La gestione delle carceri è da sempre tema divisivo nel mondo della politica. Ciò che emerge meno nel dibattito pubblico è la presenza di associazioni e volontari che raggiungono chi si trova dietro le sbarre con progetti, iniziative, talvolta con la semplice presenza di chi sa ascoltare; capita poi che, dalla condivisione di simili esperienze, nasca un metodo, un impegno, una via. E’ stato il caso del professor Cesare Bori, docente di filosofia morale presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di degli Studi di Bologna, recentemente scomparso: studioso, fra l’altro, di giurisprudenza, teologia e scienze bibliche, crediamo che di lui si possa porre in evidenza anche la spinta ad una profonda ricerca spirituale ed ai possibili riflessi di questa nella vita di ciascuno. Accanto a questo impegno di ricerca professionale e non, vogliamo qui in particolare ricordare il lavoro svolto sin dal 1998, prima da solo e poi insieme ai suoi studenti, all’interno del carcere “Dozza” di Bologna, estendendo ai detenuti il proprio insegnamento.
Prima di dare vita a questa particolare esperienza, il prof. Bori, aveva istituito e curato il corso di Filosofia Morale all’Università e, a partire da domande quali “cosa deve fare un uomo nel mondo?” e “come occorre che si comporti un uomo?”, conduceva i propri studenti attraverso lo studio dei testi delle grandi tradizioni filosofiche e religiose orientali e occidentali, per scoprirne i contenuti, non tanto alla ricerca di improbabili risposte generalizzate, quanto piuttosto di una spinta verso riflessioni di ampio respiro.
Come lui stesso ha scritto, il desiderio era “sperimentare la possibilità di un discorso etico che potesse reggere alla prova della differenza culturale” (tratto da Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze – Quando il silenzio è una cosa concreta: l’esperienza nelle carceri).
E proprio a partire dalle differenze culturali tale lavoro di ricerca è stato successivamente proposto all’interno del mondo carcerario, la cui popolazione è caratterizzata da una forte presenza di stranieri: Magrebini, Cinesi, Pakistani, Albanesi… provenienti quindi da realtà culturali profondamente diverse dalle nostre.
Si trattava di un’iniziativa sperimentale, per provare la validità di un approccio ‘aperto’ alla ricerca morale, in un mondo chiuso ma multiculturale, che rendeva necessario muoversi in diverse direzioni, per riuscire in ultimo a convergere l’attenzione verso quell’unica opportunità che può venire dal “prendersi cura di se stessi”, del proprio vissuto, attraverso lo studio, la lettura e l’ampliamento delle proprie conoscenze, in un’ottica anche di speranza di un diverso e migliore futuro. Un’esperienza, in ultimo, intrinsecamente educativa e in grado di dare un contributo notevole al sempre acceso e controverso dibattito sul significato del principio rieducativo che la nostra Costituzione pone come scopo fondamentale della pena detentiva.
Particolarmente significativa, sul piano interculturale, risulta anche l’introduzione, all’interno del carcere, di questa esperienza di insegnamento e di uno spazio dedicato al silenzio e alla valorizzazione dello studio e della conoscenza di se stessi attraverso il corpo: a partire dalla propria esperienza personale di pratica meditativa, il prof. Bori, ad un certo punto del proprio percorso, ha infatti proposto negli incontri tenuti in carcere, a fianco di letture che spaziavano da Seneca e Platone, ai testi buddhisti ed islamici, anche momenti di silenzio condiviso e di attenzione alla postura e al respiro, con l’intento di fornire a persone con le quali un lavoro continuato nel tempo si presenta spesso ostacolato dal rapido mutare delle situazioni, strumenti di consapevolezza e conoscenza radicati in se stessi, cui poter attingere sia durante la detenzione che nella successiva vita al di fuori del carcere.
Colpisce l’attenzione e lo spazio che Bori ha voluto prestare al grande patrimonio delle pratiche orientali, proponendole, a partire da un lavoro prima di tutto sperimentato su se stesso, prima ai suoi studenti e poi in una realtà difficile come quella del carcere, con l’intento di donare a ciascuno, e in particolare a chi si trova in una situazione contingente di costrizione come i detenuti, la possibilità di lavorare sulla propria dimensione interiore, ed acquisire così i strumenti capaci di condurre l’attenzione verso una prospettiva di crescita e cambiamento profondo.
Una via importante, quella indicata dal prof. Bori. Ed infatti l’associazione da lui stesso creata porta proprio il nome Una Via, che ci auguriamo continui ad essere percorsa anche all’interno del carcere, sulla scia del suo intento più profondo riassunto in queste parole: “Non sappiamo se la prigione sia riformabile, le persone lo sono sempre (e non si parla solo di detenuti). Valutare i risultati è difficile quando si lavora sull’anima. L’unica obiezione che mi sento di respingere davvero è quella che ci rinfaccia un difetto di concretezza. Al contrario, aprire la mente alla comprensione di un grande testo, far gustare la gioia, sottile ma reale, dello stare in silenzio e coltivare la consapevolezza, fa intravedere la bellezza e dignità di una vita che pone il sapere al primo posto, questa è veramente l’unica cosa concreta che si possa fare per il breve tratto in cui si hanno davanti questi allievi detenuti che, soggetti a trasferimenti ed espulsione, destinati spesso a rientrare in clandestinità, possano svanire da un momento all’altro. E poi, sia come sia.” (Inchiesta 144-145 aprile – settembre 2004).