Quando parliamo di compassione buddhista dovremmo intendere letteralmente “condivisione dello stesso patire”. Sarebbe un atto moralmente elevatissimo, se ne fossimo capaci, ma possiamo noi disporne a volontà? Possiamo noi disporre liberamente della nostra volontà? È un tema già affrontato su queste pagine, ed è sicuramente un tema cruciale per l’immagine che l’Occidentale ha di sé. Io sostengo che non siamo liberi e gli argomenti sono semplici:
a. Nessuno ha scelto di esistere. Ne segue che, essendo noi “gettati”, senza responsabilità, in questo gioco (il Samsara degli orientali) non si vedano gli estremi per una qualsiasi libertà. Siamo in una prigione. Che qualcuno addirittura s’innamori della prigione non fa che rendere più assurdo il tutto.
b. Esistendo, nessuno può scegliere come nascere, se bianco, giallo, nero o rosso, se maschio, femmina o di sesso misto, se in famiglia ricca o povera, colta o umile, se in contesto cristiano, mussulmano, animista o indù. Nessuno sceglie il proprio corredo genetico e neppure quello dei suoi educatori…
c. Se ci soffermiamo ad osservare il flusso della nostra vita interiore ci possiamo accorgere che non possiamo prevedere neppure il prossimo pensiero o emozione. Nessuno di noi sa con certezza cosa penserà o sentirà tra un minuto. Né cosa farà. Credo che nessuno se la senta di contestare l’esistenza e l’azione dell’inconscio, scoperto, in Occidente, da Freud e ormai unanimamente accettato come fattore costantemente agente.
Controbatto due repliche che sorgono inevitabilmente.
“Ma se non sono libero, non ho nessuna responsabilità. Allora domani vado a rapinare una banca!”
Risposta: ciò che dici equivale a: se non sono libero, allora sono libero di… Invece se non sei libero, non sei neppure libero di rapinare una banca. La vita farà di te come essa vorrà.
“Ma perché allora tutte le grandi tradizioni religiose impartiscono precetti e comandamenti morali se non abbiamo libertà di scegliere?”
Risposta: è altresì vero che in tutte le tradizioni sono presenti testimonianze anche nel senso che Dio è artefice di tutto, anche dei nostri sentimenti. In ogni caso mi pare giusto dare indicazioni di comportamento, il che equivale ad educare. Noi sappiamo spesso riconoscere cosa sarebbe meglio fare, anche se qualcosa poi ci nega la forza per seguirlo. Ad esempio, la consapevolezza è meglio che l’ottusità; lo dimostra il fatto che anche se mi si volesse contraddire, lo si dovrebbe fare necessariamente dopo una consapevole riflessione. Ma la fenomenologia del caso singolo (proprio il mio e il tuo!) dimostra l’impossibilità di disporre liberamente della nostra consapevolezza.
Se diamo un’occhiata alla Storia, forse ce ne convinceremo anche di più.
Concordo che il discorso appaia in certi punti contraddittorio, ma lo è necessariamente data la natura del nostro linguaggio; se però approfondite guardandovi dentro spassionatamente, vedrete che non ho torto.
A me pare che il sentimento di compassione nasca proprio dalla presa di coscienza che nulla dipende da noi (anche se i modi e i tempi di questa presa di coscienza non dipendono neppure essi da noi). Se, e anche che accada non dipende da noi, vedremo che “quando voglio non sono libero di volere ciò che voglio; ma mi accade di volere e sentire secondo forze che mi trascendono” allora forse (e non dipende dalla mia volontà) crescerà un sentimento di tenerezza, simile a quello che si prova per un bambino o per una persona in seria difficoltà, anche verso il prossimo generico, oltre che per noi stessi.
Potremmo chiamare tutto questo l’etica della non libertà o karuna, compassione.
Buddha ci sveglia, attraverso l’analisi della totale dipendenza di ogni aspetto dell’esistenza da tutti gli altri, alla realtà nuda e cruda. Il fatto che la verità non ci piaccia non la smentisce, anzi: prova che non siamo neppure liberi di accettare le cose come stanno.
In Tibetano non esiste la parola “Buddhismo”, ma ciò che noi intendiamo con essa viene chiamato “le cose come stanno”.
È curioso come l’accettazione della mancanza di libero arbitrio rappresenti per noi occidentali un tabù – forse per il nostro individualismo, o forse per il retaggio cristiano per cui ci si gioca tutto in una vita, o per l’assenza della visione karmica o di una disciplina di visione interiore come gli yoga –, mentre per gli Orientali (ho parlato con Giapponesi, Coreani e Indiani) è spesso scontata al punto da non costituire un problema filosofico.