La mia prima esperienza lavorativa è stata alla Maternità dell’ospedale di Bentivoglio e, per vari motivi, quegli anni sono stati prodighi di insegnamenti. Era un piccolo reparto, assistevamo circa seicento parti l’anno, un clima famigliare, sette ostetriche, di cui cinque anziane alcune ex condotte, salde come rocce. Io son stata il loro tormento, sempre a fare domande, a chiedere racconti della loro esperienza o a cercare conferme su come avevo agito in una certa situazione… La notte eravamo un’ostetrica e un’infermiera a seguire tutto il reparto, i bambini e i travagli: i medici erano reperibili. Grande responsabilità, ma anche autonomia e una certa libertà d’azione che consentiva di introdurre cambiamenti nelle pratiche assistenziali.
Ricordo ancora il primo giorno quel cartello sulla porta della Sala Parto: “A tutte le primipare fare episiotomia”. Impietrita, ma col cuore che andava a mille e un unico pensiero: non posso lavorare qui. Mi avevano insegnato che non c’era motivo di tagliare il perineo, tranne in casi eccezionali, le evidenze scientifiche lo confermavano. Ma… dovevo lavorare. Mi sarei rifiutata, avrei detto che non sapevo fare l’episiotomia, avrei fatto cadere le forbici, avrei portato le donne in Sala Parto all’ultimo momento e il bambino sarebbe nato prima dell’arrivo del ginecologo. Non è stato facile, essendo appena arrivata mi tenevano sotto osservazione per valutare le mie capacità e non sempre riuscivo ad evitare di farla: tremendo e che senso di colpa.
Nel frattempo parlavo con le colleghe e con i ginecologi più disponibili non solo di questo, ma anche dell’importanza delle posizioni libere in travaglio e parto, della sicurezza di seguire il benessere del bimbo ascoltando il battito cardiaco a intermittenza, di lasciare i neonati a contatto con le madri seguendole di più durante le poppate ed evitando di dare latte artificiale… e pian piano i cambiamenti si realizzavano. Stando sempre accanto a mamme e bambini imparavo da loro e scoprivo cose nuove. Ero convinta che un’accoglienza e un sostegno rispettosi ed empatici da parte nostra fossero un buon supporto per le donne, ma su quanto incidesse la loro motivazione non avevo mai riflettuto.
Venne un giorno una donna sulla quarantina per il controllo della gravidanza a termine. Mentre faceva il tracciato le chiesi come si sentiva, com’era andata la gravidanza, come stava il suo bambino. Tutto bene, era molto felice dell’arrivo tanto atteso del suo primo figlio, ma all’ultima visita il ginecologo le aveva annunciato che le avrebbe fatto il cesareo, perchè avendo un “ventre pendulo” (muscoli retti dell’addome lassi e divaricati dal peso dell’utero gravido) non avrebbe avuto un travaglio efficace. Era dispiaciuta, desiderava tanto partorire spontaneamente. Ne aveva parlato col marito, sperando nel suo sostegno, ma lui invece insisteva perché seguisse le indicazioni del dottore.
Si sentiva sola a prendere una decisione importante, che non coinvolgeva solo lei, ma anche il suo bambino e questo soprattutto la preoccupava. Mi limitai a spiegarle che c’era un solo modo per verificare se il suo utero sarebbe stato in grado di produrre contrazioni efficaci: aspettare che il travaglio iniziasse. Che non doveva stare in pensiero per il bambino: o il travaglio procedeva o si sarebbe intervenuti col taglio cesareo, senza problemi per il piccolo, nessuna emergenza. Il suo viso si illuminò, mi ringraziò per averle spiegato la situazione, ora aveva capito ed era tranquilla. Dopo un paio di settimane entrando in una stanza ho visto una mamma che allungando un braccio mi salutava con un gran sorriso e mentre mi avvicinavo diceva: “Paola, ho partorito questa notte, ce l’ho fatta!!!”. Era arrivata in ospedale praticamente a dilatazione completa e dopo un’ ora il bimbo era nato. Abbracciandomi mi ringraziava, senza le mie spiegazioni non avrebbe avuto il coraggio di rifiutare il taglio cesareo. Ma io sentivo chiaramente, attraverso il suo entusiasmo, la sua energia e che, al di là del mio intervento, era stata la sua forte motivazione a vivere l’esperienza del parto e a far nascere il suo bimbo normalmente, a darle la determinazione per riuscirci.
