Michel Bitbol
CREA/CNRS, 1 , rue Descartes, 75005 Paris FRANCE
Phenomenology and the Cognitive Science, 1, 181-224, 2002
prima parte – seconda parte – terza parte
Una scienza in cui l’essere situati conta[i],[1]
Riassunto: Quando Francisco Varela formulò il programma della Neurofenomenologia, propose un dissolvimento metodologico bilanciato dell’ “hard problem” della filosofia della mente. Io mostro che la sua risoluzione è un paradigma che si impone da sè su punti di vista che sembrano opposti, inclusi gli approcci materialistici. Inoltre metto in risalto come le rivoluzionarie idee epistemologiche di Varela stiano guadagnando un ampio consenso grazie a una recente controversia tra ermeneuti ed eliminativisti. In ultimo metto in rilievo un parallelo strutturale tra le scienze cognitive e le caratteristiche distintive della meccanica quantistica. Questo confronto, assieme alle precedenti convergenze, punta diritto alla comune origine dei principali enigmi della meccanica quantistica e della filosofia della mente: l’oblio del punto cieco[2] costitutivo della conoscenza oggettiva.
Pochi anni fa, Francisco Varela pubblicò un articolo dirompente fin dalle fondamenta, intitolato ” A science of consciousness as if experience mattered” (Una scienza della coscienza in cui conta l’esperienza) (Varela 1998), che forniva un sorprendente riassunto della nuova disciplina da lui chiamata “Neurofenomenologia” (Varela, 1996, 1997). In esso egli sosteneva una dissoluzione (risoluzione) originale dell’ “hard problem”[3] della coscienza, che implicava un approccio fortemente metodologico piuttosto che uno più teoretico.
La base di questo approccio era l’osservazione secondo la quale ogni descrizione in terza persona, oggettiva, si presenta come un punto focale invariante per una comunità di soggetti incorpati (embodied)[4], situati, dotati di una esperienza in prima persona. Questa osservazione abitualmente viene trascurata (da quei filosofi che pensano che l’invarianza sia solo il nostro modo di scoprire una realtà dietro le apparenze superficiali situate), oppure sopravvalutata (da quei filosofi che la usano come arma contro ogni rivendicazione di conoscenza). Le ultime due attitudini portano un pregiudizio sistematico riguardo l’esperienza cosciente.
Trascurare l’effettiva supremazia della situatedness (situatità), che è una tendenza comune nella nostra cultura, porta a sottovalutare il ruolo (importanza) della coscienza. Se uno accetta che l’esperienza cosciente sia solo un modo periferico (il nostro modo) di accedere a una realtà intrinsecamente oggettiva di cui noi facciamo parte, allora questa esperienza viene completamente accantonata (eliminativismo forte), o ridotta a un campo di descrizione facilmente oggettivabile (riduzionismo fisico), o trattata come una entità oggettiva (sostanza o dualismo di proprietà). Al contrario, sopravvalutare il fatto che descrizioni in terza persona sono prodotte da (una comunità di) soggetti senzienti collocati in un network di legami naturali e sociali, abitualmente significa indugiare nello scetticismo, relativismo, o idealismo soggettivo. Ma Francisco Varela non trascurò, nè sopravvalutò la supremazia dell’embodiement in qualche astratta teoria della relazione tra mente-corpo. Egli considerò l’embodiment come un punto di partenza naturale per definire un’appropriata strategia di ricerca.
La sua idea centrale era che nelle scienze cognitive, uno non dovrebbe nè tentare di assorbire la sfera soggettiva in un dominio oggettivo preventivamente definito, nè oggettivare in qualche modo il soggettivo, nè dare al soggettivo alcuna supremazia sull’oggettivo[5]. Si dovrebbe piuttosto ritornare al campo dell’esperienza, dal quale origina la profonda dicotomia tra il soggettivo e l’oggettivo, e quindi sviluppare all’interno di essa un sistema di vincoli reciproci. Attualmente, vincoli reciproci sono fatti valere tra le formulazioni in prima persona dei contenuti fenomenici, e le descrizioni in terza persona di quelle invarianti[6] fenomeniche, sviluppate dalle neuroscienze elaborate collettivamente. Questa scelta strategica ha due importanti conseguenze: una pratica e una epistemologica.
Quella pratica consiste nel dare a un’attenta elaborazione delle asserzioni in prima persona la stessa importanza data all’elaborazione delle asserzioni in terza persona. Dopo tutto, un appropriato vincolo reciproco può essere realizzato su basi solide, solo se entrambe le parti sono conosciute a fondo. Nel campo dell’esperienza in prima persona, questo richiede una attenzione fenomenologicamente disciplinata, che deve essere acquisita come ogni altra abilità. Il primo passo consiste nel divenire familiari con il processo di riduzione fenomenologica[7]. Questo evita le abituali trappole[8] dell’introspezione, favorendo la familiarità con l’esperienza piuttosto che distanziarcene. La conseguenza epistemologica è che, con l’obiettivo di comprendere la coscienza, la scienza intera non è più limitata a descrivere strutture che sono invarianti attraverso una gamma più o meno estesa di situazioni (spazio-temporali, personali, culturali etc. ). La sua base metodologica è ampliata così da includere: (i) relazioni reciprocamente regolate tra resoconti situati, e (ii) relazioni tra resoconti situati da un lato e le loro proprie invarianti dall’altro. L’ intersoggettività complementa l’oggettività in senso stretto ed è sistematicamente riferita ad essa. Ora, uno può vedere come in questo modo l’ “hard problem” della filosofia della mente si scioglie. In poche parole, l’ “hard problem” consiste nel trovare un luogo per l’esperienza cosciente all’interno della natura quale è descritta (si presume) dalle nostre migliori teorie scientifiche. Ma come D. Chalmers (Chalmers, 1995, 1996, 1997), dopo molti altri studiosi (Nagel, 1986; Jackson, 1997; Searle, 1997), evidenziò, le teorie scientifiche possono accedere alla derivazione di strutture solo da assiomi strutturali. Esse non sono in grado di spiegare le caratteristiche qualitative non-strutturali[9] dell’esperienza, e nemmeno in grado di giustificare la pura esistenza dell’esperienza. In altri termini, esse ci mettono in grado di predire relazioni tra i fenomeni[ii], ma di non dire alcunchè riguardo al bruto fatto della fenomenalità, il quale è assunto più verosimilmente di ogni altra cosa, come “assoluto” (Blackburn, 1993).
Varela sminuì questo dilemma proponendo niente meno che una radicale ri-definizione della scienza, della natura, e della naturalizzazione. Finchè la scienza si limita a descrivere invarianti trans-situazionali (che valgono indipendentemente dalle situazioni, n.d.t.), finchè la natura è concepita come una collezione di tali invarianti prese come oggetti e leggi, e finchè naturalizzare la coscienza significa o proiettarla su un piano costituito da questi oggetti, o inventare una nuova classe di oggetti, l’ “hard problem” rimane profondamente insondabile. Ma se la scienza viene estesa così da includere una “danza” di definizione reciproca tra le considerazioni in prima-persona e quelle in terza-persona (Varela, 1998, p. 42); se la natura è fatta di visioni e di esperienze situate, così come di una molteplicità di invariantiiii; e se, di conseguenza, naturalizzare la coscienza significa includere i suoi contenuti disciplinati (fenomenologicamente) all’interno di un network fortemente interconnesso di oggetti e di esperienze, allora ogni problema scompare. In un certo senso l’ “hard problem” è risolto da questo approccio, perchè la coscienza è stata direttamente naturalizzata; e in un altro senso, più plausibile, esso è dissolto perchè le sue ragioni si sono dimostrate mal fondate fin dall’inizio. In accordo con la seconda interpretazione, Varela insisteva sul fatto che nella formulazione abituale del problema della coscienza ” (…) ciò che è perso di vista, non è la natura coerente della spiegazione, ma la sua alienazione dalla vita umana” (Varela, 1998, p. 41). Il suo obiettivo, perciò, punta a una sistematica reintegrazione della vita umana (vale a dire esperienza incorporata, embodied) nel contesto della discussione.
La principale difficoltà, a questo punto, consiste nel fatto che, come ogni altra soluzione, quest’ultima è convincente solo per coloro che accettano di essere “convertiti” a una appropriata riformulazione del problema e/o a una filosofia della scienza alternativa. Molti pensatori, oggi giorno, resistono fortemente a questa “conversione”. Essi preferiscono ancora riaffermare un senso di mistero, sostenendo l’emergenza dell’esperienza cosciente dalla materia (Searle, 1997), o dichiarare che la scienza attuale ha già una spiegazione in serbo, per esempio in qualche strana interpretazione della meccanica quantistica (Penrose 1994; Stapp, 1996), o esprimere la loro fede in un futuro, non prevedibile, avanzamento della scienza, che chiarirà l’enigma.
Fronteggiando questa resistenza collettiva profondamente radicata, Varela essenzialmente adottò un’attitudine da scienziato. Egli sperava di convincere i suoi contemporanei attraverso la dimostrazione che il programma di ricerca della neurofenomenologia è “progressivo” nell’accezione di Lakatos (Lakatos, 1978)[10]; ovvero che esso produce nuovi e inaspettati risultati, empiricamente controllabili e in grado di generare applicazioni tecniche o mediche. Alcuni dei suoi più recenti lavori sulla fenomenologia della percezione del tempo (Varela, 1999), sull’epilessia (Le Van Quyen et al. 1999), sull’integrazione su larga-scala nel cervello (Varela, 2001)[11], e sulle relazioni causali a due-vie tra l’esperienza cosciente e le caratteristiche corporee (Varela, 2000; Thompson e Varela, 2001, 2002), erano rivolte precisamente a questo.
Come filosofo, il mio compito, piuttosto, è quello di stimolare nei lettori di questo articolo un senso di razionale ineluttabilità. La soluzione di Varela non è solo una delle possibili alternative tra tante; essa è un paradigma che tende ad insinuarsi in molti altri punti di vista (apparentemente opposti) della filosofia della mente, ed è per di più in un eccezionale accordo con lo stato attuale del dibattito nella filosofia della scienza e nella filosofia della fisica. Per esporre questo, procederò in tre passaggi. Primo, mostrerò come molte tra le più promettenti e conosciute concezioni nella filosofia della mente convergano verso la soluzione di Varela dell’ “hard problem”. Secondo, metterò in risalto il fatto che il vasto movimento epistemologico di Varela sta ottenendo un’accettazione sempre più ampia, come risultato di un effetto collaterale della controversia tra eliminativisti ed ermeneuti sulla questione della folk-psychology[12]. Terzo, enfatizzerò il fatto che la fisica, considerata abitualmente come il prototipo di una scienza esclusivamente oggettiva, implica infatti una profonda dialettica tra invarianti e situatità; tra strutture oggettivate e una rete di soggetti situati (in atto o in potenza). Omettere di prendere coscienza di questo, diede avvio a molti dei così detti paradossi della meccanica quantistica. Di converso, una piena conoscenza di questo modo dialettico di funzionare, porterà a una comprensione parallela (anche se non significa una mera identificazione) tra i problemi della meccanica quantistica e i problemi della filosofia della mente. Tale convergenza dovrebbe renderci capaci di gettare le basi di una scienza generale, in cui la situatità conta, al di là di una scienza della coscienza, in cui l’esperienza conta (vedi Varela).
