Dialogo con il pubblico del professor Sergio Givone in occasione di una Conferenza del Ciclo “Il sacro limite, come vivere la morte” tenutasi ad ASIA Modena nel 2010. Terza parte.
Il rapporto tra la morte e la tecnica
Domanda: è possibile che oggi la scienza possa sostenere un ruolo di salvatrice dalla percezione di non-senso che è insita nella morte?
Sergio Givone: Se ci chiediamo cos’ha da dire la scienza della morte, del nulla, qui la risposta deve essere assolutamente chiara, netta: la scienza non ha da dire nulla della morte. Intendiamoci, la scienza è la cosa più bella e più grande che gli uomini abbiano inventato, anzi che gli uomini siano capaci di questo è proprio la dimostrazione del fatto che la verità è una cosa loro. La natura è fatta per essere compresa dall’uomo e l’uomo la comprende. Questa è scienza. La natura e l’uomo sono fatti per essere compresi dall’uomo e l’uomo comprende se stesso e la natura e questo è faticoso, ci sono voluti millenni per capirlo: un cammino infinito, ma questo è la scienza è qui che nasce il pensiero filosofico di Parmenide, la trasparenza del logos della mente all’essere, la trasparenza dell’essere a natura, al logos: tutto nasce da lì. Questo fatto, il più grande, il più mirabile ciò che fa di noi davvero quello che siamo: magari dei disgraziati, però capaci di comprendere la natura. Questo fatto valeva per Parmenide nel senso della perfetta corrispondenza tra la mente dell’uomo, logos, e la struttura razionale dell’universo, cioè la sua comprensibilità. Vale per Parmenide così come vale per lo scienziato di oggi che scopre il DNA. Provate a chiedere allo scienziato più aggiornato e vi dirà: “Tutto il processo del Big-Bang che ha prodotto l’universo lo abbiamo fotografato; sappiamo che l’universo si è prodotto per espansione progressiva da un quantum infinitesimale di energia, quindi l’universo è questo quantum in espansione”. Ma se gli chiediamo: “E al di là dei confini dell’universo cosa c’è? Ci sarà il nulla?” Ecco rendiamoci conto che una domanda del genere a uno scienziato fa ridere, perché per lo scienziato esattamente come per Parmenide, è pensabile ciò che è calcolabile, ciò che si lascia calcolare. Di ciò che non si lascia calcolare, di ciò che è prima o al di là del quantum in espansione, lo scienziato non sa cosa dire, perché per lui non ha senso. Lo scienziato è quello che comprende la natura ma è anche quello che comprende tutti i processi che portano le creature viventi a morire per una malattia, o i processi che avvengono quando la vecchiaia (sia che io mi ammali o che io non mi ammali) mi porta ad un deperimento organico alla fine del quale c’è la morte. Gli scienziati, non i filosofi, da questo punto di vista ci possono aiutare a descrivere alla perfezione quello che accade e sempre più ce lo stanno dicendo. Anzi stiamo andando verso un mondo dove ce lo diranno alla nascita. Ma rispetto al nulla, rispetto alla morte in quanto domanda di senso, in quanto scrigno che contiene quella perla di verità di cui parlavo, la scienza non ha nulla da dirci. Non perché gli scienziati sono ignoranti ma perché il compito proprio della scienza è pensare ciò che è pensabile, calcolare ciò che è calcolabile. Occorre un altro sapere se vogliamo porre questa domanda sul nulla e sulla morte, piaccia o non piaccia. questo altro sapere sono le religioni e la filosofia. Le religioni danno un’ altra risposta, la filosofia ragiona come ho cercato di farvi vedere. Ma il nulla, la morte, il senso sono cosa della filosofia, non della scienza.
Domanda: Secondo lei perché c’è stata questa involuzione dell’educazione rispetto alla morte? Fino a qualche decennio fa i ragazzini erano abituati a vedere la morte: quella del nonno, della nonna, del parente. Adesso invece, come ha detto Lei prima, siamo molto lontani da questo, ci allontanano sempre di più da questo. Si muore nello spazio tecnico degli ospedali, nascosti.
