Mindfulness
Al di là del pensiero, attraverso il pensiero
di Segal Zindel V., Williams J. Mark, Teasdale John D.
Introduzione di Fabio Giommi
Edito da Bollati Boringhieri
“È concepibile una modalità di conoscenza che sia oltre il pensiero?”. A partire da questa domanda, Fabio Giommi (ricercatore nel campo delle neuroscienze all’Università di Njimegen, in Olanda) presenta il libro Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero con un’introduzione il cui intento non è tanto quello di definire precisamente la parola “mindfulness” – il cui significato che si esplicita pienamente soltanto alla luce dell’esperienzialità –, quanto quello di fugare almeno alcuni dei fraintendimenti e dei pregiudizi più comuni relativi all’ingresso della meditazione Vipassana in ambito psicoterapeutico. “L’incomprensione si concentra soprattutto sulla parola «meditazione», spesso associata a immagini di condizioni psicofisiche con cui essa non ha nulla a che fare. La meditazione di mindfulness […] non è […] una condizione di trance, con indebolimento o scomparsa della consapevolezza. Non è una condizione mistica, intesa come involontario presentarsi di immagini e visioni di significato «religioso». Non è, soprattutto, una tecnica di rilassamento, un metodo il cui scopo sia il raggiungimento di uno stato di «benessere» fisico o mentale, anche se, a volte, questo può esserne un effetto collaterale. Lo sviluppo della consapevolezza, pur nella molteplicità di pratiche delle diverse tradizioni, è l’opposto di tutto questo: il suo scopo è divenire attenti e presenti a ciò che la propria mente sta vivendo.”.
L’insegnamento del Buddha sulla meditazione Vipassana si trova nel Discorso sui fondamenti della presenza mentale (Satipatthanasutta): si tratta di esercitarsi a essere presenti mentalmente a tutto ciò che accade – compreso quindi il nostro “essere presenti”; Vipassana è spingersi in zone di sé sconosciute e difficili da frequentare, come il breve margine fra un pensiero e l’altro, come l’inafferrabile spazio “fra due onde del mare”… La recente applicazione in ambito clinico di metodi ispirati a questa pratica millenaria si deve innanzitutto al microbiologo statunitense Jon Kabat-Zinn; tale innovazione ha saputo farsi strada malgrado lo scetticismo – e talvolta l’irrisione – degli scienziati tradizionalisti: “i primi a osare una pubblica dichiarazione, una sorta di outing, furono proprio i tre autori di questo libro [Zindel V. Segal, J. Mark G. Williams e John D. Teasdale], i quali in un articolo del 1995 utilizzarono nel titolo, seppur tra parentesi, la parola mindfulness.”.
Eppure, da circa vent’anni già più di diecimila persone – per la maggior parte indirizzati alla fondazione del Mindfulness Center di Boston da medici o da altri professionisti della salute – si sono sottoposte al programma di Kabat-Zinn: “si tratta di un programma denominato Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), fondato a sua volta sulla tradizione Vipassana, che ha tra le sue principali caratteristiche quella di offrire ai partecipanti l’opportunità di fare esperienza diretta e progressiva di mindfulness, senza per questo richiedere alcuna adesione a un credo buddhista o in genere religioso, e anzi senza neppure porre esplicitamente il tema della «meditazione».”. Depressione, attacchi di panico, disagio e non accettazione di sé, dolore cronico: situazioni difficili, troppo spesso affrontate con il “facile” ausilio di psicofarmaci, leggeri o pesanti che siano, e che spesso si ripresentano, precipitando chi le vive in ricadute pericolose, talvolta fatali. La Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT) si è rivelata un’alternativa concreta e preziosa per tutti coloro che, affetti da simili disturbi, partecipando alle sedute di Kabat-Zinn e dei terapeuti che ne seguono l’insegnamento, hanno potuto esperire la mindfulness.