1- Una rete di espressioni in prima-persona e di resoconti in terza-persona.
E’ già stato osservato da F. Varela che la sua neurofenomenologia ha molte caratteristiche in comune con altri approcci recenti.
Una di tali somiglianze riguarda l’idea di base di una reciproca articolazione non-riduzionistica dei resoconti in prima persona e di quelli in terza persona. Nel metodo della “triangolazione” di O. Flannagan (Flannagan, 1992), per esempio, sia la prospettiva soggettiva che quella oggettiva convergono verso un presunto processo mentale unico, piuttosto che rivendicare priorità dell’uno sull’altro. E nel “modello riflessivo di percezione” di M. Velmans, i resoconti in prima-persona e in terza-persona di percezioni situate sono reciprocamente posti in relazione, senza alcuna tentazione di progettare la fenomenologia su di un livello fisico di descrizione (Velmans, 1998).
La maggior differenza, comunque, consiste nel fatto che, diversamente da questi due autori, Varela deliberatamente affronta il problema di come portare i resoconti in prima persona a un livello di certezza tale da sostenere un confronto con i resoconti scientifici oggettivi. Dopo tutto, nessuno si fiderebbe di esperimenti scientifici eseguiti con strumenti insicuri (Wallace, 2000; Wilber, 1997). Uno non dovrebbe fidarsi nemmeno di resoconti dettagliati in prima-persona, se essi originassero da una mente scarsamente stabilizzata. In buon accordo con questa opzione, Nathalie Depraz (Depraz, 1999; Depraz et al., 2002) ha sviluppato l’ambizioso progetto di una precisa “fenomenologia iperestetica”, nella quale eventi neurologici evidenti possono essere ascritti a un’appropriata controparte esperienziale, anche quando essi non varcano la soglia della consapevolezza coscienziale ordinaria. B.A. Wallace (Wallace, 2000, pp 81-82) basa la risoluzione dell’ “hard problem” su questa metodologia di esperienza consolidata. Secondo lui, la concomitanza che può essere determinata sistematicamente tra (rifinite convenientemente) descrizioni in prima-persona e descrizioni di tipo neurologico in terza-persona, è equivalente a una relazione causale nel senso debole di una stretta reciproca interdipendenza; si dovrebbe prendere coscienza di questo, piuttosto che continuare a propendere per un legame causale più forte costruito asimmetricamente, come un “meccanismo” a una-via, che da una “base” neurale permanente passa a delle apparenze coscienziali ordinarie transeunti. Questo sottile movimento suggerisce che, la scelta del giusto livello di comparazione neuro-esperienziale, costituisce il punto che può far le vera differenza. Fintanto che dei resoconti in prima-persona, grezzamenti caratterizzati, sono comparati a dettagliate analisi neurologiche microscopiche in terza-persona, viene naturale assegnare alle seconde uno stato privilegiato e pretendere che l’esperienza sopravvenga[13] su uno strato neurofisiologico. Ma se i resoconti in prima-persona sono sufficientemente rifiniti, e se oltretutto essi vengono comparati con appropriati processi neurali su larga-scala, allora l’accoppiamento può divenire così rimarchevole, che i due tipi di resoconti verosimilmente sono posti sulla stessa posizione all’interno di uno schema di reciprocità. In tali circostanze, se uno dei presupposti è quello di evitare un rigido ritorno alla Teoria dell’ Identità[14] (vedi la discussione più sotto), l’approccio neurofenomenologico è inevitabile.
Un’altra convergenza con la neurofenomenologia gira attorno a una ampliata concezione della natura che è implicata da esso. D. Chalmers invocò l’idea che il contenuto di base del mondo (la sua ontologia) dovrebbe essere ampliato con l’obiettivo di includere l’esperienza, quale nuova fondamentale “proprietà” (Chalmers, 1995). Nuove leggi, di conseguenza, dovrebbero essere in grado di regolare la relazione tra queste recenti caratteristiche acquisite e le precedenti caratteristiche fisiche del mondo. Similmente, in vero e proprio stile Meinonghiano[15], D.W. Smith (Smith, 1999) ha proposto di ampliare la lista delle categorie aristoteliche. Egli ha per prima cosa diviso il dominio delle categorie in formali e materiali, e poi ha ampliato ogni dominio con categorie mentali. Le originali categorie di sostanza, qualità, relazione etc. sono state da Smith rinforzate con i termini intenzionalità, esperienza, contenuto etc., alla stregua di Ockham, le entità della natura sono state volontariamente moltiplicate.
Qui ancora, comunque, ci sono importanti differenze tra proposte di questo tipo e la posizione di Varela, anche se esse condividono l’impegno verso uno stato fondamentale della mente al suo livello esperienziale più elementareiv. La principale differenza riguarda la specifica posizione dell’esperienza nel sistema della conoscenza, la qual cosa è pienamente chiarita negli scritti di Varela, ma non nelle teorie dei due autori precedenti. Come possiamo caratterizzare questa posizione? In poche, metaforiche, ma suggestive parole, l’esperienza cosciente non è una cosa o una caratteristica che uno ha, ma ciò che uno vive. Non è una cosa o una caratteristica che uno può conoscere, ma ciò in cui uno abita (soggiorna). Di conseguenza la terminologia mentalistico-esperienziale di Varela non punta verso un definito dominio di esistenza, passibile di categorizzazione, ma verso il dominio definitivamente distinto della embodiement o situatedness. Si tratta della ben-documentata (ancora incompletamente assimilata) differenza tra essere (qualcosa) e cosa si prova ad essere (qualcosa); o, nella cornice della fenomenologia di Husserl, la differenza tra Körper (il corpo oggettivato) e Leib (il corpo vissuto).
Wittgenstein e i Wittgensteiniani (Rudd, 1998) erano acutamente consapevoli di questo tipo di differenza. Scrivendo riguardo alle sensazioni e più generalmente circa l’esperienza, Wittgenstein dichiarò: ” Non è qualcosa, ma nemmeno niente! ” (Wittgenstein, 1968a, §304, p. 102). Non è qualcosa ; non è un oggetto o una proprietà riguardo alla quale uno possa sviluppare un discorso o una teoria; non è alcuna entità che possa essere inquadrata in uno schema categoriale ; ma si commetterebbe un errore negargli una qualche realtà, come alcuni eliminativisti radicali erano tentati di fare. Perciò, invece di entrare in un dibattito ontologico senza fine circa lo stato di entità mentali, Wittgenstein indagò nella nostra pratica quotidiana dell’embodiment multi-centrato. Egli esplorò il modo in cui usiamo la terminologia mentalistica, assieme con il comportamento, quando vogliamo esprimere noi stessi agli altri. Piuttosto di estendere la struttura della natura, egli esortava a non ignorare l’intera gamma delle procedure verbali e gesturali, delle quali l’esercizio delle scienze naturali oggettive costituisce solo una piccola parte.
In quel riguardo, Varela si avvicinò in modo rimarchevole alla via di Wittgenstein di affrontare il problema della coscienza. Egli non dotò il suo ampliato concetto della natura con alcuna aggiunta ontologica/categorica. Egli piuttosto si concentrò nel definire una nuova sfera di metodi, nella quale i metodi delle scienze naturali oggettive sono inclusi come caso particolare. Un nuovo approccio metodologico, i contenuti esperienziali del quale, sono una motivazione, un background, e una componente maggiore, ma non un tema oggettivato.
Per coloro che hanno avuto l’opportunità di discutere con Francisco Varela, questo confronto con Wittgenstein può sorprendere. Varela era solito enfatizzare la sua preferenza per la fenomenologia husserliana, e criticare la cautela (per non dire il rigetto) dei filosofi Wittgensteiniani, quando il problema della descrizione dei contenuti esperiti diviene la cosa più urgente. Prima che mi accinga a sviluppare altri punti, devo ridurre il dislivello tra questi due maggiori programmi filosofici del ventesimo secolo. Questa riconciliazione condiziona il parallelo (che è centrale in questo articolo) tra Wittgenstein e la neurofenomenologia. Di fatto, come ora vedremo, il disaccordo è più apparente che reale.
Il punto chiave del dibattito gira attorno alla nozione di “descrizione” fenomenologica[16]. Husserl caratterizzò la fenomenologia come una scienza descrittiva, che implica concetti “morfologici”, opposta alle scienze esatte, che implicano concetti “ideali” (Husserl, 1928, §74)[17]. L’intento primario della fenomenologia è quello di descrivere l’ “essenza” di ogni “Erlebnis“[18](esperienza vissuta), così come essa diviene accessibile quando la riduzione fenomenologica (e.s. distogliere l’attenzione dagli oggetti ordinari verso il campo degli stati coscienziali) è stata messa in atto. Ora, cos’è un’essenza, e cosa significa “descriverla” ? Un’essenza è definita da Husserl, come una regola invariante di possibili variazioni fenomeniche; e di converso, il ristretto spettro delle possibili variazioni di presentazioni individuali (dati di fatto) punta verso una certa “essenza” (Husserl, 1928, §2). Come conseguenza di questa definizione, le essenze possono differire in accordo con i modi di presentazione, e inoltre in accordo con il tipo di invariante che è ritenuta[19]. Queste differenze circonscrivono regioni[20] di essenze, e, di conseguenza, ogni scienza corrisponde a una “eidetica regionale” v. Tra le scienze, la fenomenologia è coinvolta con una specifica “eidetica regionale”, la regione delle essenze dell’ “Erlebnisspazio. Appartiene all’essenza delle entità naturali (i corpi), di essere date solo parzialmente, attraverso vedute spaziali o “adombramenti” (Abschattungen)[22]. Questo definisce la loro trascendenza. In contrasto, le tipiche essenze della regione fenomenologica non impiegano questo modo di presentazione attraverso prospettive (Follesdal, 1984). Come Husserl sottolineò, “un Erlebnis non è dato attraverso una prospettiva”[23] (Husserl, 1928, §42). Questo mostra l’immanenza dell’esperienza vissuta e, di conseguenza, la sua incontrovertibilità. Ma nonostante queste precisazioni, vi è una forte somiglianza di base tra le varie regioni: in ogni caso, un’essenza è un oggetto per un qualche tipo di intuizione, allo stesso modo in cui le entità empiriche familiari sono oggetto di intuizione percettiva. Come afferma Husserl, c’è un’intuizione eidetica tanto quanto c’è un’intuizione empirica. E l’intuizione eidetica è costruita letteralmente come una varietà di visione (Husserl, 1928, §3). Se si prende questo alla leggera, allora descrivere un’essenza fenomenologica equivale a descrivere un oggetto di intuizione (quasi-visuale). In questo intendimento di “intuizione eidetica” sembra che siano state interamente conservate le connotazioni ordinarie del termine “descrizione”. Ogni cosa appare come se la fenomenologia fosse basata su uno schema cripto-dualistico (soggetto-oggetto). In realtà, le cose sono molto più intricate. Husserl stesso, combattè ripetutamente contro possibili disconoscimenti in senso dualistico della sua fenomenologia descrittiva.
