Il ricercatore, il filosofo e la psicastenia
Michel Bitbol, CNRS, Paris
Tratto da Alliage, n°5 (Autunno 1990), pp. 19-24
In cosa il pensiero filosofico è debitore nei confronti delle scienze? Per la sua alienazione o per la sua liberazione? Per la sua emarginazione o per il suo confronto, ormai sorprendente, con il proprio “oggetto” specifico?
La risposta a queste domande presuppone il rigetto dell’alternativa che esse propongono. Sono le scienze, paradossalmente, ad aver favorito al contempo i due passi della loro disciplina-madre: il suo passo di lato e il suo passo verso lei stessa. Lo sviluppo dei saperi oggettivi ha abbandonato la filosofia alla sua solitudine. Ma le ha lasciato, come un regalo d’addio involontario, la garanzia di non smarrirsi in interrogativi che non sono i suoi. Vladimir Jankélévitch enuncia i termini di tale garanzia:
“Chiamare il ‘Non-so-che’ quando potremmo calcolarlo, il determinismo ancora inspiegato di un’aberrazione astronomica, non è metafisica, ma psicastenia.”[1]
Le scienze esorcizzano il mistero. La loro lingua si spinge fino a raffreddare le parole cariche di sbalordimento ponendole ad una buona distanza culturale. L’erranza capricciosa delle stelle si riassorbe nel movimento dei pianeti; le meteore sono regolate dalla metereologia; l’animale, privato della propria anima, si accontenta di essere un regno. L’autentica frase-manifesto del pensiero moderno è stata scolpita da Cartesio: “Non è meraviglia”[2]. Non meravigliatevi dell’apparire. Cercate piuttosto la legge alla quale esso si sottomette. E quando non l’avrete trovata, non desistete, non abbandonatevi al dubbio e all’inibizione di uno stato psicastenico. La potreste trovare, e questo condizionale deve essere sufficiente a distogliere la vostra emozione estetica da quello che non è che un riflesso.
I pensatori che furono qualificati come “filosofi” dalla tradizione sono evidentemente quelli che, prima o dopo Cartesio, seppero focalizzare la loro emozione. Almeno in una parte della loro opera: non dimentichiamo che l’autore del “Sofista” e del “Menone” fu anche quello del “Timeo”, e che Berkeley, qualche anno dopo aver scritto il “Trattato sui principi della conoscenza umana”, vantò i prodigi dell’acqua di catrame nella “Siris”. Le scienze contemporanee, a dispetto delle false speranze suscitate qua e là dalla meccanica quantistica, non lasciano più a simili smarrimenti della facoltà di meravigliarsi il piacere di presentarsi altrimenti che come ingenuità giovanile o come conseguenze di una sindrome di affaticamento psichico.
Vedendosi indicare dalle scienze la direzione che non deve prendere il suo meravigliarsi, il filosofo è lasciato a se stesso quando si tratta di riorientarne l’intenzione. Per fortuna, egli ha già (sempre-già, come dice Husserl) circoscritto il suo “oggetto”. E se è parso spesso perderlo di vista nel corso della sua storia, appunto: è che non c’è proprio nulla da vedere… e che non è nemmeno un oggetto. Le scienze hanno ragione a pretendere di essere universali nel mondo degli oggetti, anche se, propriamente parlando, il loro fondamento sfugge alle scienze stesse.
Privato di ogni oggettività, l’orizzonte del filosofo si annuncia impossibile da catturare. In ogni caso è forse permesso di accattivarne qualche bagliore, di delimitarne la relazione tenuta con l’universo regolato da leggi. La difficoltà non è insormontabile, a condizione di accettare una tappa di regressione. Si tratta di risalire dal legale al familiare, dal Logos a ciò che è suscettibile di ricoprirlo: il grido soffocato.
Paura intensa, labbra socchiuse, sentore di un pericolo immediato e senza luogo. Il terrore si affievolisce, il rumore intenso che l’ha provocato è passato, lasciando sulla sponda di un nuovo presente un io che si ricompone, e si oppone all’evento. Il rumore iniziale è identificato: ho sentito qualche secondo fa un rombo di tuono, risultato di un processo elettrostatico perfettamente analizzato. Ormai posso ridere – appoggiato alle mie spiegazioni retrospettive – di ciò che devo chiamare il mio disorientamento iniziale. Una volta situato nello spazio, nel tempo, e nel quadro di una teoria capace di predire, l’indicibile è battezzato fenomeno.
