James Heisig, insigne studioso e sacerdote verbita, è uno dei massimi esperti in materia di dialogo interreligioso. Vive e lavora da 28 anni in Giappone, a Nagoya, dove è professore presso la Facoltà di Arti e Lettere dell’Università di Nanzan e ricercatore in Religione e Cultura presso l’Istituto di Studi Religiosi e Culturali di Nanzan.
È autore, curatore e traduttore di decine di testi tra i quali ricordiamo: El cuento detrás del cuento: Un ensayo sobre psique y mito, Imago Dei: A Study of C. G. Jung’s Psychology of Religion, e Filósofos de la nada, in via di pubblicazione nella traduzione italiana “Filosofi del nulla” per i tipi dell’Epos, nella collana di Filosofia Orientale diretta da Carlo Saviani e dallo stesso Heisig.
Per cominciare vorrei che il pubblico italiano la conoscesse un po’ più da vicino. Ci racconti un po’ di lei: dove è nato? Dove è cresciuto? Quali sono gli avvenimenti centrali della sua formazione giovanile?
Sono nato a Boston, negli Stati Uniti, e cresciuto in vari luoghi, principalmente nel Mid-West dell’America fino all’età di 18 anni.
Quando a 16 anni sono entrato all’università, mi sentivo un po’ perso e senza un sicuro orientamento nella vita. Per questa ragione ho iniziato a studiare spagnolo per poter insegnare agli analfabeti del Messico. Dopo aver ricevuto il diploma di “Alfebetización del Metodo Laubach” sono stato mandato in un piccolo paese delle montagne al nord di Città di Messico (San Juan de Timilpán) per insegnare a leggere a coloro che erano privi di istruzione. Durante quel soggiorno ho avuto l’occasione di poter conoscere Ivan Illich e il suo centro in Tepotzlàn. Lui mi fece riflettere più profondamente sui miei motivi e le vere necessità della gente con cui viveva. Smisi d’insegnare e cominciai a imparare la vita quotidiana dei paesani… Da quel momento la mia vita è cambiata.
Non appena ritornato negli Stati Uniti entrai nel noviziato della congregazione del Verbo Divino. Un po’ impaziente rispetto al sistema educativo del seminario, decisi di iscrivermi e seguire contemporaneamente due corsi di Master (filosofia all’Università di Loyola in Chicago, teologia all’Università di Notre Dame, Indiana). Anche se alla fine del terzo anno del seminario maggiore mi ero laureato in entrambi i corsi, ero però ancora troppo giovane per essere ordinato sacerdote. Decisi quindi di insegnare filosofia della religione in un’università in Iowa fino ai 25 anni, quando poi fu ordinato.
Qual è stato il motivo che l’ha spinta verso la religione e la Chiesa Cattolica in particolare?
Dopo l’ordinazione sacerdotale sono andato a Cambridge (Inghilterra) per fare il dottorato. Durante gli anni trascorsi in Europa ho vissuto in vari paesi (Spagna, Italia, Grecia, Austria, Svizzera) dove ho proseguito lo studio dei miti e delle favole, specialmente nel loro aspetto religioso. Per la prima volta ho imparato a riconoscere l’importanza della vita simbolica, che ha perfino precedenza sull’interpretazione letterale delle dottrine della religione cattolica nella quale sono stato educato. Ottenuto il dottorato a Cambridge, tornai agli USA dove fui invitato ad insegnare in due università prestigiose. Dopo tutto ciò che avevo visto della vita accademica, decisi di rinunciare a seguirla come carriera normale per perseguirla invece in un’altra maniera. Così per qualche anno insegnavo un semestre a Chicago e un semestre in Messico, in vari istituti superiori universitari (graduate schools). Nelle mie lezioni incentravo l’attenzione sui miti e sulle favole pre-cristiane o non-cristiane in cerca della dimensione religiosa dell’umano che trascende le differenze fra le religioni stabilite. Nel 1976 sono stato invitato all’isola di Mancarrón nell’arcipelago di Solentiname, Nicaragua, a vivere nella comunità di poeti ed artisti che si era raccolta intorno a Ernesto Cardenal. Lì ho conosciuto delle persone che pochi anni dopo avrebbero formato il nuovo governo Sandinista. Quell’esperienza ha riaffermato in me l’idea di una comprensione della religione più ampia, più variegata, più identificata con i desideri degli strati poveri o dimenticati della società.
Quindi lei vive la religione in un modo abbastanza personale, certamente diverso da quello in cui la vive un sacerdote italiano. Ma cosa è per lei la religione?