Ma prima di documentare lo sforzo di Husserl verso una chiarificazione, poniamo l’attenzione alla posizione di Wittgenstein riguardo alla descrizione dei propri contenuti mentali. Wittgenstein è molto desideroso di disperdere, fin dall’inizio, la metafora dualistica di colui che vede e di ciò che è visto, dal contesto mentale. Allo scopo di corroborare la sua posizione anti-dualistica, egli, per prima cosa, considera il caso limite delle espressioni vocali e corporee primitive del dolore (o altri semplici sentimenti): “il lamentarsi non è la descrizione di un’osservazione” (Wittgenstein, 1968b). Non c’è separazione alcuna tra l’espressione primitiva e ciò che essa esprime, e questo è sufficiente a distinguerla da una “descrizione”. L’espressione non può essere giustificata dall’esperienza che è espressa attraverso di essa (come una descrizione sarebbe giustificata da ciò che essa descrive), ma c’è una piena continuità tra questa espressione e la corrispondente esperienza. Non c’è alcun argomento per sostenere una indipendenza logica tra l’espressione primitiva e ciò che è espresso.
Quindi, la precedente analisi viene estesa da Wittgenstein a genuine dichiarazioni come per esempio “ho male ai denti”. In accordo con lui, queste dichiarazioni sono espressive di per se stesse, come piangere e lamentarsi; non si può dire che esse descrivano un qualche stato interno, perchè in principio non c’è una reale separazione.
Prese assieme, queste osservazioni evidenziano una netta divisione tra espressioni non-dualistiche e descrizioni. Descrivere il dolore di qualcuno non è formalmente rigettata da Wittgenstein, egli, comunque, rimane sottilmente ironico riguardo a ciò. (Wittgenstein, 1967, §482). Perciò, invece di evitare completamente di sostenere la fattibilità della descrizione di uno stato mentale, egli ci esorta a distinguere tra il gioco linguistico delle descrizioni ordinarie e il gioco linguistico delle descrizioni mentali (Wittgenstein, 1968a, §290). Nel gioco linguistico delle descrizioni ordinarie, ci sono condizioni vere, perchè è possibile, in questo caso, comparare, in qualche modo, la formulazione descrittiva con lo stato delle cose che essa descrive[25]. Ma nel gioco linguistico della descrizione mentale, alcune formulazioni sono allo stesso tempo criteria di ciò che esse, si suppone, descrivano (Bouveresse, 1987, p. 510). L’incontrovertibilità delle descrizioni in prima-persona diviene normativa, invece di essere fattuale o intuitiva come in Husserl. Questo è sufficiente per definire il dominio specifico di ciò che noi potremmo chiamare (con un senso di paradosso) “descrizione non-dualistica”. Stabilito che i molti usi della parola “descrizione” non sono adombrati dalla sua unicità fonetica, nessun danno reale viene commesso dal suo impiego.
Ora, ritorniamo a Husserl. Come ho suggerito prima, Husserl era seriamente preoccupato di evitare alcuni degli equivoci, che possono originarsi dalla parola “descrizione”, come essa viene usata nella fenomenologia. Egli era specialmente preoccupato dalle possibili confusioni con la psicologia introspettiva, la quale comporta l’ “auto-osservazione” dell’esperienza vissuta riflessa[26]. Egli, perciò, abbozzò un compromesso tra le tendenze dualistiche di base della parola “descrizione” e lo spirito completamente immanentistico della fenomenologia: (i) contrariamente alla psicologia introspettiva, la fenomenologia mira a descrivere le esperienze vissute non-riflesse ; ma (ii) la descrizione di tali Erlebnis non-riflessi è basata su “intuizioni riflessive di essenze” di secondo-ordine (Husserl, 1928, §79)[27]. Questo determina regole specifiche dell’uso della parola “descrizione” nella fenomenologia.
Ricapitolando, l’insistenza di Wittgenstein nel distinguere le “espressioni” mentalistiche dalle ordinarie “descrizioni” non è assolutamente incompatibile con il concetto fenomenologico di “descrizione”, mostra che alcune precauzioni vengono prese, e che vengono fatte distinzioni ben-rifinite. Sia Wittgenstein che Husserl combattevano contro cio che noi possiamo definire “un linguaggio dell’immanenza”. Anche a quel riguardo, non è assurdo confrontare le investigazioni neurofenomenologiche di Varela con lo studio delle forme di vita di Wittgenstein. Potrei ora usare entrambi i vocabolari, ma nell’interesse della chiarezza (non-dualistica), dovrò, d’ora innanzi, restar fedele alla dicotomia Wittgensteiniana tra espressione e descrizione.
Fino ad ora, le convergenze, che ho documentato, si sono applicate solo alle vedute di Varela e alle posizioni vicine a questa (inclusa quella di Wittgenstein). Il senso di inevitabilità che vorrei stimolare, sarebbe potenziato di molto, se potessero essere dispiegate convergenze effettive o possibili con idee diametralmente opposte. E tali convergenze con punti di vista estranei esistono, e sono piuttosto significative. Per iniziare con una osservazione elementare, anche i comportamentisti “duri” e i teorici dell’identità implicitamente accettarono, in realtà, che, affinchè una descrizione di un comportamento osservabile pubblicamente ed di eventi neurali fosse accettata come una prova della mente, o anche per essere credibile come un sostituto delle categorie mentali, essa deve essere confrontata ad un certo punto con rapporti in prima-persona, facendo uso di tali categorie. I comportamentisti e i teorici dell’identità tacitamente si ritrovarono in una condivisa comprensione dell’esperienza, nel loro reale intento di purificare la scienza da qualche rimasuglio di essa (dell’esperienza); essi promossero un uso negativo di questa comprensione comune. In verità, essi abitualmente minimizzarono questo punto, o lo nascondevano gli uni agli altri; e essi costantemente negavano che esso dovesse essere accettato come un fatto di principio. Ma la loro praxis era fondamentalmente simile alla praxis di quegli autori che sostengono la costruzione di vincoli reciproci tra i resoconti in prima-persona e quelli terza-persona, piuttosto che una mera riduzione di un polo all’altro; questa praxis era stata solo non sviluppata dal lato della prima-persona.
Attualmente, l’analogia è così impressionante che, in passato, i sostenitori della strategia del vincolo reciproco venivano ripetutamente scambiati per comportamentisti o teorici dell’identità.
L’esempio più interessante di questa confusione riguarda Wittgenstein. Egli fu spesso accusato di un tipo di comportamentismo (Mungle, 1966), e questo continua pure oggivi, nonostante la sua difesa, e nonostante numerosi eccellenti commenti (Bouveresse, 1986; Hacker, 1993), che lo hanno liberato di questo peso. All’inizio del paragrafo 304 de Le ricerche filosofiche, il suo immaginario accusatore lo incolpa di non distinguere tra il dolore e il comportamento-doloroso. Wittgenstein nega ciò, ma l’accusatore prosegue: “e ancora tu giungi più volte alla conclusione che la sensazione in se stessa è niente“. La risposta susseguente di Wittgenstein è equivalente a una negazione reiterata, ma allo stesso tempo essa prepara il campo per i susseguenti equivoci. “La conclusione, egli scrive, era solo che niente serve tanto qualcosa di cui niente può essere detto.” Questa osservazione, che “niente serve così bene” genera la sensazione che non c’è spazio nella filosofia di Wittgenstein per l’esperienza cosciente, come appunto nel comportamentismo. E l’affermazione che niente può essere detto riguardo i contenuti dell’esperienza cosciente, può indurre la credenza che Wittgenstein abbandoni la terminologia psicologica-ordinaria (e di conseguenza anche la terminologia fenomenologica), come nell’eliminativismo. Ma entrambi i dogmi sono giudicati male, come potremmo vedere.
I migliori commentatori caratterizzarono l’approccio di Wittgenstein come segue. Wittgenstein convergeva con il comportamentismo nei seguenti punti: (i) la negazione di un regno interno di sensazioni e di pensieri che possa essere visitato da un soggetto (homunculus) e quindi riferito; (ii) l’idea che il ruolo della terminologia mentalistica dipenda dai comportamenti espressivi (è quest’ultimo punto che spinse alcuni critici (Mungle, 1966) a cadere in errore, vedendo in Wittgenstein un “comportamentista logico o linguistico”). Ma dall’altro lato, Wittgenstein ripudiò l’estrema rivendicazione del comportamentismo, che il dolore (o qualsiasi contenuto di esperienza), così per dire, si identifichi con qualche comportamento. Dopo tutto, egli uscì dicendo che un mal di denti è un tale comportamento, contraddicendo completamente il normale uso del termine (Wittgenstein, 1968b, p. 296). Ricapitolando, in accordo con lui, un rapporto verbale del dolore non significa esattamente un comportamento-doloroso; nè gioca il ruolo di un sintomo più esterno (comportamento aggiunto) di un evento interno asserito.
Perciò, che tipo di relazione Wittgenstein istituì tra esperienza, comportamento, e giudizi espressivi? La relazione, da egli considerata, consiste in un reciproco feedback durante il processo di apprendimento del vocabolario psicologico. Il suo leit-motiv alla fine degli anni trenta fu che il comportamento-doloroso opera come un criterion del dolore esperito. Questo non equivale a dire che ci sia un legame rigido di vincolo tra il comportamento-doloroso e il dolore; ma solo che uno effettivamente agisce e parla come se ci fossero tali rigidi legami nel contesto dell’apprendimento delle espressioni linguistiche del dolore e altro, in generale (con poche eccezioni che devono rimanere eccezioni) nel loro contesto di uso. Una “grammatica” stabile di un vocabolario e di sentenze mentali può originarsi solo, in accordo con Wittgenstein, da una norma di interconvertibilità delle condizioni di uso della prima persona, della seconda persona, e della terza persona. L’uso di “io sono in pena”, “tu sei in pena”, e “egli è in pena” deve essere interconvertibile in accordo con questa norma. E questo significa implementare vincoli reciproci tra espressioni di esperienza, espressioni di empatia, e descrizioni di comportamento, come parte di una praxis complessa chiamata una forma di vita.
La somiglianza con la posizione di Varela diviene cospicua a questo punto.
Varela, spesso, fu scambiato per un teorico dell’identità, in alcuni circoli filosoficivii. La ragione di questa confusione può essere identificata in alcune sentenze. (i) Sia Varela che i teorici dell’identità negano qualsiasi forma di dualità tra un dominio interno di oggetti mentali e un soggetto introspettivo capace di osservarli e di pronunciarsi su di essi; entrambi si oppongono a qualsiasi forma di dualismo (incluso il dualismo di proprietà, di Chalmers) e rifiutano il modello del “teatro cartesiano”. (ii) Entrambi, Varela e i teorici dell’identità (Thompson e Varela, 2001, 2002), credono che le relazioni tra eventi mentali ed eventi neurali siano più forti e più reciproche che nel monismo anomalo. Comunque, da un punto di vista semantico, Varela e i suoi collaboratori non erano così lontani dal considerare che, il consolidamento del significato di certe sottili e discriminative “descrizioni”viii fenomenologiche, dipenda in modo cruciale da una disciplinata correlazione con eventi neurali. Ancora, Varela rigettava l’idea che le esperienze fossero esattamente eventi cerebrali. In realtà, egli era ben consapevole, che uno avrebbe potuto chiederli; “Questa non è una versione “raffazzonata” della ben conosciuta teoria dell’identità?” (Varela, 1998). Ma egli rispose alla questione sottolineando come in questo approccio, i problemi teoretici vengono sistematicamente deviati su di un piano metodologico. La sua neurofenomenologia non è una teoria dell’identità di una qualche correlazione neuro-esperienziale data realmente; essa è una procedura di istituzione sistematica di tale rapporto, e di rifinitura correlativa della terminologia fenomenologica.