” La coscienza, consiste nel dire Oggi o Qui, con una sfumatura restrittiva e sorridendo delle folli angosce o delle pretese insensate di ubiquità.”[3]
Avremo riconosciuto, con la successione degli stati che seguono il tuono in un cielo sereno, l’esempio di un’esperienza molto comune. E, se è necessario un riferimento filosofico, lo si troverà nel cuore del pensiero di Charles Sanders Peirce, cioè nelle sue categorie “Cenopitagoriche”: la primarietà, la secondarietà e la terziarietà[4]. La primarietà è il sentire senza relazione con nient’altro; né il sentire di (qualcosa), né il sentire per (me). Risponde alla perfetta adesione a sé della paura iniziale. La secondarietà è il distacco e la messa in relazione del sentire: la sua trasformazione in esperienza per (me). Ed è proprio ciò che accade quando sono riuscito a proiettare fuori di me, e nel passato, l’oggetto del mio spavento. La terziarietà, infine, entra in gioco quando l’idea di una legge o di una ragione (del fenomeno) si presenta. La spiegazione scientifica ne è la consacrazione.
Far “sorridere delle folli angosce”, rendere ragione di un trasalimento che si dispiega nella dismisura di un “adesso”: tale è la funzione essenziale del discorso “terziario” delle scienze. Non soltanto lo spavento è rapportato alla natura, attraverso la mediazione del tuono, ma esso si vede ridotto ad un fenomeno psicologico, se non addirittura neuro-fisiologico. Al massimo lo prendiamo come uno stato della coscienza. Qui si annida l’illusione più grande. Poiché l’ordine apportato dalla spiegazione giunge inevitabilmente troppo tardi. Esso localizza, nel tempo della rappresentazione terziaria, una commozione primaria che non si riconosce alcun limite. La coscienza ordinatrice crede di poter cogliere la primarietà come uno dei propri stati, ma non fa che immobilizzare il già-più del proprio ricordo. Il fatto è che l’essere-primario presume una sospensione universale, tanto quella della coscienza quanto di ciò di cui essa è coscienza: spazio, tempo, oggetti.
C’è di più. Localizzare, spiegare, è proprio della coscienza nel suo rapporto con un altro: quello che essa prende per il proprio stato passato. Quando si rapporta a se stessa, la coscienza aderisce ad una primarietà, che si potrebbe chiamare (adottando il quadro di riferimento di una coscienza esplicativa di secondo ordine) “certezza”, o almeno “convinzione”. La coscienza “terziaria”, dunque, non è soltanto fuori dalla portata di ciò di cui essa mira ad appropriarsi. E’ separata, per costruzione, dal motivo della propria stessa mira. Dovremo tenerne conto.
E-tonnement, stupore[5]. E’ il nome, doppiamente disinnescato, che il filosofo dà alla tensione che lo trasporta, alla complicità che lo lega a ciò che non ha simili. Questo nome è disinnescato innanzitutto perché si fa eco, attenuato e insipidito, del tuono che mozza il fiato, e di cui i Greci affidarono l’abbaglio imprevedibile al più potente degli dèi. Disinnescato, più profondamente ancora, in quanto si riferisce ad un fenomeno sonoro perlomeno inventariato. Anche se non presuppone lo schema completo della spiegazione elettrostatica, il sostantivo “tuono” delimita un evento naturale; e, da questo lato, esso rinchiude l’é-tonnement nella rete di una coscienza terziaria. Qui il filosofo si fa prendere in flagrante delitto di intiepidimento del vocabolario. Egli imita in questo l’impresa ostinata del suo collega scienziato, ma senza esserne abilitato. Si risolve soltanto a quello che non è che un ripiego: circoscrivere artificialmente, in nome della volontà di dire qualcosa.
Queste precauzioni, queste ingiunzioni, che intimano al filosofo di non lasciarsi sedurre dalle dorature e dagli stucchi barocchi di una coscienza esplicativa dalla fecondità senza eguali, lasciano affiorare delle reticenze. Potrebbero far credere che io voglia relegare la filosofia all’incantesimo monocorde di una primarietà immutabile. E che la consideri come il rimasuglio fossilizzato di un’attività mentale, più adatta all’onnisacralità del mondo vista da qualche umanità preistorica che al nostro cosmo “disincantato”. No. Il cammino che abbiamo seguito è più sottile, e trova un esito che somiglia ad uno sviluppo drammatico. Ammettiamo che la filosofia consista in un approccio della primarietà tanto più rischiosa in quanto deve badare a non consumarvisi. Non per questo il suo campo d’investigazione si limita ad una primarietà assunta come tale. Pullulano le primarietà occulte, che sono come altrettante facce nascoste della coscienza terziaria. Nel momento in cui quest’ultima arresta sempre più esplicitamente, attraverso la mediazione formale dei teoremi di limitazione, il proprio irrimediabile addossamento a qualche primarietà, sarebbe dunque stupefacente che il progetto filosofico non si veda riconoscere la sua autentica generalità. Cioè il suo potere d’abitare non soltanto l’esperienza pre-scientifica, ma – di nuovo – tutto lo sfondo dell’insieme architettonico delle scienze.