Il mero fatto di non aver mai lavorato in una parrocchia e, come sacerdote, di non aver vissuto in comunità religiose tradizionali mi ha reso difficile identificare la religione —non esclusa quella religione cattolica– principalmente con la gerarchia e le autorità storiche. Quest’ultime sono sempre state per me, come per tanti altri nella storia del cristianesimo, al servizio di una dimensione dell’umanità che in fondo non si sente intrappolata dalle barriere tradizionali che vengono erette tra religione e religione. Perciò il mio interesse è stato quello di esplorare questa dimensione più ampia nell’esperienza umana che sempre richiede simboli, miti, riti e dottrine della religione per poter rendersi visibile. Da questo punto di vista mi interessava capire la religione, non soltanto tramite le tradizioni istituzionalizzate, ma anche per mezzo di quelle nascoste e sotterranee. Soltanto in questa maniera uno può avere una idea “equilibrata” delle religioni, siano esse identificate con le grandi religioni mondiali o con le piccole religioni locali.
Il suo è un saggio equilibrio, piuttosto lontano però dal panorama contemporaneo. Siamo tristemente aggiornati su quali tensioni, guerre e violenze di ogni genere, si consumino oggi in nome del conflitto interreligioso o, peggio, agitandone e sfruttandone lo spettro per motivi di puro interesse. In un tale contesto conflittuale è difficile condividere e avvicinarsi alla dimensione trans-religiosa che lei stava indicando. Inoltre il conflitto pare addirittura enfatizzato dalle tendenze globalizzanti: maggiori sono le occasioni di contatto interpersonale o mediatico maggiore la difficoltà di dialogo tra le culture e le religioni. Sembra che, da questa complessa e difficile situazione, emerga un generale e radicale disorientamento sia in campo religioso che culturale. Mancano i riferimenti e a volte l’unico modo per ritrovarsi attorno ad una appartenenza rimane quello di contrapporsi frontalmente con l’altro e la sua appartenenza considerandola estranea. Anche la Chiesa qui in Italia ha dato spazio a questo tipo di atteggiamento poco aperto alle altre confessioni, soprattutto quando queste trovano dei rappresentanti convinti negli immigrati che popolano le città europee. Ecco, come vede lei il ruolo della Chiesa Cattolica in questo contesto?
Nel suo tentativo di conquistare il mondo per Cristo negli ultimi 250 anni la Chiesa ha perso la destinazione, ha perso di vista la grande sfida del dialogo con le altre religioni e in primo luogo la grande sfida del dialogo con il buddhismo. E dico che la sfida è grande non solo perché le due religioni sono molto diverse ma anche perché ambedue sono nella stessa crisi istituzionale e di autoconoscenza.
Osserviamo però che malgrado le istituzioni del cristianesimo e del buddismo è fiorito il dialogo e questo è avvenuto grazie ad una generazione di giovani dal cuore sincero che vanno cercando qualcosa di chiesa in chiesa, di tempio in tempio.
C’è quindi un disorientamento nella missione cristiana. Abbiamo bisogno di un riorientamento che recuperi l’originaria missione che Cristo iniziò. Una visione aperta del cristianesimo parte da Cristo che ci ha invitato alla condivisione dei suoi insegnamenti con tutto il mondo e a stimolare le persone a liberarsi dalle azioni e dai pensieri convenzionali.
Metanoia, questo è l’insegnamento, cambiare il proprio pensiero. Gli strumenti della missione cristiana invece sono stati sinora: più membri e più istituzioni, il che ha significato una galassia di diversi insegnamenti e istituzioni che adesso dovremmo cercare di mettere assieme, di far convivere.
Sono d’accordo. Il mondo è essenzialmente multi-religioso, non possiamo negarlo e quindi dobbiamo imparare a vivere assieme. La domanda è: quali sono le possibilità, i modi di vivere assieme?
In primo luogo si tratta di fare la pace tra le religioni che sono state nemiche finora. Poi ci sono diversi modelli di pace, di possibilità di dialogo che possiamo percorrere.
C’è un modello di Pax Romana: si vis pacem, para bellum. Si tratta di un patto di non aggressione, un’occasione per il riarmo. Questo è suppergiù l’atteggiamento ufficiale della Chiesa Vaticana che sostiene che il dialogo con le religioni è un cessare le ostilità. Lo vediamo dai documenti e dalle grandi occasioni di dialogo come Assisi: se invitiamo i cinesi non possiamo invitare i tibetani, perché è un invito politico, e anche le orazioni che diciamo alla fine non offendono nessuno, non ci aggrediamo.