Varela, qui implicitamente, espanse l’analisi “grammaticale” dell’espressione di Wittgenstein. Quest’ultimo restrinse la sua ricerca al campo in cui, la norma standard di interconvertibiltà tra espressioni (in prima o seconda-persona) e i resoconti del comportamento esterno (in terza-persona) istituiscono un vocabolario psicologico-popolare accettabile intersoggettivamente. Ma Varela ampliò il suo campo di interesse a una norma di vincolo reciproco tra “descrizioni” fenomenologiche di contenuti esperienziali stabilizzati (in prima o seconda-persona) e rapporti neuroscientifici (in terza-persona). Mentre nel lavoro di Wittgenstein, la forma di vita, in cui l’uso di sentenze espressive ha un senso fin dall’inizio, si riduce alla nostra attività quotidiana, nel lavoro di Varela, la forma rilevante di vita è ampliata, così da includere sia una pratica disciplinata di riduzione fenomenologica, sia un’attività di sperimentazione neuroscientifica e/o di teorizzazione.
Per concludere questo confronto, ora siamo in grado di vedere che in nessun modo le posizioni di Wittgenstein e di Varela possono essere assimilate in un miscuglio con il comportamentismo o con la teoria dell’ identità. Ma, al contrario, la teoria del comportamentismo e la teoria dell’identità possono essere caratterizzate come due intendimenti reificanti e disimmetrici della in-azione dialettica dell’esperienza situata (embodied) e come rapporti oggettivi che Wittgenstein rivela nella vita ordinaria e che Varela estrapola in una sottile combinazione di forma di vita esperienziale e scientifica. Essi sono reificanti, perchè, generalmente, danno per scontato che resoconti oggettivi (del comportamento o degli eventi neurali) dischiudono le cose come sono. E sono dissimmetrici perchè, anche se fannno affidamento, più o meno tacitamente, su un background esperienziale in prima-persona, essi enfatizzano il primato ontologico o epistemologico delle descrizioni in terza-persona del comportamento o di eventi neurali. La loro “soluzione” del problema mente-corpo è equivalente a una versione ridotta e non bilanciata della risoluzione proposta da Wittgenstein e da Varela.
In un modo ancora più convincente, i materialisti e gli eliminativisti tendono sempre più spesso a costruire le loro proposizioni come se puntassero a una dissoluzione piuttosto che a una soluzione dell’ “hard problem”. Secondo loro, la scienza oggettiva si è rivelata così produttiva che si dovrebbero accettare: (i) la necessità impellente della scienza di revisionare la reale definizione di una spiegazione (anche se ciò significa rinunciare ai requisiti tradizionali di spiegazione)[28], e (ii) i criteri scientifici di interruzione della catena delle spiegazioni[29]. V.G. Hardcastle ha usato entrambi gli argomenti in una sottile difesa del materialismo contro il cambiamento di Nagel, Jackson, e Chalmers (Hardcastle, 1996). Attenendoci al punto (i), Hardcastle ha sostenuto che il mostrare le condizioni neuronali necessarie per un resoconto di esperienza cosciente, dovrebbe essere accettato come prova di una spiegazione della coscienza. Se qualche scettico moderno persiste nel dire che questo non spiega niente, può solo tentare di modificare la sua attitudine, fino a che non veda la correlazione neuro-esperienziale dispiegata come una spiegazione. Ma questo suona come una conversione piuttosto che un convincimento; precisamente il tipo di conversione che sarebbe necessaria per accettare (come nella dissoluzione di Wittgenstein e di Varela), che il problema neanche sorge. Ancora una volta, tuttavia, la principale differenza tra la dissoluzione del problema proposta da Hardcastle e quella proposta da Wittgenstein e da Varela, riguarda la simmetria: invece di dire che, relazioni vincolate reciprocamente tra l’aspetto neurologico e quello esperienziale, è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, V.G. Hardcastle sostiene che una forte correlazione dovrebbe fungere da spiegazione a una-via dell‘aspetto esperienziale attraverso quello neurologico. A questo stadio, la dissoluzione di Hardcastle sembra una versione più prevenuta e ristretta di quella di Varela.
L’origine del pregiudizio è verosimilmente la confusione ordinaria tra entità oggettive (vale a dire invarianti strutturali inter-situazionali) e le cose in sè stesse, che fu dissipata da Kant tanto tempo fa[ix]: finchè le entità neurobiologiche sono oggetti, e finchè questo (secondo quanto si asserisce) significa esistenza intrinseca, diviene verosimile che la direzione di spiegazione vada da esse ai contenuti illusori dell’esperienza soggettiva e non l’altra via attorno. Ma se l’equivalenza tra oggettività e assoluta realtà non è garantita, come per es. nella teoria della cognizione non-rappresentazionalista invocata da Varela (Varela, 1979; Bitbol, 2001), l’asimmetria della catena delle spiegazioni sembra ingiustificata.
Quindi passando al punto (ii), V.G. Hardcastle arguisce che, finchè la scienza non ha il più esiguo indizio di come affrontare l’ “hard problem”, uno potrebbe procedere con problemi che sono in principio accessibili a un approccio scientifico (per es. i correlati neurali del sonno, dell’anestesia, del coma, l’autoconsapevolezza riflessiva, etc.)[x], e non considerare il problema centrale, quello dell’origine della coscienza primaria. Molte caratteristiche cruciali dell’esperienza cosciente si possono chiarire in questo modo. Tra le più rilevanti, l’integrazione cumulativa su larga scala dell’esperienza, la sua relativa stabilità, il fatto che i suoi contenuti possono essere riidentificati come tali grazie agli ultimi atti esperienziali, e anche la sua riflessività, possono essere usati per spiegare le proprietà iterative globali delle reti neurali, come per es. i “loops rientranti” di Edelman (Edelman, 1994, p. 120). Ma il materiale di base (probabilmente una serie di fugaci “apparenze istantanee”) di questo processo di integrazione e stabilizzazione è sia presupposto dalla precedente descrizione neurologica sia lasciato al di là dei confini del suo potere esplicativo.
Ad ogni modo, questa strategia di concentrarsi su problemi “facili” (la cui compatibilità con la strategia del vedere le correlazioni come spiegazioni, è dubbiaxi) è stata sviluppata da molti autori. Alcuni di essi (O’Hara e Scutt, 1997) hanno sperato che risolvere un largo numero di problemi più facili ci portasse a un punto in cui il problema più duro divenisse trattabile. Altri autori (Mills, 1997) hanno preso ancora più seriamente l’idea che la scienza sia autorizzata a definire ciò che è un problema che essa può risolvere, e ciò che è definitivamente fuori del suo dominio spiegazione legittima. Uno degli esempi più celebrati è costituito dalla meccanica Newtoniana, che si sviluppò sulla base della decisione di non spiegare l’attrazione gravitazionale a distanza. Nella stessa maniera (sebbene anche più radicalmente), gli attuali avanzamenti nel campo delle neuroscienze dovrebbero avere il permesso di procedere sulla base della decisione di non spiegare la reale esistenza della coscienza primaria.
Quest’ultima proposta deve essere valutata attentamente. Certamente lo sviluppo della scienza oggettiva non deve (e non lo può de facto) essere pregiudicato da richieste irragionevoli. Ma rimanere fedeli a questa osservazione (la scienza non deve studiare la coscienza) che sembra orientata al buon senso può restringere inadeguatamente il campo d’indagine. Per iniziare, dal momento che la scienza oggettiva è un valore
Ora, come sappiamo, ciò che Varela fece, fu precisamente di promuovere e migliorare una tale metodologia alternativa. La sua metodologia non è una regressione rispetto a quella della scienza oggettiva: essa, piuttosto, parte da quest’ultima e la complementa. La metodologia di Varela complementa il metodo dell’estrazione delle invarianti delle caratteristiche strutturali pure dell’esperienza con un metodo di cura disciplinata dei contenuti esperienziali e della loro coordinazione interpersonale. Essa segue in modo stretto (e amplia) la strategia di Wittgenstein del così detto, secondo periodo della sua filosofia: inserendo il vecchio dibattito circa la corrispondenza tra parole e mondo, tra rappresentazione e realtà, tra resoconti in prima persona e in terza persona, all’interno di una pratica vissuta di scambio interpersonale e controllo reciproco. Sulle orme di Witgenstein, la filosofia del linguaggio doveva riscoprire per se stessa, che il linguaggio non si riduce a sostantivi denotanti oggetti e a predicati indicanti proprietà; ma che esso include, anche, espressioni performanti, pronomi con funzione indicatrice e molti altri strumenti di gioco intersoggettivo. Similmente, sulle orme di Varela ( e di pochi altri autori), la filosofia della scienza deve riscoprire per se stessa, che la scienza non è e non può essere ridotta a una statica corrispondenza tra le sue strutture teoretiche o entità e le corrispondenti leggi e oggetti del mondo; che essa, in modo cruciale, implica procedure sperimentali ed esperienziali, così come un rete sistematica di vincoli tra il primo tipo e il secondo tipo di approccio ( per es. tra resoconti oggettivi e pratiche in cui si è coinvolti in prima persona).
Per ricapitolare, portandola alle sue estreme conseguenze, la visione materialista della coscienza primaria si trova di fronte a un dilemma: o essa si affida al futuro e a sconosciuti sviluppi delle scienze oggettive, o essa spinge il problema dell’origine dell’esperienza ai confini della scienza oggettiva in senso stretto. Se si propende per la seconda opzione, i materialisti sono costretti, sorprendentemente, ad abbracciare la dissoluzione Wittgenstein-Varela, nonostante la loro irrefrenabile inclinazione unilaterale. Essi trascurano ciò che il metodo (della scienza oggettiva) non circoscrive. Dall’altro lato, Varela ampliò il metodo (a una dialettica di oggettività e di intersoggettività) allo scopo di prender dentro anche ciò che non può essere trascurato da nessuno. I materialisti possono rinunciare a qualsiasi spiegazione della coscienza primaria, perchè essa è marginale nella loro concezione di una natura intrinsecamente oggettiva. Ma Varela ci avvertiva di non cercare alcuna elusiva spiegazione meccanicistica della coscienza primaria, per l’opposta ragione: perchè essa è così fondamentale nella sua visione situata della natura, che dovrebbe essere preso per garantito, e quindi dovrebbe essere articolata con invarianti strutturali in una procedura epistemica generalizzata.
Fine prima parte (il resto dell’articolo verrà pubblicato prossimamente).
Note dell’autore: trascendentalmente puro (esperienza vissuta)”[21. Una delle principali differenze tra l’eidetica regionale della fenomenologia e l’eidetica regionale da cui dipendono le scienze empiriche riguarda il ruolo dello tra la cosiddetta descrizione e lo stato che presumibilmente viene descritto[24]. dualistiche. Comunque, qui come sempre, Wittgenstein è piuttosto flessibile nel vocabolario. Egli è consapevole che l’impiego della parola “descrizione” diviene sempre più una tentazione, quando si passa da una pura esclamazione a sentenze espressive complesse. Anche se l’idea di dominante nella nostra società, asserire che qualcosa (per es. l’esperienza cosciente) non è un appropriato argomento per la scienza, equivale a dire che questo qualcosa non è neppure un tema di indagine. Qui, una ritirata epistemologica sarebbe verosimilmente seguita subito da una negazione ontologica (la coscienza non esiste). Per di più, la circostanza che i metodi della scienza oggettiva non possano affrontare il bruto fatto dell’esistenza dell’esperienza cosciente, non significa che non ci siano altre metodologie in grado di farlo.