“Cosa succede se si attenua in noi l’identificazione di coscienza e pensiero?”. Tentando di delineare quella che rimane innanzitutto un’esperienza, Giommi parla di “uno stato mentale che ha a che fare con particolari qualità dell’attenzione e della consapevolezza che possono essere coltivate e sviluppate attraverso la meditazione. […] La mindfulness sembra in grado di «agire» cambiando in primo luogo non i contenuti della mente ma la nostra relazione con essi. Attraverso un «vedere» intuitivo, immediato e accettante, la forza coercitiva di certi contenuti cognitivo-affettivi viene progressivamente meno, si dissolve.”. I risultati sono notevoli, a detta dei pazienti, ma anche dei terapeuti… Già, perché uno degli insegnamenti che questo particolare stato mentale offre riguarda il fatto che “non si può trasmettere ciò che non si è, ciò che non si incarna”: per questo il terapeuta è tenuto a fare lui stesso esperienza della mindfulness, pena l’impossibilità di trasmettere alcunché ai propri pazienti e il completo insuccesso dell’intero programma; “la sfida per il terapeuta è dunque quella di farsi partecipe della mindfulness, di farne esperienza dall’interno, da una prospettiva in «prima persona». Questo impegno personale non è aggirabile con alcuna scorciatoia.”. Impegno personale di cui ovviamente dovrà fare prova anche il paziente: il programma prevede infatti, oltre agli incontri con i terapeuti, anche esercizi individuali, da svolgere a casa per un affinamento dell’auto-osservazione e per una maggiore responsabilizzazione nei confronti di se stessi; anche per questo motivo il libro presentato da Giommi comprende due CD, ascoltando i quali si è guidati in alcune meditazioni e nella pratica del body scan.
Una delle difficoltà messe in luce da Giommi è quella che deriva dal considerare la mindfulness una tecnica come le altre, o addirittura una tecnologia, al servizio delle scienza; precisa invece Giommi: “l’interesse per la mindfulness ci sembra avere un senso solo nella prospettiva di uno scambio, di una crescita e di un ampliamento reciproci tra scienza e tradizioni meditative, scambio che può essere tanto più fruttuoso perché ha inizio sul terreno concreto, tangibile, della cura della sofferenza.”. Non si tratta quindi di giungere a uno stato emotivo “che non ci crei problemi”, che non ci disturbi: anche se questo non è subito evidente, è pur vero che la mindfulness “nasconde implicazioni quasi vertiginose, che in prospettiva investono non solo la clinica ma la nostra concezione della natura della mente in generale. […] Il tema della mindfulness investe infatti nel suo nucleo essenziale la più fondamentale delle domande epistemologiche, o meglio la più fondamentale delle domande filosofiche: qual è la natura della coscienza?”. Siamo evidentemente alle porte di un ripensamento radicale dei nostri fondamenti scientifici e filosofici, ripensamento già in atto nell’ambito delle neuroscienze: “non c’è rassegna o discussione in cui la prospettiva della «prima persona» e della «neurofenomenologia» o le consapevolezze filosofiche che derivano dalle tradizioni contemplative alla base della mindfulness non partecipino, dando vita a un movimento di idee che potrebbe cambiare la nostra concezione della mente.”.
Attenzione quindi alle sintesi riduttive e alle semplificazioni: la mindfulness non è un metodo “per stare meglio”, per fuggire dalle sensazioni negative che crisi e fallimenti personali naturalmente suscitano e che appartengono al nostro quotidiano. Il significato più profondo della mindfulness non appartiene alla sfera dell’usabile, dell’afferrabile, della tecnica; riferendosi al brano tratto dai Quattro Quartetti di T.S.Eliott che aprono l’introduzione, e che noi abbiamo voluto riproporre in traduzione, Giommi scrive: “questi versi esprimono meglio di ogni descrizione concettuale lo stato mentale cui si riferisce il termine mindfulness. La poesia nelle sue espressioni più compiute, così come la contemplazione della bellezza della natura, ha una qualità esperienziale che è identica a quella della mindfulness, e sono infatti due veicoli preziosi utilizzati nel programma MBCT.”.
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