generici appelli al valore della singola vita – e morte – umana.
[3]Vittorino Andreoli, ibidem: “La fine non è un appuntamento più o meno lontano, ma un presente che si perpetua, e così si muore continuamente e si è morti anche quando si respira”.
[4]E. Boncinelli, G. Sciarretta, Verso l’immortalità? La scienza e il sogno di vincere il tempo, ed. Cortina, 2005
[5]Blade Runner, USA 1982, Regia Ridley Scott: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire” (Roy). “Io non so perché mi salvò la vita, forse in quegli ultimi momenti amava la vita più di quanto l’avesse mai amata… Non solo la sua vita: la vita di chiunque, la mia vita. Tutto ciò che volevano erano le risposte che noi tutti vogliamo: da dove vengo? Dove vado? Quanto mi resta ancora? Non ho potuto far altro che restare lì e guardarlo morire” (Deckard).
[6]Sogyal Rimpoche, Il libro tibetano del vivere e del morire, ed. Ubaldini, 1994.
[7]“Quando un’armata ribelle si impadronì di una città coreana, tutti scapparono dal Tempio Zen tranne l’Abate. Il generale ribelle irruppe nel tempio e si infuriò nello scoprire che il maestro si rifiutava di salutarlo e tantomeno di riceverlo come conquistatore. “Non sai – gridò il generale – che stai guardando uno che può ucciderti senza batter ciglio?”. E tu – disse l’Abate – non sai che stai guardando uno che può farsi uccidere senza batter ciglio?”. L’ira del generale si trasformò in un sorriso. Si inchinò profondamente e lasciò il tempio”. (S. Blackman, Volo nell’infinito, come muoiono i grandi esseri, ed. Punto d’Incontro, 1997)
[8]Ibidem
[9] E. Subini, F. Cattaneo, Das Ganze/Die Totalität. Pensare la differenza. Note su “Totalitarismo e nichilismo” di François Fédier, 2007, www.asia.it (qui)
[10] M. Heidegger, Contributi alla Filosofia, pp. 283-286, ed. Adelphi, 2007.
[11] J.-L. Nancy, Sull’Agire, ed. Cronopio, 2005.
(Foto Marigrò)