[i] Questo articolo è in memoria di Francisco Varela, che inizialmente penetrò al centro del mio pensiero, e poi al centro della mia amicizia.
[ii] Bisogna essere cauti nell’uso del termine “fenomeno”. Può essere sinonimo di “isolata esperienza di una percezione”, o riferirsi al più sofisticato concetto di un fenomeno sperimentale. Ma dal momento che i fenomeni sperimentali possono, uno dopo l’altro, essere costruiti come invarianti di livello-basso di percezioni sotto condizioni tecniche ben-definite, si può momentaneamente sorvolare su questa distinzione nell’interesse di questo argomento.
[iii] Queste possono includere le invarianti esperienziali della fenomenologia, e le invarianti strutturali universali, che sono tipiche delle scienze naturali.
[iv] B. Montero, puntualmente, evidenziò che il più acuto problema della filosofia della mente non è il tradizionale problema mente-corpo, ma piuttosto la questione: ” la mente è una caratteristica fondamentale del mondo?”. La mia presente discussione si focalizza su autori, da Wittgenstein a Varela e Chalmers, che sarebbero altamente d’accordo su una risposta positiva a questa domanda, ma che differiscono circa lo stato di questa fondamentale caratteristica (Montero, 2001).
[v] “eidos” può essere tradotto con “essenza”.
[vi] vedi l’articolo “Behaviorism” in (Audi, 1999). Discussione in (Suter, 1989).
[vii] M. Lockwood mi disse, in una conferenza, che egli aveva la costante sensazione che Varela fosse essenzialmente un teorico dell’Identità. Una chiara esposizione della posizione di Lockwood, circa questo punto, può essere trovata in (Lockwood, 1993).
[viii] Di nuovo, l’uso della parola “descrizione” può essere ingannevole. Si dovrebbe porre attenzione al fatto che la “grammatica” del termine “descrizione” non è la stessa in un contesto fenomenologico non-duale e nell’uso quotidiano.
[ix] Per quei lettori che non sono impressionati dall’autorità di Kant, mi sia concesso di aggiungere un argomento di logica elementare. Mentre la scoperta di una qualche caratteristica di una presunta realtà intrinseca si manifesterebbe certamente attraverso un’invarianza nel rispetto delle molteplici presentazioni epistemologiche, il contrario non è per nulla incontrovertibile. L’invarianza è una necessità, ma non una condizione sufficiente per una piena credenza nella realtà. Questa è la ragione per cui il dibattito tra filosofi della scienza realisti e anti-realisti e ancora vivo a tutt’oggi e verosimilmente andrà avanti per sempre.
[x] Un’altra questione accessibile è quella della corrispondenza tra relazioni neuro-chimiche e relazioni strutturali qualitative come il triangolo dei colori di Helmholtz.
[xi] Infatti aut si pensa che che la correlazione neuro-psicologica è una spiegazione di per se stessa, aut si afferma che la scienza non considera l’esperienza cosciente elementare come qualcosa che deve essere spiegato. Nel primo caso la spiegazione è già la, nel secondo la domanda di spiegazione viene declinata nel nome dell’oggettivià della scienza. Queste due posizioni si escludono a vicenda, e non si può ragionare contemporaneamente su entrambe le linee.
Traduzione a cura di Fabio Negro,
Centro Studi ASIA
Note del traduttore:
1. Il concetto di “situatità” deriva dal concetto fenomenologico di “essere in un mondo”, cioè dall’ ” idea che la conoscenza sia un evento in cui uno ha un mondo, o, più propriamente, sia una serie di eventi significativi in atto e interrelati, in cui il mondo di uno salta fuori, …” (M. Johnson, “The body in the mind”, p.174) . Con questo termine si indica il fatto di essere posizionati nel mondo in una concretezza (in alternativa a una posizione astratta, disincarnata ed intellettuale che non tiene conto dell’esperienza corporea e sensitiva). La neurofenomenologia si differenzia dalla fenomenologia per il fatto di aver introdotto, nella metodologia di studio dell’esperienza umana, una ben definita pratica individuale in cui esercitarsi quotidianamente, che permette di “vedere in presa diretta” il “materializzarsi” dei nostri pensieri, dei nostri atteggiamenti, delle nostre aspettative e delle nostre emozioni. Nello stesso tempo essa tiene un costante riferimento alle strutture biologiche umane (neuroscienze), a quelle cognitive e psicologiche, a quelle epistemologiche e linguistiche, a quelle sociali e ambientali. Questo permette all’esperienzialità individuale di non rimanere chiusa in una sfera privata, ma di essere condivisa e permette, inoltre, alla comunità di aiutare il singolo a interpretare e codificare ciò che esperisce e a renderlo accessibile agli altri soggetti. Tutto questo ha una profonda implicazione epistemologica, e cioè, che il modo di conoscere scientifico-oggettivante è solo una modalità particolare di conoscenza, che non può avere carattere onnicomprensivo e assoluto, e che esistono ambiti dell’esperienza umana che gli sono preclusi intrinsecamente. (vedi anche la nota successiva).
2. Con il termine “blind spot” (punto cieco) della conoscenza oggettiva, Michel Bitbol si riferisce alla “”mancanza” che caratterizza tutti i sistemi concettuali della tradizione filosofica; ovvero, niente meno che “noi stessi”, la nostra esperienza, la parte più evidente ma non vista di noi stessi. Infatti, la apparente struttura di base di ogni strategia del domandare filosofico è costituita di due elementi: i) il primo consiste nel mettere da parte la soggettività, e tentare di esprimere le proprie idee nella maniera più impersonale possibile; ii) il secondo nel considerare ogni soggetto (argomento) come un possibile tema od oggetto di indagine. Quindi, la messa tra parentesi dell’esperienza in prima persona, la propria esperienza, equivale ad ignorare il cuore del domandare stesso e costruire la coscienza come un oggetto o una proprietà, significa dimenticare che siamo impegnati con la sorgente stessa di ogni attenzione rivolta ad oggetti e a proprietà” (Michel Bitbol. Da “Primordial question about consciousness”, Convegno di Loiano (Bo), 2007).
3. L’espressione “hard problem” (il problema difficile) è stata coniata dal filosofo David Chalmers per indicare la componente irriducibile dell’esperienza vissuta, di cui il soggetto è il solo capace di render conto in prima persona.
Differenti interpretazioni si sono susseguite nella storia degli studi sulla mente a partire dagli anni ’20 del ‘900. I Comportamentisti consideravano la mente come una scatola nera con fili d’ingresso (stimoli) e fili di uscita (risposte comportamentali), il tutto non di natura logica, informazionale o altro, ma esclusivamente fisiologica. Negli anni ’50 nasce la scuola del Funzionalismo che focalizza l’attenzione sulle funzioni cognitive (selezione di stimoli e il loro riconoscimento, la memoria e l’apprendimento, il pensare e progettare, il trasformare tutto ciò in linguaggio e azioni motorie) riducendole a funzioni logiche astratte. Le sensazioni vengono messe da parte in quanto non riducibili a processi logici e la coscienza viene intesa come un’altra funzione che controlla il sistema “mente cognitiva”. Attorno alla figura di Alan Turing si sviluppa il programma della Intelligenza Artificiale (IA) che considera la mente alla stregua di un software esportabile in altre strutture fisiche. Incapace di rendere conto della generazione di significati e a causa della grave accusa di dualismo, la scuola del funzionalismo si evolve in quella del Connessionismo delle reti neurali: invece di costruire un software da inserire in cervelli di silicio, i connessionisti costruiscono speciali hardware con reti di connessione organizzate sul modello delle connessioni di neuroni del cervello, dai quali emergono processi “mentali”. Questi sistemi sono in grado da soli di imparare e di modulare le loro risposte, selezionando nuove strade in base alla loro interazione con il mondo reale. Nel 1974 il filosofo Thomas Nagel con il suo famoso articolo intitolato “What is it like to be a bat” (Che cosa si prova a essere un pipistrello) mette in risalto il deficit esplicativo (explanatory gap) nell’approccio scientifico in terza persona, intrinsecamente inadeguato a spiegare perché “si prova qualcosa a essere coscienti”. Mentre Nagel considera la coscienza un mistero (e quindi non spiegabile!), altri pensatori come Eccles e Popper ritornano a un dualismo radicale mente e corpo. Mentre alcuni sono convinti che la spiegazione un giorno arriverà dalla fisica quantistica (Penrose), c’è chi, raccogliendo l’eredità degli empiristi inglesi del ‘600-‘700 (Locke e Hume) sostiene che in realtà la coscienza non esiste e che l’io è solo un’illusione (Dennett, Churchland, Rorty, Minsky). Attualmente un folto gruppo di scienziati, soprattutto neurologi e neurobiologi, è impegnato nello studio sperimentale dei correlati neurali delle esperienze qualitative come sentire il dolore, i colori, i movimenti del corpo, presupponendo l’identità degli stati del cervello con gli stati della mente e con gli stati di coscienza (Damasio, Gallese) alla luce delle nostre conoscenze evoluzionistiche e genetiche (Edelman, Crick). Un punto di vista particolare è invece quello della Neurofenomenologia e del suo capostipite Francisco Varela cui è dedicato questo articolo, la cui idea principale è esposta nella nota 4. (Per una più approfondita ricostruzione storica vedi il libro di F.Bertossa, R.Ferrari, “Lo sguardo senza occhio”).
4. “Nella teoria di Varela la conoscenza pre-mentale sorge da una rete, non una rete di neuroni, bensì di micro-esperienze, le azioni e percezioni del corpo, che egli chiama atti incarnati. La mente si genera secondo un processo istantaneo che possiamo scomporre in tre passi: (ì) il corpo di ogni organismo (uomo o animale) compie infiniti cicli di percezione-azione, in cui ogni percepire è guidato dall’agire, ed ogni agire dal percepire. Questi microcicli di esperienza sono i componenti di base della realtà; (ìì) l’intreccio di miliardi di cicli senso-motori è la rete di esperienze che genera conoscenza; (ììì) dall’esperienza del conoscere sorgono insieme un mondo e una mente: ogni animale fa emergere, a secondo della sua corporeità ed esperienza, la sua mente e il suo mondo. Questi in realtà non hanno sostanza propria, ma sono dispersi nei cicli di relazioni di cui sopra, e si co-determinano, ovvero uno definisce l’altro: la mente, l’identità e i significati sono sempre in un mondo (con questo viene superata l’idea solipsista, perchè non c’è mente senza mondo) e il mondo è inseparabile dall’atto di esperirlo (con questo viene superata l’impostazione “oggettiva” del realismo scientifico, perchè non c’è un mondo predeterminato dove la coscienza è paracadutata)…Questo modello converge verso una conclusione che per Varela è essenziale: al fondo non c’è, né un mondo materiale predeterminato, né una mente immateriale” (F.Bertossa, R.Ferrari, “Lo sguardo senza occhio”, p.135-136).
