Io e Niente
di Kitty Crowther
2010, Almayer Edizioni

 

Un libro strano. Questo il primo pensiero che attraversa la mente dopo aver chiuso Io e Niente, pubblicato da Almayer Edizioni all’interno di una collana particolare: “EduGatto – Piccole storie per rimpicciolire i problemi”, serie volta ad agevolare, attraverso la lettura, l’instaurarsi di un dialogo fra adulti e bambini che possa “far[li] crescere insieme […], specialmente quando crescere può essere faticoso”. E il lutto di uno dei genitori rappresenta sicuramente una ‘fatica’ alla quale comprensibilmente né il bambino né l’adulto che gli sta accanto si trovano preparati; per questo vi presentiamo con entusiasmo l’opera di Kitty Crowther, da lei scritta e illustrata, che sa affrontare tale drammatico evento con saggezza e poesia, e offre spunti di profonda riflessione agli adulti che li sappiano accogliere.

Lilà ha da poco perso la sua mamma; il suo papà, affranto dal lutto, si chiude in se stesso (fra l’altro decide di non piantare più, nel proprio giardino, i papaveri azzurri dell’Himalaya, fiori preferiti dalla moglie). Fortunatamente Lilà ha trovato un amico: Niente. Alla bambina piace molto stare in compagnia di Niente, anche se accanto a lei, quando stanno insieme, non c’è proprio niente… Inizialmente, Niente non è rappresentato; quasi subito, però, prende le sembianze di un pupazzo informe, sempre di buonumore, che allo sconforto della bimba risponde con delicata e costruttiva positività: “«Non c’è niente da fare» sospira Lilà. «Ti sbagli. Dal niente si può fare tutto» dice Niente. «Metto questo piccolo seme in un buco nella terra, verso un po’ d’acqua ed ecco fatto… un nuovo albero»”. Il bizzarro amico di Lilà sembra suggerire che dall’assenza, dalla mancanza, qualcosa di prezioso può nascere: il messaggio implicito (contrario alla reazione del padre) è quello di non respingere, di non negare la sofferenza, il ‘niente’ con cui il lutto ci costringe a fare i conti, perché da quel ‘niente’ emerge una diversa (auto)consapevolezza, una dimensione che, in questo bel libro, ha il colore dei fiori tanto amati dalla madre della protagonista.

“Qui non c’è niente. Anzi, ci sono io. Niente e io. Niente si chiama Niente. Vive con me, intorno a me”; il ‘niente’ – o meglio, l’assenza che improvvisamente Lilà si trova a dover fronteggiare – evidenzia una presenza che prima non era scontata: proprio quella della piccola. Questo aspetto non va sottovalutato, perché si trova nel punto esatto in cui l’aspetto esistenziale dell’evento ‘morte’ e quello psicologico si fondono, come risulta evidente nel punto di svolta della narrazione, allorché il legame fra Niente e l’esserci di Lilà emerge nuovamente; quando la piccola, sentendosi abbandonata anche dal padre, rifiuta i consigli e la vicinanza del proprio amico inesistente, questi scompare davvero, e Lilà comincia a considerare se stessa “meno di niente”: “Il tempo passa e papà ha sempre tanti pensieri. Niente non può fare niente per me. Perché non sono andata in cielo con la mamma? […] Niente mi dice di piantare i semi. «Vattene via Niente, non capisci mai niente!». I giorni seguenti, Niente non c’è più. Ecco quanto valgo: meno di niente” [corsivo nostro]. E’ questo il momento in cui l’ambito esistenziale e quello psicologico si confondono: alla domanda esistenziale sul perché del lutto, Lilà non può che rispondere con un come psicologico che è rabbia, rifiuto e svilimento di se stessa in quanto persona. Come a dire: al cospetto di questa terribile mancanza, che non può risolversi (fatto esistenziale), creo davvero il niente attorno a me (reazione psicologica), e questa mia presenza così ingombrante diventa ai miei stessi occhi definitivamente ‘inutile’ (visione esistenziale in relazione biunivoca con la psiche). Non è questo un meccanismo diffuso anche fra gli adulti, e in seguito a declinazioni del ‘niente’ anche meno traumatiche di un lutto?

Il dolore di Lilà avrebbe forse la meglio, se un pettazzurro (legato da una leggenda al fiore che il vedovo non vuole più piantare) non comparisse nel giardino vuoto: ispirata dalla visione dell’uccellino, la bambina semina i fiori il giorno stesso. E allora… “Una notte, scendo in giardino. In mezzo al giardino trovo un arbusto bellissimo. Un lillà! Chiamo: «Niente!». Questa può essere soltanto opera sua”. In mezzo ai tantissimi fiori azzurri piantati dalla protagonista, Niente (la parte ‘creatrice’ della mancanza) ha fatto nascere una pianta nuova, metaforicamente circondata dalla mancanza/presenza della madre scomparsa. A questo punto può avvenire il riavvicinamento di Lilà con il padre, ‘rinsavito’ dalla scoperta del giardino azzurro, metafora di un rapporto davvero lecito con il niente.

La conclusione, dopo l’elaborazione del lutto da parte di padre e figlia, è davvero interessante: “La nostra primavera è stata bellissima. Papà è ridiventato il mio papà. Un giorno mi ha dato una scatola e mi ha detto: «E’ la tua mamma ad averlo fatto per te prima di andarsene, ma non ho mai avuto il coraggio di dartelo». Ecco che cosa ci ho trovato dentro”. Nella scatola, un pupazzo in tutto uguale al Niente immaginato da Lilà. Ma il fatto che la scatola contenga ‘niente’, ora, assume un significato tutt’altro che banale.