Alcuni potrebbero certo preferire di lasciare vacante questo sfondo, piuttosto di vedervisi installare un’impresa filosofica sempre sospettata di nutrire un segreto desiderio di annessione. Le diffidenze storiche non sono pronte ad attenuarsi. Ma oggi l’urgenza sarebbe quella di scuotere la modestia dei filosofi, piuttosto che farsene dare le garanzie; una modestia che essi esprimono alternativamente attraverso una chiusura artistica ed una beata ammirazione per la competenza “tecnica” dei loro colleghi scienziati. Per di più il vuoto dalla purezza cristallina, che vorremmo assumesse lui solo il ruolo di sostituto di chiusura del sistema delle scienze, non è inoffensivo. Il pensiero ha orrore del vuoto, e ciò che rischia di aggiungervisi è abbastanza inquietante da incitare a prendere delle precauzioni. All’occorrenza, percepisco due candidati poco brillanti al posto vacante: il pregiudizio scientista, che pretende che la chiusura sia operante, o che la scienza sia autofondata, e il discorso falsamente profetico che si riversa nell’incompletezza delle scienze per accreditare i poveri volti di un’irrazionalità senza autentiche radici culturali.
Per coprire le retrovie di un’elaborazione scientifica strutturalmente vulnerabile, la filosofia sarebbe al proprio posto: dopotutto, nel sistema di riferimento dei saperi oggettivi la filosofia non è altro che una forma del vuoto. Uno stato del deserto, a colpo sicuro, ma brulicante di potenzialità; un vivaio di frammenti discorsivi sempre pronti a trasformarsi in inneschi di sviluppi innovatori. E’ qui che raccogliamo, sotto l’apparenza disordinata delle esplorazioni azzardose di oggi, la linfa delle assiomatiche di domani.
Le scienze hanno ancora altri benefici da trarre dalla singolare vicinanza con la filosofia. Il vantaggio, ad esempio, di una rivitalizzazione di quelle fra le loro prescrizioni che si estendono alla vita quotidiana. Non dimentichiamo che le discipline del sapere oggettivo hanno un effetto rilevante, e raramente controllato, sulle rappresentazioni della società da cui esse sono risultate. Effetto spesso liberatore ed iconoclasta, bisogna ammettere. Che si pensi a ciò che valgono le oscure predizioni degli àuguri, e le pretese interessate dei ciarlatani, di fronte a una natura epurata delle sue qualità occulte; che ci si burli dell’aria sprezzante del tal signore di diritto divino quando lo sguardo di un paleontologo è sufficiente a mostrarlo nei poveri orpelli di una “scimmia nuda”.
Tuttavia, questo effetto può diventare altrettanto perverso quando si avvale di un’autorità indiscutibile. L’autorità da temere non è quella che gli sarebbe conferita dal discorso di un gruppo di nuovi maestri del pensiero: i giochi della derisione ai quali si consegnano le scienze non hanno alcuna ragione di non rivoltarsi contro i loro stessi dotti. Il vero pericolo risiede a mio parere nel credito esorbitante che si vede riconoscere ogni proposizione presentata come scientifica, per il solo fatto che è indipendente da chi la enuncia.
Per dirlo con altre parole, le scienze sono uno “sguardo da nessun luogo”[6], un discorso senza punto di vista. Questo non è affatto un problema, finché operano astrattamente nel campo dei fenomeni oggettivati, che tale campo sia “naturale”, sociale o psicologico. Ma qui la confusione è invitante. Supponiamo che si traspongano dei risultati scientifici nell’universo dei punti di vista, che si prenda la relazione fra persone come oggetto della sociologia[7], o che ci si sogni di reggere la singolarità di un presente personale con la psicologia[8]. La mutazione che si annuncia è tutto fuorché benigna: lo sguardo da nessun luogo si è trasformato in sguardo a partire da un punto che si rifiuta di confessare la propria identità. Ora, conosciamo le conseguenze perverse che comporta la rappresentazione delle situazioni secondo le linee di fuga di un punto di vista anonimo. In letteratura, sono portato a identificarmi con il narratore. Al cinema, nulla può impedirmi di fremere con il partito in seno a cui è piazzata la telecamera[9]. Nel caso che ci interessa, credo di dover approvare senza discussioni un resoconto falsamente esteriore dei miei atti e dei tuoi atti, della mia relazione con te e della tua relazione con me, in nome della sua neutralità al disopra di ogni sospetto. La porta è così aperta a tutte le oppressioni ricoperte di buone intenzioni.