5. Vedi la nota 4.
6. “Invariante” significa: “ciò che non varia”, e con il termine “invarianza” ci si riferisce a quella universale condizione che ci permette di fare esperienza e di conoscere, di intenderci tra di noi e di condividere le conoscenze. “In fisica, per esempio, l’invarianza è utilizzata, come sinonimo di simmetria, per l’osservazione di fenomeni che si ripetano sostanzialmente identici a distanza di tempo e di spazio.Questa condizione della realtà esiste sul serio dato che se così non fosse, pur operando sempre allo stesso modo otterremmo risultati diversi in luoghi diversi e, operando sempre nel medesimo luogo, otterremmo risultati diversi con lo scorrere del tempo. Il nostro mondo sarebbe così capricciosamente variabile da non consentirci di avere nessuna conoscenza preventiva di quello che succede quando si opera in un dato modo. L’acqua sul fuoco potrebbe bollire oggi a Varese, e, magari, anche dopodomani, ma non domani e non saremmo in grado di dire se l’acqua bolle oggi a Sidney o bollirà fra una settimana a Stoccolma. Due giocatori di biliardo ai lati opposti del tavolo descrivono in maniera diversa la situazione del gioco, in quanto vedono diversamente davanti e dietro, destra e sinistra. Ma le loro descrizioni concordano sui fatti fondamentali, quali le leggi dell’urto, dell’attrito, le velocità relative.Fino alla fine del 1800 era chiaro che in fisica dovevano venire rispettate certe invarianti, ma non se ne parlava esplicitamente in quanto ciò appariva banale. Con l’introduzione della teoria della relatività speciale le invarianti hanno assunto grande importanza, in quanto caratteristiche essenziali dello spazio dei fenomeni. È infatti fondamentale che le descrizioni dei fenomeni e, in particolare, le leggi fisiche, non dipendano dalla posizione spazio-temporale del fenomeno rispetto all’osservatore: le leggi, per essere tali, devono essere invarianti rispetto all’osservatore. Se così non fosse, ogni osservatore vedrebbe i fenomeni in maniera inconciliabile con quanto vedono altri osservatori e le sue stesse osservazioni varierebbero da istante a istante e da luogo a luogo.In altri termini, le regolarità della natura, cioè le leggi che descrivono l’andamento dei fenomeni, devono essere invarianti per spostamenti nel tempo e nello spazio. Sembra una considerazione banale, ma in realtà è fondamentale ed occorre approfondire la natura delle invarianti che stanno alla base della descrizione scientifica” (da Wikipedia). Ora, esempi di invarianza se ne trovano in tutte le discipline, ma l’ambito in cui tale concetto ha le più profonde implicazioni è quello fenomenologico, perchè, riguardando la nostra esperienzialità, ci chiama in causa direttamente. Infatti, nel nostro star facendo esperienza attuale, possiamo riconoscere una struttura ben definita (vedi i Quattro Tempi della Coscienza [QTC], Bertossa et al., 2004), in cui ci ritroviamo già così, da cui non possiamo uscire, perchè l’uscirne li comporterebbe e che non possiamo negare, perchè per negarli li dobbiamo usare.
7. Per capire in che cosa consista il metodo della riduzione fenomenologica, ho preferito riportare le parole dello stesso Husserl: “…Io ho coscienza di un mondo, che si estende infinitamente nello spazio e che è ed è stato soggetto a un infinito divenire nel tempo. Averne coscienza significa innanzitutto che io trovo il mondo immediatamente e intuitivamente davanti a me, che ne ho esperienza… Esso mi è costantemente alla mano, e io stesso sono un suo membro. E mi è dinnanzi non soltanto come un mondo di cose, ma con la medesima immediatezza, anche come mondo di valori, mondo di beni, mondo pratico… A questo mondo, al mondo nel quale mi trovo e che è insieme il mio mondo circostante, si riferisce il complesso delle mie varie e mutevoli spontanee attività di coscienza: l’indagine scientifica, l’esplicazione e l’elaborazione concettuale nella descrizione, il confrontare e il distinguere, il collegare e il contare, il presupporre e il dedurre…Ma vi si riferiscono anche i multiformi atti e stati del sentimento e della volontà: il gradire e il non gradire, il rallegrarsi e il rattristarsi, il desiderio e l’avversione, lo sperare e il temere, il decidersi e l’agire. Tutto ciò, con l’aggiunta dei genuini atti dell’io, nei quali il mondo, nello spontaneo prestare a esso attenzione e nell’afferrarlo, è dato alla coscienza come immediatamente alla mano, è racchiuso nell’espressione cartesiana cogito. Finchè vivo naturalmente, io vivo ininterrottamente entro questa forma fondamentale di ogni vivere attuale…io sono “atteggiato naturalmente“…Ciò che abbiamo esposto nell’intento di caratterizzare la datità dell’atteggiamento naturale e quindi la intrinseca caratteristica di esso era un frammento di descrizione pura, anteriore a ogni “teoria”. Dunque io trovo la “realtà”, e la parola stessa lo dice, come esistente e la assumo come esistente, così come essa mi si offre. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale. Conoscerlo più comprensivamente, … , tale è lo scopo delle scienze positive… Invece di permanere in questo atteggiamento noi vogliamo mutarlo radicalmente… noi miriamo alla scoperta di un nuovo territorio scientifico, e vogliamo conquistarlo proprio col metodo della messa tra parentesi, limitato però in un certo modo… Noi mettiamo fuori gioco la tesi generale inerente all’essenza dell’atteggiamento naturale, mettiamo tra parentesi quanto essa abbraccia sotto l’aspetto ontico (in un colpo solo mettiamo tra parentesi il regno dell’in sè e di qualunque cosa in sè)…io non nego questo “mondo”, quasi fossi un sofista, non metto in dubbio la sua esistenza, quasi fossi uno scettico; ma esercito l’epochè “fenomenologica”, che mi vieta assolutamente ogni giudizio sull’esistenza spazio-temporale… Se il mondo intero, inclusi noi stessi con tutto il nostro cogitare, viene posto fuori circuito, che cosa può rimanere?… l’evidenza a cui miravamo, cioè che la coscienza può essere afferrata attraverso una conseguente esperienza interna, come una sfera in sè connessa conformemente a leggi-eidetiche, aperta-infinita e tuttavia per sè conclusa, provvista di forme proprie di “immanente” temporalità. Attraverso l’attuazione della fenomenologica messa fuori gioco della validità del mondo obiettivo, questa sfera “immanente” dell’essere perde bensì il senso di uno strato reale di quella realtà uomo (oppure animale) che inerisce al mondo e che presuppone già un mondo…Così, la sfera pura della coscienza rimane, con tutto ciò che da essa non può venire separato (e tra l’altro l’ “io puro”), quale “residuo fenomenologico“… Dal punto di vista metodologico questa operazione si scompone nei diversi momenti della “messa tra parentesi”, e così il nostro metodo assumerà il carattere di una riduzione graduale. Ecco perchè noi in più occasioni parleremo di riduzioni fenomenologiche” (Husserl, “Idee, vol I°”).
8. “In generale, parecchie e ingenti difficoltà, fondate nella natura stessa della cosa, si oppongono alla comprensione o almeno a una sicura padronanza della differenza tra la fenomenologia trascendentale e la psicologia descrittiva o, come s’è cominciato a dire di recente, la psicologia “fenomenologica”…In quanto psicologo, io tematizzo questo essere, la vita nel modo dell’ “io”, tematizzo l’uomo da un punto di vista “psichico”. Rivolgendomi puramente verso l’interno, aderendo esclusivamente alla cosiddetta “esperienza interna”, respingendo tutti i problemi psicofisici concernenti la corporeità umana, ottengo una conoscenza originaria e puramente descrittiva della vita psichica quale in sè stessa è; … Di fatto applicando il metodo corretto, si profilano, non soltanto delle mere descrizioni tipizzanti e classificatorie, ma anche una grande e autonoma scienza, a patto di porre innanzitutto – come è possibile fare – non lo scopo di una scienza dei fatti effettivi di questa sfera interna dell’intuizione, bensì lo scopo di una scienza eidetica, se si perseguono cioè le strutture invarianti e peculiari di una psiche, di una comunità di vita psichica, se si persegue cioè il suo a priori. Se ora si compie la riduzione fenomenologico-transcendentale, quella conversione dell’atteggiamento naturale e psicologico interno in virtù della quale l’atteggiamento stesso diventa trascendentale, la soggettività psicologica perde appunto ciò che le conferisce la validità di un che di reale nel mondo già dato all’esperienza ingenua, perde il senso d’essere di una psciche di un corpo vivo esistente nella natura spazio-temporale già data … Nell’ambito del campo dei miei fenomeni trascendentali io non valgo più, teoreticamente, come l’io-uomo, non sono più un obiectum reale nell’ambito del mondo che vale per me come essente, ma sono posto esclusivamente come soggetto per questo mondo … Se così il fenomenologo si astiene in tutte le sue descrizioni trascendentali dal giudicare a proposito del mondo e del proprio io-uomo in quanto esistente mondano, giudica tuttavia sempre del proprio io in quanto esistente; ma si tratta ora dell’io trascendentale, cioè dell’io che è assolutamente, in sè e per sè, “prima” di qualsiasi essere mondano, prima di quell’essere mondano che solo nell’io assume una validità d’essere.” (Husserl, “Idee vol I°”, p.422).
9. “Le innumerevoli esperienze che si danno solo soggettivamente, i vissuti in prima persona (colori, sensazioni tattili, suoni, gusti, profumi, emozioni, umori), costituiscono l’enorme distesa del sentire qualitativo, ovvero la terra dei qualia. Un quale è un oggetto mentale, una “cosa” nel campo della esperienza cosciente, dotata di un’assoluta particolarità rispetto a tanti altri oggetti come una cellula o un pensiero logico: non sembra possibile accedervi se non in prima persona , nè ridurla a componenti più semplici” (F.Bertossa, R.Ferrari, “Lo sguardo senza occhio“, p.135-136).
10. Per Lakatos lo sviluppo della scienza non consiste in una serie di successivi duelli tra una teoria e i fatti, ma piuttosto tra almeno due teorie in competizione e i fatti. “…è una successione di teorie e non un’unica teoria che è valutata come scientifica o pseudo-scientifica”. La scienza, pertanto, è un “campo di battaglia per programmi di ricerca piuttosto che per teorie isolate”. E per Lakatos un programma di ricerca è una succesione di teorie, T1, T2, T3, T4 che si sviluppano da un nucleo centrale che, per decisione metodologica, si mantiene infalsificabile (incontrovertibile); è così che un programma può mostrare il suo valore, la sua fecondità e la sua progressività nei confronti di un altro programma. Questa concezione della scienza accentua l’interrelazione tra le varie epistemologie e la storiografia della scienza, nel senso che questa può retroagire, come arma critica, sulle varie idee di scienza. Tutto ciò renderebbe conto del fatto che una teoria viene scartata non quando qualche fatto la contraddice, ma solo quando la comunità scientifica ha a disposizione una teoria migliore della precedente. (G.Reale, D. Antiseri, vol. 3). Per un approfondimento vedi l’articolo di P. Pendenza, “Scienze cognitive e filosofia. Epistemologia della scienza e meditazione”.