Non dico che non sia una cosa buona, è molto meglio della guerra, ma guardare a ciò che c’è in comune e non entrare nelle questioni dogmatiche non è un vero dialogo.
C’è un modello di Pax Ellenica che consiste in un’armonia di contrari, di opposti – ma è un ‘armonia abbastanza statica, non c’è guerra, c’è pace ma non cambia niente. Ognuno ha il suo posto nella società, non offende nessuno ma non si cambia niente- è molto meglio della pax romana ma non è completa. In questo modello di pace ci sono filosofi che cercano di fare una super-religione che nasce dalle coincidenze di tutte le dottrine per farne una universale. John Hick http://www.johnhick.org.uk/ ne è un ottimo esempio. Questo però presuppone che il centro della religione sia la dottrina, ma nel buddismo la dottrina è una cosa periferica. Se facciamo questo super credo stiamo andando troppo nel senso della dottrina cattolica; e poi sarebbe un po’ come fare un biglietto da 1000 euro, troppo grande. Cosa te ne fai se vuoi comprare un gelato? Hai bisogno di un po’ di cambio, la religione si trova nel cambio, nello scambio quotidiano. La Pax Ellenica o la super-religione non sono una religione viva, che nasce nel quotidiano, ma sui libri e nell’accademia.
In ultimo c’è la Pax Ebraica: Shalom. Un’armonia di opposti dinamica, sempre in lotta. E’ una lotta continua tra religioni per ricevere la benedizione l’una dall’altra, un’unione di città con tutti i porti aperti ma anche in lotta continua, una coincidenza di opposti.
Ecco, in che cosa consiste questa pace ebraica secondo lei? Cos’è il vero dialogo?
Prima di rispondere a questa domanda dovrei però esplicitare la mia prospettiva sul dialogo interreligioso che posso riassumere in tre punti principali.
In primo luogo devo sottolineare che ho vissuto per 28 anni in una torre d’avorio, guardo alla finestra e scrivo, non frequento le chiese e i templi, sono un accademico. Nella nostra comunità abbiamo uno spazio per la pratica, la meditazione che usano varie religioni, ma questa è per me un fatto privato che non vivo pubblicamente. Allo stesso tempo io vivo in un paese buddista, con le sue pratiche religiose che svolge quotidianamente .
In secondo luogo, io non credo che tutte le religioni siano uguali, lo sono solo nella loro autopsia ma non è quella la religione, la religione è qualcosa di vivo, vivente. Sarebbe un po’ come aprire un caleidoscopio e scoprire che all’interno è fatto di specchietti e di altri componenti, tutti uguali, come uguali sono gli elementi di ogni religione. Ma la religione non è l’insieme degli specchi del caleidoscopio, piuttosto è l’immagine che vi si compone, di tradizione in tradizione diversa e spesso contrapposta.
Terzo punto: penso che si possa tradurre ogni elemento del cristianesimo in un insegnamento del buddismo e viceversa, perdendo sì qualcosa ma non l’essenziale, quello rimane. E questa traduzione è molto importante, questo è il lavoro del dialogo di fare traduzione. E perché è importante? Non vuol dire che dobbiamo produrre enciclopedie e dizionari per tradurre parola per parola una religione nell’altra. Piuttosto dobbiamo produrre dei traduttori perché nella traduzione si sta facendo il dialogo. Non si fa il dialogo per avere risultati ma si fa il dialogo per fare il dialogo. È come una liturgia, e come la liturgia dell’amore: non si fa l’amore per i risultati, si fa l’amore per fare l’amore. Così il dialogo, non si fa il dialogo per i risultati ma il dialogo non ha un fine, ha il fine di non avere fini. Produrre traduttori, questo è il motivo del dialogo
In ultimo sono convinto che se conosci solo una religione non sai cosa è la religione. Sei come un pesce che non ha la minima idea di cosa è l’acqua. Se conosci solo una lingua non sai cosa è linguaggio, non ne conosci i limiti ed è proprio nei limiti che si fa il dialogo.
Quindi, mi pare di capire che la sua prospettiva vuole radicalmente spostare l’asse dall’appartenenza confessionale per riportarlo alla dimensione del dialogo che così si afferma come l’unica reale comprensione della propria esigenza religiosa.
Infatti, è così.
Ma come si conciliano gli opposti dell’appartenenza, del dogma con la dimensione trans-religiosa? Come pensare un atteggiamento dialogico che contempli il particolare e il generale, che sia insomma il vero atteggiamento del dialogo?