La visione del mondo indotta dalle scienze è da un lato liberatrice, diciamo. Ma chi ci libererà da un liberatore tanto gravoso? Chi disinnescherà l’autorità dei suoi presupposti particolarizzandoli? Forse, di nuovo, il filosofo, malizioso giocoliere strategicamente appostato nelle quinte delle macchine di scena delle scienze, può scatenare il riso distanziatore. L’ilarità, che stacca il lettore dalla catena narrativa facendolo tornare nella sua biblioteca, e disfa il legame ipnotico fra lo spettatore e lo schermo, deve ben avere il suo equivalente nella regione dei fondamenti.
Ciò che resta da dire non sembra affatto una fine. La filosofia, liberata dalle sue facilità psicasteniche dall’insegnamento dei saperi oggettivi, …La filosofia, consegnata a facilità psicasteniche dall’insegnamento dei saperi oggettivi, collocata a sua insaputa nel luogo più segreto della dinamica delle scienze, orchestrante il loro impossibile e inevitabile ribaltamento su se stesse, ritrova la ragion d’essere che aveva melanconicamente creduto di smarrire nel nodo dei suoi dubbi teologici. Privato delle ultime illusioni che nutriva segretamente a proposito del proprio ascendente sugli oggetti, il filosofo non sembra per questo meno infinitamente povero. Ma la rassegnazione a questa perdita è l’altro livello della sua elevazione. Egli può ormai adottare il volto chiaro dei membri degli ordini mendicanti, e accarezzare l’apparenza col loro sguardo sereno:
“Provava soprattutto una gioia ineffabile quando guardava la luna, contemplava le stelle e il firmamento.”[10]
Traduzione di Linda Altomonte
Centro Studi ASIA
Note:
[1] V. Jankélévitch, “Le Je-ne-sais-quoi et le presque-rien” Volume I, “La manière et l’occasion”, Seuil, 1980, p. 46. Trad. it. a cura di C. A. Bonadies, “Il non-so-che e il quasi niente”, Marietti, Torino, 1987.
[2] Si veda ad esempio il tomo XI delle “Oeuvres de Descartes”, pubblicate da Ch. Adam et P. Tannery, Vrin, riedizione del 1974, pp. 13, 22, 153, 268, 506, 513, 526, 532. Si veda anche il tomo III, p. 262. Per una maggiore precisione, rimando a: Annie Bitbol-Hespériès, “Le principe de vie. Descartes et ses prédécesseurs”, Vrin, 1990 (di prossima pubblicazione).
[3] V. Jankélévitch, “L’ironie”, Champs Flammarion, 1979 p. 23. Trad. it. a cura di F. Canepa, “L’ironia”, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1997.
[4] Lettera a lady Welby del 12 ottobre 1904, in: C. S. Peirce, “Selected Writings”, P.P. Wiener ed., Dover 1966, p. 383.
[5] Gioco di parole intraducibile: il sostantivo “étonnement” (“stupore, sorpresa”) è qui inteso fare riferimento al verbo “tonner” (“tuonare”), con evidente richiamo all’esempio – precedente e successivo nel testo – dell’esperienza del sentire improvvisamente il rombo di un tuono (NdT).
[6] E’ il titolo e il tema di un’opera di Thomas Nagel: “The view from nowhere”, Oxford University Press, 1986. Trad. it.: “Uno sguardo da nessun luogo”, Il Saggiatore, Milano, 1998.
[7] Un simile tentativo equivale a voler ridurre la relazione Io-tu ad una relazione Esso-esso (si veda Martin Buber, “Je et Tu”, Aubier-Montaigne, 1969. Trad. it: “Io e tu”, in M. Buber, “Il principio dialogico e altri saggi”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1993).
[8] La denuncia dello “psicologismo” ha conosciuto il proprio apogeo nella filosofia di Husserl.
[9] Si veda C. Zimmer, “Le bon, le spectateur et le méchant”, Le Monde, 24-25 Marzo 1985.
[10] Thomas de Celano, “Vie de Saint François”, Ed. Franciscaines, cap. 29. Trad. it.: “Vita di San Francesco e trattato dei Miracoli”, Porziuncola Edizioni, Assisi, 1989. La gioia pura dell’adoratore spossessato del mondo contrasta qui con l’eccitazione infantile di colui che anticipa la possibilità di smontare il giocattolo naturale.