11. “Per la gran parte dei ricercatori sembra molto difficile scoprire una specifica “area della coscienza” allo stesso modo in cui sono mappati nel cervello specifiche aree visive, motorie, uditive, del linguaggio, ecc.. Si ritiene che la coscienza sia frutto di legami, di una integrazione globale della rete nervosa. Le integrazioni possono essere sia di tipo spaziale (le sinapsi che i neuroni stabiliscono e rinnovano continuamente) sia temporale. Queste ultime consistono in sincronizzazioni delle frequenze delle scariche nervose e permettono di formare un legame temporale tra aree e gruppi di neuroni anche molto lontani tra loro; questo legame tra aree cerebrali indica che si stanno occupando dello stesso oggetto. Non sembra esservi nessun direttore d’orchestra, e le assemblee si auto-organizzano come musicisti di un’orchestra che si guardano per improvvisare. Quindi la rete “spaziale” di sinapsi tra neuroni è intrecciata a un’altra rete di natura “temporale” di onde di sincronizzazione tra aree anche molto lontane tra loro, che emergono e si dissolvono in corrispondenza di stati di esperienza” (F.Bertossa, R.Ferrari, “Lo sguardo senza occhio”, p. 75-76)
12. Il termine folk-psychology si riferisce all’uso delle idee comuni (ordinarie) circa il modo con cui la mente opera quando essa cerca di modellizzare il suo modo stesso di operare. Fondamentale a tutte le teorie di folk-psychology è il fatto che tutti noi abbiamo esperienze comuni circa il modo di funzionare della nostra mente e di quella degli altri., e che possiamo usarle per costruire una teoria generale della funzionalità della mente. Secondo gli studiosi delle folk-psychology dovremmo essere in grado di predire e spiegare il comportamento umano, dalla prima infanzia fino alla maturità, semplicemente facendo riferimento agli stati mentali, alle credenze e ai desideri. All’opposto gli eliminativisti credono che nessuna base neurale coerente possa essere trovata per molti concetti psicologici ordinari come credenza o desiderio e che il comportamento e l’esperienza possano essere spiegati adeguatamente solo su di una base biologica.In anni recenti, Paul e Patricia Churchland hanno sostenuto una forma estrema di materialismo, il materialismo eliminativista, che sostiene che i fenomeni mentali semplicemente non esistono affatto — che i discorsi sulla mente riflettono una spuria psicologia popolare (folk psyhcology) che semplicemente non ha nessuna base fattuale, un po’ come la cultura popolare parla di malattie causate da demoni.
13. “in filosofia, solitamente, il termine sopravvenire (ingl. supervene) viene usato con il significato di: esser dipendente da un gruppo di proprietà in modo tale che cambiamenti possono avvenire solo dopo che sono già avvenuti cambiamenti in quelle proprietà (relazione causale ad una via). F. Varela, invece, propendeva per una relazione causale reciproca o a due vie. Nella sua teoria, il sistema nervoso, il corpo e l’ambiente sono sistemi dinamici altamente strutturati, accoppiati reciprocamente su più livelli. Poichè essi sono completamente intrecciati (enmeshed) – biologicamente, ecologicamente e socialmente – è più corretto parlare di sistemi reciprocamente integrati (ingl. embedded: incastonati, esser parte integrale di un tutto contornante), piuttosto che di stati interni e stati esterni in relazione l’un con l’altro. Elementi neuronali, somatici e ambientali, verosimilmente, interagiscono per produrre processi globali organismo-ambientali, che nello stesso tempo influiscono sui loro elementi costituenti” (Evan Thompson).
14. “…anche se è innegabile che l’attività del cervello sia collegata a quella dela coscienza, ma da questo non consegue che essa sia identica ad essa, ovvero la descriva in modo completo. Ci sono sempre degli eventi cerebrali contemporanei e coordinati (co-occorrenze) con atti della coscienza; ma affermare che questi eventi neurali registrati in terza persona sono identici alle esperienze coscienti in prima persona è una pesante assunzione, che prende la forma: se N (evento neurale) assomiglia a E (esperienza), allora N spiega E”. (F.Bertossa, R.Ferrari, “Lo sguardo senza occhio”, p.79).
15. Alexius Meinong, filosofo austriaco allievo di Franz Brentano, noto per la sua “Teoria degli Oggetti”, credeva nella possibilità di intenzionare oggetti non-esistenti. La sua teoria è basata sull’osservazione, empiricamente supportata, che è possibile pensare qualcosa anche se l’oggetto corrispondente non esiste. Bisogna tener presente che per Meinong l'”esistenza” è una proprietà di un oggetto, esattamente come il colore o la massa. Egli diceva che le rappresentazioni, i giudizi e le assunzioni corrispondono sempre ad oggetti e che questi oggetti sono indipendenti dagli stati mentali in cui sono appresi. Ordinariamente, però, questa indipendenza è oscurata dal “pregiudizio in favore dell’esistente”, che porta le persone a supporre che, se a un pensiero corrisponde un oggetto non-esistente, allora realmente non c’è un oggetto distinto dal pensiero. Ma questo, egli dice, è un errore perchè: gli esistenti sono solo una parte infinitesima degli oggetti di conoscenza. E questo è illustrato dalla matematica, la quale non si occupa mai di cose cui l’esistenza sia essenziale, e infatti si occupa principalmente di oggetti che non possono esistere, come per esempio i numeri. Da questo punto di vista necessitiamo di studiare gli oggetti in se stessi; perciò lo studio degli oggetti è essenzialmente indipendente e dalla psicologia e dalla teoria della conoscenza. La “teoria degli oggetti” non è psicologia, perchè gli oggetti sono indipendenti dalla nostra apprensione di essi. Non è nemmeno teoria della conoscenza, perchè la conoscenza ha due aspetti, uno cognitivo, che ha a che fare con la psicologia , e uno oggettivo, che è indipendente. Non è neppure identica alla metafisica, in quanto quest’ultima si occupa solo del reale, mentre la “teoria degli oggetti” non ha tali limitazioni. Essa, infatti, considera tutto ciò che può essere conosciuto a priori riguardo gli oggetti, mentre la conoscenza della realtà è ottenuta tramite l’esperienza. Meinong sostiene, inoltre , che “la teoria degli oggetti” non è nemmeno identificabile con la pura logica, poichè la logica, secondo la sua opinione, è essenzialmente pratica nei suoi scopi, avendo a che fare con la correttezza del ragionamento. La matematica, invece, è una parte essenziale di essa, anzi vi trova il suo luogo appropriato. Infatti, secondo Meinong, la tradizionale divisione delle scienze in naturali e mentali non lascia spazio alla matematica, in quanto tale divisione tiene conto solo degli esistenti. In conclusione, la “teoria degli oggetti” è un soggetto indipendente e il più generale di tutti i soggetti filosofici. Essa espande l’orizzonte della nostra conoscenza permettendoci di categorizzare sempre nuove entità, con nuovi statuti ontologici e nuove proprietà. (da Wikipedia).
16. “la Fenomenologia è scienza di esperienza, scienza di fenomeni, ma non di dati di fatto. Il suo scopo è quello di descrivere i modi tipici con cui i fenomeni si presentano alla coscienza e queste modalità tipiche (per cui questo suono (dato di fatto) è un suono e non un colore o un rumore, o per cui questo (dato di fatto) è un triangolo e non altro sono appunto le essenze. Gli oggetti della fenomenologia sono le essenze dei dati di fatto, sono gli universali che la coscienza intuisce quando ad essa si presentano i fenomeni. E la conoscenza delle essenze non è una conoscenza mediata, ottenuta attraverso l’astrazione o la comparazione di più fatti: per comparare più fatti bisogna aver colto già un’essenza, un aspetto cioè per cui sono simili. La conoscenza delle essenze è un’ intuizione, distinta da quella che ci permette di cogliere i fatti singoli. Essa è ciò che Husserl chiama l’intuizione eidetica o intuizione dell’essenza (wesen, eidos).” (G.Reale, D. Antiseri, vol. 3).
17. I “concetti morfologici” consistono nella “fissazione e nell’espressione concettuale delle datità intuitive delle cose con i loro caratteri essenziali intuitivamente dati”. La loro caratteristica è la vaghezza, in quanto le cose si danno come fluenti e di conseguenza vaghi sono i “tipi di forme afferrati attraverso l’intuizione sensibile e fissati sul piano concettuale e terminologico”. Concetti morfologici o “descrittivi” sono quelli usati nelle scienze naturali, come per esempio: “frastagliato, dentellato, lenticolare, ombrelliforme, ecc., che sono concetti non casualmente, ma essenzialmente inesatti, e quindi non matematici”. I “concetti ideali” (per esempio quelli geometrici) “esprimono qualcosa che non si può “vedere”; la loro “origine” e quindi il loro contenuto sono essenzialmente diversi da quelli dei concetti descrittivi che non esprimono alcuna essenza “ideale”, ma al contrario delle essenze immediatamente tratte dall’intuizione simpliciter. I concetti esatti hanno i loro correlati in essenze che hanno il carattere di “idee” in senso kantiano. A queste idee o essenze ideali si contrappongono le essenze morfologiche, quali correlati dei concetti descrittivi. Le essenze ideali sono prodotte nell’ideazione come “limiti” ideali che non possono per principio essere reperiti in nessuna intuizione sensibile e a cui le rispettive essenze morfologiche “si approssimano” in maggiore o minore misura senza mai raggiungerli, … le scienze esatte e quelle puramente descrittive sono sì collegate, ma nessuna delle due può prendere il posto dell’altra, e nessuna scienza esatta, cioè operante con substruzioni ideali, per quanto altamente sviluppata, può portare a termine i compiti originari e legittimi della descrizione pura.” (Husserl, “Idee, vol I°”, § 74).
18. ““Erlebnis”: termine tedesco che si può tradurre “esperienza vivente” o “vissuta” e col quale si designa ogni atteggiamento o espressione della coscienza. Della nozione si è specialmente servito Dilthey, assumendola come strumento fondamentale della comprensione storica e in generale della comprensione inter-umana. Egli ha caratterizzato l’Erlebnis nel modo seguente: “L’Erlebnis è anzitutto l’unità strutturale tra forme di atteggiamento e contenuti. Il mio atteggiamento di osservazione insieme alla sua relazione con l’oggetto è un Erlebnis, al pari del mio sentimento di qualcosa o del mio volere qualcosa. L’Erlebnis è sempre cosciente de se stesso”. Allo stesso modo, Husserl ha considerato l’Erlebnis come un fatto di coscienza, quindi come uno qualsiasi dei contenuti del cogito. “Noi consideriamo gli Erlebnis di coscienza in tutta la pienezza concreta con cui si presentano nella loro concreta connessione – la corrente della coscienza – e nella quale si unificano grazie alla loro propria esistenza. E’ quindi evidente che ogni Erlebnis della corrente, che lo sguardo riflessivo riesce a cogliere, ha un’essenza propria, da afferrare intuitivamente, un contenuto che può essere considerato nella sua caratteristica intrinseca”. (N. Abbagnano, “Dizionario di Filosofia”). Il filosofo americano S. Gallagher pone l’accento sul fatto che, nonostante l’esperienza cosciente varii continuamente, c’è “qualcosa” che si mantiene sempre uguale a se stesso, e cioè il fatto che tutte le esperienze si danno in prima-persona. Infatti egli parla di “quality of mineness” (mi-ità), ovvero del “senso implicito che l’esperienza è la mia propria esperienza, nel momento stesso in cui vivo in essa. (S. Gallagher, “University of Central Florida”).
19. “L’essenza (eidos) è un oggetto di nuova specie. Come ciò che è dato nell’intuizione di qualcosa di individuale o intuizione empirica è un oggetto individuale, così ciò che è dato nell’intuizione eidetica è un’essenza pura” (Husserl, “Idee vol I°, §3).