Sergio Givone: Intanto ci sono dei fatti storici incontrovertibili: una volta si era più poveri e negli ospedali si andava a morire; quindi si cercava di non andarci, di restare a casa e la morte succedeva in casa. Ora, se la casa era il luogo non solo della vita ma anche della morte è chiaro che vita e morte erano strettamente intrecciate come non lo sono più oggi. Io che sono vecchio, tutte le esperienze di morte le ho vissute in casa, i miei nonni sono morti in casa e si sapeva, anche i bambini sapevano che il nonno stava per morire. Cosa ha determinato il cambiamento storico per cui una volta si moriva in casa e oggi non più? Dietro c’è un cambiamento della idea di morte, e un cambiamento della idea di ospedale, che da luogo di senso è diventato luogo di rimozione. Sapete come erano disposti i letti nei primi ospedali? Un ospedale dove ci sia ancora la disposizione dei letti e la conformazione del 1300 è quello di Beaune nella Cote d’or vicino a Dijone, in Borgogna. In questa città c’è un ospedale che si è conservato senza soluzione di continuità dal 1300 fino ad oggi. L’ospedale non era solo il posto dove si andava a morire, ci si andava a salvarsi l’anima. Tutti i letti per intenderci erano messi a spina di pesce in modo che gli sguardi di tutti i malati convergessero sull’altare. In quest’unica stanza enorme, quella che poi sarebbe diventata la famosa corsia dell’ospedale, tutti i malati venivano posti nei letti disposti a lisca di pesce in modo che gli occhi e gli sguardi di tutti i malati convergessero sull’altare e sulla croce. E’ chiaro che così la morte veniva immediatamente messa in rapporto con una domanda sul senso della vita. Con una domanda del tipo “Sto per morire, e allora, che sarà di me?” Questo era davvero l’ospedale. Successivamente dopo la grande peste del 1400 e la peste del 1600 gli ospedali sono diventati dei lazzaretti, cioè dei luoghi in cui si andava a morire e basta. Sparisce quel crocefisso, quella convergenza dei letti, ed è a seguito di questa desacralizzazione dell’ospedale che l’ospedale viene rifiutato. Nel 1700 e nel 1800 solo i poveri vanno in ospedale. Mio nonno aveva una idea così dell’ospedale, non ha mai voluto metterci piede. Allora la morte è presente in casa, in mezzo a noi. In casa si intrecciava con il fatto che, proprio perché la morte faceva parte della vita, era il momento di una interrogazione sulla vita, sostenuto dalla religione. Così la morte viene rimossa, sottratta allo sguardo e rinchiusa negli ospedali. La morte perde il suo teatro: la casa, il prete , l’estrema unzione, tutti i famigliari intorno, il funerale. Pensate all’Entierro del Conte, una delle più grandi scenografie teatrali barocche, o all’ospedale con tutti i malati rivolti all’altare di cui abbiamo parlato. Il fatto che la morte avesse un teatro in cui essere presente, aiutava a porre queste domande sul senso. Nel momento in cui la morte si fa assente anche le domande vengono a meno, perché scattano a quel punto degli automatismi comprensibilissimi, quelli che ho detto prima: non ne vogliamo sapere perché fa paura. Fa paura sempre, sia che diciamo che la morte è qualcosa di orrendo, sia che diciamo che la morte è pur sempre la condizione perché noi viviamo il “chiaro” di noi stessi, di chi siamo e di che cosa ci aspetta: l’aldilà, oppure ciò che ci aspetta qui e ora, “nunc et in hora mortis nostrae“, perché è sempre un questione di un istante.
Domanda: Che rapporto c’è tra la morte e la tecnica, tra la morte del corpo e la tecnica del corpo nel mondo di oggi?
Sergio Givone: In poche parole, si può accennare a quello che salta agli occhi di tutti, il fatto che la tecnica trasformi sempre di più il corpo in una macchina. Si intende il corpo umano come una macchina con dentro una persona, una macchina di cui quasi tutto può essere sostituito. Non ancora il cervello – sembra che per il momento il cervello sia la chiave di tutto. Quello che è certo è che la tecnica modifica il nostro rapporto con noi stessi, con il nostro corpo. Ogni qual volta viene sostituito un organo accade lo shock, l’intolleranza, non soltanto l’ intolleranza biologica ma anche l’intolleranza psicologica. Alcuni di questi rifiuti sono molto violenti: sapete che si tollera per esempio il trapianto di fegato, di cuore, di rene, ma non si tollera il trapianto di una mano. Il fegato o il rene e il cuore sono più importanti di una mano, ma non si vedono. Mentre la mano l’hai sempre davanti. E di fatto gli unici trapianti di mano che sono riusciti tecnicamente hanno poi prodotto dei disastri psicologici, tanto che qualcuno si è fatto amputare l’arto che gli era stato trapiantato. Non so se qualcuno di voi ha letto il libro del filosofo francese Jean Luc Nancy su questo tema che poi è il rapporto tra corpo e tra morte e tecnica, tra malattia e tecnica. Il libro di Jean Luc Nancy “L’intruso“. Parla di un fatto autobiografico, l’intruso è il cuore che gli è stato trapiantato. La tecnica ci abitua a considerare cosa nostra qualche cosa che viene da fuori, qualche cosa come una protesi vivente. Verrebbe da dire che viene messa radicalmente in discussione l’unità sacrale del mio organismo. Forse col passare del tempo ci abitueremo sempre di più ad essere composti di parti eterogenee. Che cosa significa questo? Certamente significa che prenderemo un rapporto diverso con il corpo, e quindi, siccome siamo corpo, un rapporto diverso con la soggettività, con l’individualità. Verso dove stiamo andando nessuno lo può sapere. Non è che tutto quello che si può fare è giusto farlo. Forse non lo sopporteremo. Oppure, forse ci abitueremo a sopportarlo attraverso mutazioni che sono non soltanto mutazioni genetiche ma mutazioni di pensiero, di stile di vita, di anima. Su questo, naturalmente, chi vivrà vedrà.
a cura di Roberto Ferrari, Elena Cuzzani, Antonella Nora.