Credo che si possa spiegare questo secondo il Kitagawa Ryu che è una corrente della Cerimonia del Tè. In questa corrente c’è un testo che dice come si diventa maestro della Cerimonia del Tè. Ci sono 3 stagioni da passare per diventare maestro. [N.d.R. Scrive i caratteri giapponesi per le 3 stagioni]
La prima stagione, il chu, o mamoru, vuol dire conservare, conservare la forma della Cerimonia del Tè – cioè il maestro ti dice di mettere 3 gocce e non 4, che l’acqua va a 44°C e non 43°C ecc. Quanto tempo ci vuole di obbedienza perfetta, solamente facendo quello che il maestro ti dice per poter arrivare a conservare la forma? 10 anni! E dopo 10 anni non puoi dire di aver capito la forma, ma piuttosto la sei diventata e se un domani il maestro morisse tu potresti conservare la forma perché tu la sei diventata. Come sapete in oriente la forma è più importante che la materia, mentre per noi occidentali la materia è l’essenziale e la forma cambia mentre l’essenza resta uguale. Ma per i giapponesi non è così. La forma è la cosa più importante perché non c’è essenza, c’è la vacuità, e senza la forma non si può vedere la vacuità.
La seconda stagione è il ri – che vuol dire allontanarsi dalla forma, non vuol dire fare la Cerimonia del Tè comparata, studiare la Cerimonia o allontanarsi accademicamente o anche dare un’altra forma alla cerimonia. Vuol dire solo fare un passo indietro, allontanarsi di un solo passo per poter vederla da fuori, perché se tu sei la forma la vedi da dentro, ma invece in questa stagione impari a vederla da fuori. E quanto tempo ci vuole? Ancora 10 anni! È molto difficile, perché tu sei la forma, è come allontanarsi dalla propria identità, è il fine di tutta la meditazione, vedersi da fuori è molto difficile.
Poi arriviamo alla terza stagione, il ha, il iaburu: distruggere la forma.
Questo non vuol dire rompere la forma come fosse una tazza. Questo vuol dire cambiare solamente un dettaglio, invece di 3 gocce d’acqua 5, l’angolo da 45° a 43°, una piccola cosa, un dettaglio che potrebbe cambiare la cerimonia per sempre. E qual è il dettaglio che potrebbe cambiare tutto? Per saperlo ci vogliono ancora 10 anni e poi sei maestro, perché sei la forma, non sei la forma, hai cambiato la forma.
Io credo che il dialogo si trovi qui,[N.d.R. indica la seconda stagione sul foglio].
Dice San Giovanni che bisogna stare nel mondo senza essere del mondo, io direi che dobbiamo stare nella religione senza essere della religione. Io sono stato educato da cristiano e nel mamoru, nel conservare la forma, io sono cristiano, ma nel dialogo io non sto nel cristianesimo, sto un passo indietro fuori dal cristianesimo, in un luogo che non appartiene a nessuna religione, in cui non siamo i rappresentanti di diverse religioni ma siamo chi siamo. Questo è il dialogo.
Molto interessante questo suo esempio. Ecco, vede, anche noi qui ad Asia stiamo cercando di intessere un dialogo tra la filosofia e la scienza occidentali e le sapienze orientali, individuando questo luogo che non appartiene a nessuna religione o cultura, nel dominio dell’esperienza in prima persona, nell’esperienza del ritrovarsi ad essere se stessi.
Ognuno di noi infatti, prima di essere questo o quello, è se stesso, si trova ad essere un “io”, al di là della propria identità personale, come semplice essere cosciente di esistere. Questa possibilità di scoprire l’autenticità della propria intima natura è un fatto centrale nella tradizione orientale e buddista in particolare, dove viene chiamato risveglio o illuminazione, ma in sostanza è quasi completamente estraneo alla tradizione occidentale cristiana, dove, ciò che si è affermato nel tempo, è un dogma, una professione di fede e una serie di principi validi a priori, universalmente, non più da verificare e vivere in un’esperienza in prima persona, da realizzare…
Sì, infatti…
Ecco, forse questo è un punto nodale nel dialogo tra diverse tradizioni, cosa si intenda con realizzare e come ciò che si realizza, si esperisce in prima persona, ricada nella nostra vita.
Si, la domanda è cosa ha a che fare questa esperienza con la nostra vita?
Si, cosa ha a che fare l’illuminazione con la vita e in che senso apre a una dimensione intersoggettiva e condivisibile per tutte le tradizioni?