Da allora non ho mai dimenticato la luce negli occhi di quella mamma e ogni volta che c’erano delle difficoltà in gravidanza o in travaglio per le quali si prospettava un taglio cesareo chiedevo: “Ma tu cosa desideri?” Se non c’erano titubanze, ma una richiesta d’aiuto e la disponibilità a fare il possibile per un parto spontaneo, allora sapevo quasi per certo che tutto sarebbe andato a buon fine. La situazione più frequente erano i travagli lunghi. Ci sono stati anni in cui sembrava che le donne dovessero essere delle macchine: i prodromi non dovevano durare più di tot ore e così il periodo dilatante e l’espulsivo e il secondamento, altrimenti arrivava un ginecologo con la fatidica frase: “Adesso basta, abbiamo aspettato anche troppo, si va in sala (Sala Operatoria).” Dalla reazione della donna capivo se era esausta ed accettava con sollievo di affrontare l’intervento o se mi stava chiedendo aiuto per evitarlo. In questo caso la risposta era: “Dottore, ci dia due ore, se non sarà nato andremo in sala.” E di solito i bambini nascevano, a volte ci trovavamo già in sala operatoria che la donna iniziava a spingere… facevamo dietro front per tornare in reparto.
Anche più avanti, quando lavoravo come libera professionista, sono capitate situazioni simili. Ad esempio donne che avevano fatto una PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) mi chiedevano di partorire spontaneamente, evento raro in quanto per questi bambini definiti “preziosi” dagli esperti, il taglio cesareo era considerato più sicuro. Erano gravide che già avevano affrontato anni di medicalizzazione: controlli, prelievi,esami invasivi, stimolazioni ormonali, fecondazioni non andate a buon fine e che a quel punto, avendo avuto una gravidanza senza problemi desideravano profondamente affrontare il travaglio e la nascita del loro bambino nel modo più normale possibile. Non potevo che assecondare le loro legittime richieste. Sono stati tutti travagli sereni, veloci, senza alcuna difficoltà con grande soddisfazione dei genitori e un’accoglienza del bambino intima e colma di gratitudine.
Altra occasione fu quando si iniziò ad assistere le donne precedentemente cesarizzate con il cosiddetto “parto di prova”, termine peraltro poco incoraggiante… Ma le statistiche erano confortanti, circa il 70% di successo, la maggior parte di queste mamme nella precedente gravidanza avevano avuto un bimbo in presentazione podalica. Il vero problema era che le donne seguite privatamente non erano state informate di questa opportunità per cui quando arrivavano in ospedale per i controlli della gravidanza a termine restavano comprensibilmente titubanti all’idea di poter partorire normalmente… Anche noi ostetriche assistevamo queste mamme a casa per il travaglio e in ospedale per il parto e sono sempre state ottime esperienze. Una in particolare mi è rimasta impressa, perché è il classico esempio del potere della motivazione.
Al primo incontro del corso di accompagnamento alla nascita chiedevo alle mamme la loro esperienza di gravidanza e le loro aspettative per il parto. Una di loro disse che frequentava il corso solo per condividere con altre future mamme, perché il primo figlio era podalico ed era nato con un taglio cesareo e per quello che aspettava sarebbe stato lo stesso. Le chiesi da chi fosse seguita, rispose che era di Ancona e l’assisteva il suo ginecologo. Le aveva proposto col primo figlio tecniche o rivolgimento manuale per provare a far mettere il bimbo in posizione cefalica? No, era stupita, non capiva cosa le volessi dire… Spiegai di cosa si trattava e comincio ad alterarsi, ma perché non le aveva detto niente? Quando poi aggiunsi che non era affatto necessario ripetere l’intervento, sbalordita, ma chiaramente interessata pareva non star più nella pelle dalla gioia e le altre donne a congratularsi e sostenerla per la bella notizia. La seguii per il resto della gravidanza e restammo a casa per il travaglio che fu davvero veloce dopo che si immerse nella vasca… dovevamo sbrigarci. Ma usciti dal portone trovammo la strada bloccata da un’ ambulanza: senso unico, due file di macchine parcheggiate ai lati, non potevamo aspettare. Chiesi all’infermiere che era alla guida, se la loro non era un’emergenza, di lasciarci passare: stava per nascere un bambino (sapevo che erano parole magiche!). In Maternità ci aspettavano già in sala parto, aiutammo la donna a sistemarsi semiseduta sul lettino, spingeva, la testina riempiva il perineo fino ad essere incoronata, ma poi per parecchie contrazioni non procedeva più, non si disimpegnava. Io e l’ostetrica che l’assisteva ci guardavamo tranquille come a dirci “adesso nasce”, ma niente. Il silenzio fu interrotto dalla ginecologa che le disse: “Adesso basta, alla prossima (contrazione) taglia!”. La donna spalancò gli occhi, strinse forte con le mani le maniglie ai lati del lettino, si sollevò con la schiena per raccogliere tutte le forze che aveva e disse “Che fai? Me voi taia’? Eh no, a me m’ hanno già taiata ‘na volta!!!” e la spinta fu così potente che il bambino uscì tutto d’un botto, tutto in una volta… l’ostetrica non lo prese, ma lo “parò” come un portiere: risata generale un po’ di sollievo un po’ per l’acrobazia dell’ostetrica e poi i complimenti alla mamma che, con la sua determinazione, era riuscita a mantenere la sua integrità.
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