20. “Il fatto del riferimento alle essenze pure apre alla fenomenologia la esplorazione e la descrizione di quelle che Husserl chiama “ontologie regionali. “Regioni” in questo senso, sono la natura, la società, la morale, la religione. A queste ontologie regionali, Husserl contrappone l’ontologia formale, che poi egli identifica con la logica.” (G.Reale, D. Antiseri, vol. 3). L’ontologia formale racchiude nello stesso tempo in sè le forme di tutte le possibili ontologie e ne prescrive una comune legalità formale.
21. “Cerchiamo di chiarire dettagliatamente questo punto. Nell’atteggiamento naturale, noi compiamo simpliciter tutti gli atti grazie a cui il mondo è li per noi. Noi viviamo ingenuamente nel percepire e nell’esperire, cioè in questi atti attualmente nei quali le unità delle cose ci si manifestano, e non soltanto ci si manifestano, ma ci sono date col carattere di “alla mano” e di “reali”. Coltivando le scienze naturali, compiamo degli atti di pensiero ordinati dal punto di vista logico e dell’esperienza, e in questi atti quelle realtà vengono assunte così come si offrono, per essere poi determinate dal punto di vista del pensiero, di modo che dalle trascendenze determinate dall’esperienza diretta possano esserne deduttivamente ricavate delle altre. Ora, nell’atteggiamento fenomenologico, noi impediamo in universalità di principio il compimento di tutte queste tesi cogitative, ossia “mettiamo tra parentesi” quelle già compiute e “non ce ne serviamo” nelle nuove ricerche; invece di vivere in esse e di compierle, compiamo piuttosto gli atti della riflessione diretti sopra di esse e afferriamo queste tesi come quell’essere assoluto che esclusivamente sono. Ora noi viviamo completamente in questi atti di secondo grado, il cui dato è l’infinito campo degli assoluti vissuti – il campo fondamentale della fenomenologia. ” (Husserl, “Idee vol. I° p. 124-125).
22. L’esperienza della spazialità richiede per essere descritta la precisazione della fondamentale differenza tra i termini immanenza e trascendenza. “Per vissuti intenzionali con riferimento immanente, intendiamo quelli alla cui essenza inerisce che i loro oggetti intenzionali, qualora in generale esistano, appartengono alla medesima corrente di vissuti a cui appartengono gli atti stessi. Ciò accade per esempio dovunque un atto si riferisce a un altro atto (una cogitatio a una cogitatio) del medesimo io, oppure quando un atto si riferisce a un dato di sentimento sensibile del medesimo io, ecc. La coscienza e il suo obiectum formano allora un’unità individuale prodotta puramente dai vissuti. Dove ciò non ha luogo, abbiamo invece i vissuti intenzionali diretti in maniera trascendente; come per esempio tutti gli atti diretti su essenze o su vissuti intenzionali di altri soggetti con altre correnti di vissuti; così come tutti quelli diretti su cose, su realtà in generale”. Siamo ora in grado di capire meglio il fenomeno dell’ “adombramento“. “Prendiamo le mosse da un esempio. Guardando costantemente questo tavolo, girandogli attorno, io ho costantemente la coscienza dell’esistenza in carne e ossa di un solo e medesimo tavolo, che rimane in se stesso assolutamente immutato. Invece, la percezione del tavolo muta in continuazione, anzi è una continuità di percezioni mutevoli… Il colore della cosa vista non è per principio un momento effettivo della coscienza del colore: esso si manifesta, ma mentre si manifesta, la manifestazione può, anzi deve, nell’esperienza variare continuamente. Il medesimo colore si manifesta attraverso molteplicità continue di adombramenti di colore. Lo stesso si dica per ogni qualità sensibile e per ogni figura spaziale… Bisogna tenere ben presente che i dati sensibili, i quali esplicano la funzione di adombramenti di colore, di levigatezza, di figura, ecc., devono essere tenuti rigorosamente distinti dal colore, dalla figura, dalla levigatezza come tale, in breve, da tutte le specie di momenti cosali. L’adombramento, sebbene porti lo stesso nome, non è per principio del medesimo genere di ciò che è adombrato. L’adombramento è un vissuto. Ma il vissuto è possibile solo come vissuto e non come spazialità. L’adombrato invece è possibile soltanto come spazialità (è appunto spaziale nella sua essenza) e non come vissuto. In particolare, è assurdo considerare l’adombramento di una figura (per esempio di un triangolo) come qualcosa di spaziale e possibile nello spazio, e chi lo fa (ed è una confusione che permea tutta la letteratura psicologica) confonde evidentemente l’adombramento con la figura adombrata, ossia con la figura che si manifesta… La cosa come tale, non può per principio essere immanentemente percepita e quindi essere in generale reperita nella connessione dei vissuti. Per questo la cosa viene detta trascendente simpliciter. Qui appunto si annuncia la diversità di principio dei modi di essere, la diversità più cardinale che si possa dare, quella tra coscienza e realtà.” (Husserl, “Idee vol I°”, § 41-42).
23. Un vissuto non si adombra, cioè, la sua presenza non si adombra attraverso adombramenti presenti.
24. “…”Ma non puoi negare che quando, ad esempio, si ricorda, abbia luogo un processo interno”. – Perchè, diamo forse l’impressione di voler negare qualcosa? Quando si dice “Ma qui ha pur luogo un processo interno” – si vorrebbe continuare: “lo vedi bene”. Ed è appunto questo processo interno ciò che s’intende negare con la parola “ricordarsi”. – L’impressione, che vogliamo negare qualcosa, deriva dal fatto che ci opponiamo all’immagine di un ‘processo interno’. Ciò che neghiamo è che l’immagine del processo interno ci dia l’idea giusta dell’impiego della parola “ricordare”. Anzi, diciamo che quest’immagine, con le sue ramificazioni, c’impedisce di vedere l’impiego della parola quale esso è veramente… Perchè mai dovrei negare che c’è un processo mentale?! Soltanto, “Adesso ha avuto luogo in me il processo mentale del ricordare …” non vuol dire nient’altro che: “Adesso mi sono ricordato di …” Negare il processo spirituale vorrebbe dire negare il ricordare; negare che qualcuno si ricordi mai di qualcosa” (Ricerche Filosofiche, §305, §306). Qui, Wittgenstein, ci sta costringendo a rimanere presenti a ciò che sta accadendo adesso. E non sta negando il fatto che tu adesso stai leggendo queste parole, ma fa crollare la convinzione che dietro a questo momento di esperienza ci sia qualcosa. “… “Allora sei un cripto-behaviorista. In fondo non dici che all’infuori del comportamento umano tutto è finzione?” – Se parlo di una finzione, allora si tratta di una finzione grammaticale… Come si arriva al problema filosofico dei processi e stati mentali e del behaviorismo? – Il primo passo vien fatto del tutto inavvertitamente. Parliamo di processi e stati, e lasciamo indecisa la loro natura! Forse un giorno ne sapremo di più – pensiamo. Ma proprio mentre pensiamo così ci siamo impegnati per un determinato modo di considerare la cosa. Infatti abbiamo un concetto ben preciso di che cosa voglia dire: imparare a conoscere un processo più da vicino. (La mossa decisiva nel giuoco di prestigio è stata fatta, ed è proprio quella che ci sembrava una mossa innocente.) – Ed ora l’analogia che avrebbe dovuto renderci comprensibili i nostri pensieri vien meno. Dunque dobbiamo negare un processo non ancora compreso, che ha luogo in un mezzo non ancora esplorato. E così sembra che abbiamo negato i processi spirituali. E, naturalmente, non li vogliamo negare!”
25. “per questo livello primario, la dicotomia vero/falso non è affatto prevista, perchè non è prevista la possibilità di mentire” (M. De Carolis, “Il terreno del linguaggio”, p.113).
26. “… la riflessione è un titolo che copre gli atti attraverso cui diventa afferrabile e analizzabile con evidenza la corrente dei vissuti con tutti i suoi svariati accadimenti (momenti del vissuto, elementi intenzionali) … è il nome del metodo attraverso cui la coscienza può conoscere la coscienza in generale … Nel processo della riflessione sugli atti si possono distinguere due momenti: (i) l’orientamento riflessivo dello sguardo, ossia, ogni cogitatio (vissuto intenzionale) può diventare oggetto di una cosiddetta “percezione interna” e successivamente oggetto di una (ii) valutazione riflessiva, di approvazione e disapprovazione, ecc.” (Husserl, “Idee vol I°, §78). In psicologia si punta l’attenzione ai contenuti del secondo momento, cioè alla aspettative, ai bisogni, alle conclusioni tirate nelle esperienze passate e così via, con lo scopo di capire come una persona è arrivata allo stato attuale problematico della propria vita e tentare un intervento. La fenomenologia, invece, attraverso la messa tra parentesi dei contenuti, quindi anche delle teorie e dei pregiudizi accumulati durante la vita, coglie le pure strutture invarianti dell’esperienza, così come si danno.
27. “… Il modo di essere del vissuto implica che verso ogni vissuto reale e vivente come originario presente può dirigersi immediatamente uno sguardo di percezione. Ciò avviene nella forma della riflessione, che ha questa importante proprietà: che quanto viene in essa percettivamente afferrato si caratterizza per principio come qualcosa che non soltanto è e perdura nello sguardo percipiente, ma esisteva già prima che questo sguardo prestasse a esso attenzione. Che tutti i vissuti siano dati alla coscienza significa, specialmente nei riguardi dei vissuti intenzionali, che essi non sono solo coscienza di qualcosa e in quanto tali presenti quando sono oggetto di uno sguardo riflettente, ma sono già presenti come “sfondo” in maniera irriflessa, e quindi pronti a essere percepiti …Il vissuto già dato può esso stesso avere già il carattere di coscienza riflessa di qualcosa, cosicchè la modificazione è di grado superiore; ma in ultima istanza si torna ai vissuti assolutamente irriflessi e ai loro dabilia effettivi e intenzionali” (Husserl, “Idee vol.I°”).
28. Vedi la seconda parte dell’articolo.
29. “A che punto dobbiamo fermare il nostro interrogare? Cosa dobbiamo assumere come base in cui dare spazio al nostro senso di mistero? Dobbiamo assumere come riferimento l’universo materiale e quindi tentare di far sorgere domande sull’esistenza della coscienza nei suoi frammenti (i corpi umani)? O dobbiamo sospendere ogni domanda, non circa la coscienza riflessiva, ma riguardo l’esperienza cosciente primaria, e considerarla come l’origine assoluta dei nostri concetti, inclusa la nozione di materia? Persino quest’ultima alternativa è sintomo di un equivoco, perché essa ripropone la vecchia dualità tra oggetto e soggetto. Il punto in cui smettiamo di chiederci viene deciso nel corso dell’attività esperienziale del domandare. Nulla ci impedisce di scegliere il punto di partenza secondo il tipo di ricerca che stiamo conducendo, a patto che non ci dimentichiamo mai che qualsiasi punto di origine viene scelto nel mezzo di un’esperienza incorpata; che persino la decisione fiscalista di fermare l’attività del domandare quando l’esistenza dell’universo materiale è implicata perviene a un certo atteggiamento esperienziale, l’atteggiamento del “sacrificio del Sé” come descritto da Horkheimer e Adorno”. (Michel Bitbol. Da “Primordial Questions About Consciousness”, Convegno di Loiano (Bo), 2007)
a cura di Fabio Negro,
Centro Studi ASIA