Nella nostra tradizione, nel cristianesimo si dice condurre una vita, come se fosse un animale da addomesticare. San Giovanni dice di fare la verità, questa è la vita nella religione cristiana…
E quindi, quale è il peccato principale del cristianesimo? L’ipocrisia, fare una cosa e dirne e pensarne un’altra, credere una cosa e fare come non credessi. E chi è il gigante etico? La persona che dice “io non posso, non sono d’accordo”. Infatti in cosa consiste la salvezza? Pulire l’anima da ogni ipocrisia.
I principi etici, morali per un cristiano sono cose che trascendono spazio tempo e cultura, non c’è un’etica per un paese e un tempo e un’altra etica per un altro tempo e paese. Puoi credere e conoscere i principi e applicarli alla vita. E la realizzazione in che cosa consiste? Nel realizzare gli ideali nella vita, cambiare la vita come se fosse un oggetto di cui tu sei responsabile.
Nel buddismo è differente. Non è che io cambi la vita, io lascio che la vita cambi ed osservo.
Cos’è il peccato originale dell’oriente? Parlo non solo del buddismo qui ma di tutta l’oriente. Il peccato originale per l’orientale è l’ignoranza, avydia, non conoscere le cose come sono. E chi è il gigante etico in oriente? è quello che conserva, preserva l’armonia, perché quando c’è armonia c’è possibilità di un cambiamento, non che io devo cambiare la mia vita ma è un fatto comunitario, è per tutti, non è individuale.
E la salvezza? Tutti sanno che in oriente salvarsi è salvarsi da ogni idea di salvezza.
E la realizzazione in cosa consiste in oriente? Non è che io devo realizzare quello che conosco nella vita, condurla verso i principi che conosco. In senso buddista realizzare vuol dire riconoscere le cose e realizzare che allo stesso tempo le cose si riconoscono tramite me. Ad esempio, uno scienziato che guarda un atomo in un microscopio. In questa situazione c’è un soggetto, un oggetto, lo strumento che è un allargamento dei poteri dell’occhio. Realizzare la situazione in questo caso è riconoscere la relazione che trascende o distrugge la separazione di soggetto/oggetto, cioè perdere l’individualità.
Abbiamo tutti, non solo nella meditazione ma anche nella vita, questa esperienza.
Una volta sono andato a vedere una mostra di Monet dove un mio amico mi spiegava i vari aspetti della poetica di Monet ma ad un certo punto siamo arrivati davanti ad un quadro che non conoscevamo e in quel momento… ah… in quel momento si è capita la differenza tra non parlare e il silenzio! Non puoi più parlare o anche parlando la pittura ed io siamo uno, perché il soggetto/oggetto è stato trasceso…e puoi vedere che siamo tutti fratelli.
Le tradizioni che danno rilievo all’esperienza in prima persona hanno di solito una pratica con la quale avvicinarsi, educarsi a questa dimensione interiore. Lei ha una pratica individuale: meditazione, preghiera, liturgia?
Capire la vita religiosa principalmente in termini di pratiche religiose che sono identificate come specificamente religiose non mi sembra né sufficiente né la cosa più importante. Al contrario, queste pratiche ricevono la loro importanza e significato dal fatto di fungere da simboli che richiamano l’attenzione sulla profonda dimensione religiosa di ogni attività umana. Non è che uno è più religioso sedendosi in meditazione o inginocchiandosi in un tempio. L’atto religioso principale si trova in mezzo alle attività della vita quotidiana, e i simboli religiosi sono una celebrazione o riflessione di questo ambito d’attenzione.
Un’ultima domanda sul rapporto tra religione e scienza. Secondo lei l’atteggiamento religioso ha qualcosa da insegnare alla scienza?
San Ignazio ci insegna che bisogna pregare in ogni momento come se tutto dipendesse da Dio e lavorare allo stesso tempo come se tutto dipendesse da noi. Lo stesso paradosso si può applicare alla conoscenza scientifica e religiosa. Dobbiamo adoperare la ragione come se tutto il cosmo fosse razionale e abbandonare la ragione come se tutto il cosmo fosse un mistero che supera le nostre capacità. Non vedo la maniera di dividere la realtà in “oggetti” razionalizzabili e quelli che sono solamente credibili. Così come la scienza ha bisogno dell’assurdo per formulare le sue ipotesi, così la religione ha bisogno della ragione per confessare le sue dottrine. Finché non arriviamo a vivere questo paradosso non siamo fedeli alla nostra natura di enti coscienti.
Intervista a cura di Domenico Canzoniero