Perchè sento il bisogno di dipingere volti.
Nato 100 anni fa (il 10 ottobre 1901) a Borgonovo in Val Bregaglia, Alberto Giacometti trascorse l’infanzia nel vicino villaggio di Stampa.
Un anno dopo nacque il fratello Diego, che di Alberto divenne paziente e premuroso compagno, devoto amico, modello prediletto, confidente, consulente, aiutante, alter ego. Grazie a Diego, che intuì ben presto la prorompente genialità del fratello, molte pregevoli opere furono sottratte alla distruzione, all’annientamento che l’incontentabile e umorale artista aveva loro destinato. Alberto e Diego trascorsero gran parte della loro vita a Parigi, senza però mai dimenticare la terra d’origine: i luoghi familiari, gli affetti, i paesaggi.
Pittore e scultore tra i sommi del Novecento, Alberto ebbe rapporti di amicizia con molti intellettuali e artisti, tra cui Aragon, Breton, Strawinsky, il filosofo giapponese Isaku Yanaihara, Simone de Beauvoir, Sartre, Jean Genet, James Lord…
Yanaihara, Genet e Lord furono straordinari modelli per ritratti a olio (pp. 208 ss.)*, tra i più allucinati e pregnanti della sua produzione. Per conoscere a fondo Giacometti uomo e artista sono imprescindibili i libri di due dei modelli d’eccezione menzionati: di Genet, L’atelier de Giacometti e di Lord, Un portait par Giacometti.
Alberto morì l’11 dicembre 1966. Diego visse fino al 1985.
Kunst- e Weltanschauung di Giacometti
Quando nel 1957 fu chiesto ad alcuni grandi artisti di parlare della loro realtà, Giacometti rispose:
Io faccio pittura e scultura per mordere nella realtà, per difendermi, per nutrire me stesso, per diventare più grosso; diventare più grosso per difendermi meglio, per meglio attaccare, per fare più presa, per avanzare il più possibile su ogni piano in tutte le direzioni, per difendermi contro la fame, contro il freddo, contro la morte, per essere il più libero possibile; il più libero possibile per tentare – con i mezzi che oggi mi sono propri – di vederci meglio, di capire meglio ciò che ho intorno, capire meglio per essere più libero, più forte possibile, per spendere, per spendermi il più possibile in ciò che faccio, per correre la mia avventura, per scoprire nuovi mondi, per combattere la mia guerra, per il piacere? per la gioia? della guerra, per il piacere di vincere e per quello di perdere.
E altrove, in risposta a interviste:
L’arte mi interessa molto, ma la verità mi interessa infinitamente di più… Più lavoro e più vedo diversamente… in fondo diventa sempre più sconosciuto, sempre più bello. Varrebbe per me la pena di lavorare, anche se non c’è risultato per gli altri, per la mia visione personale… la visione che ho del mondo esterno e delle persone… Penso di progredire ogni giorno. Per questo lavoro più che mai. Sono sicuro di fare ciò che non ho ancora mai fatto e che renderà superato ciò che ho fatto fino a ieri sera o stamattina. Non si torna mai indietro… È lungo il cammino. Allora tutto diventa una specie di delirio esaltante, come l’avventura più straordinaria: se partissi su una nave per paesi mai visti e incontrassi isole e abitanti sempre più imprevisti, mi farebbe esattamente lo stesso effetto. Questa avventura la vivo veramente. Allora, che ci sia un risultato o no, che importanza vuole che faccia? Che in mostra ci siano cose riuscite o mancate mi è indifferente. Visto che per me è in ogni modo un fallimento, troverei normale che gli altri non guardino neppure. Non ho niente da chiedere se non di poter continuare perdutamente.
Perché troviamo bella una cosa? Un albero? o il cielo? o i volti? e non banale? Un tempo andavo al Louvre e i quadri o le sculture mi davano un’impressione sublime… Oggi [1962], se vado al Louvre, non posso resistere a guardare la gente che guarda le opere. Il sublime oggi per me è nei volti più che nelle opere… Al punto tale che le ultime volte che sono andato al Louvre sono scappato, sono letteralmente scappato. Tutte quelle opere avevano l’aria così misera – un approccio abbastanza miserevole, così precario, un percorso balbuziente attraverso i secoli, in tutte le direzioni possibili, ma estremamente sommarie, primarie, ingenue, per circoscrivere un’immensità formidabile – guardavo con disperazione le persone vive. Capivo che mai nessuno potrebbe cogliere completamente questa vita… Era un tentativo tragico e risibile.
Il teschio come archetipo
Nell’autunno del 1921, Giacometti conobbe un vecchio signore, bibliotecario all’Aja, di nome Van Meurs. Fu un incontro fuggevole su un treno. Ma alcuni mesi dopo, colpito dalla cultura e dalla sensibilità dell’artista ventenne, con un annuncio su un giornale, van Meurs riuscì a rintracciarlo e gli propose un breve soggiorno a Venezia: «Mi trovava simpatico. Era vecchio e solo. Avevo voglia di andare a Venezia. Ero povero. Pagava lui.» Durante il viaggio van Meurs si ammalò gravemente. Giacometti passò una notte al suo capezzale e la giornata successiva lo vide morire.
Questa drammatica esperienza fu sempre per lui un motivo di angoscia: «La morte l’avevo sempre immaginata come un’avventura solenne. Non era dunque che quello: nulla, derisoria, assurda. In poche ore Van M. era diventato un oggetto, niente. C’era stata tanta casualità in tutto questo: l’incontro, il treno, l’annuncio. Come se tutto fosse stato preparato affinché io assistessi a quella misera fine. La mia vita d’un tratto quel giorno si è proprio ribaltata. Quel dramma, più ci penso… è per causa sua che ho sempre vissuto nel provvisorio, che non ho smesso di avere orrore per ogni avere. Sistemarsi, comprare una casa, condurre una bella esistenza, quando c’è sempre questa minaccia – no! Preferisco vivere negli alberghi, nei caffè, nei luoghi di transito…»
E così fece per tutta la vita, anche quando la fama, il prestigio internazionale e la conseguente ricchezza gli avrebbero permesso un tenore di vita ben più elevato. Il modesto atelier della rue Hippolyte-Maidron n. 46 divenne, come scrisse M. Leiris, «un’appendice, un prolungamento della sua persona e – si può dire, tanto aveva l’aria di far parte di lui – la sua conchiglia»; era un antro che forse gli ricordava una piccola grotta vicino a Stampa in cui, da bambino, amava rifugiarsi in solitudine.
La prima elaborazione esistenziale e artistica del trauma provocato dalla morte di van Meurs fu, due anni dopo, mentre studiava all’Accademia di Antoine Bourdelle a Parigi, il disegno Il teschio (p. 51) che tenne occupato Giacometti per un intero inverno (tra il 1922 e il 1923), facendogli trascurare la scuola (che del resto non lo entusiasmava…). Con febbrile accanimento egli studiò un teschio umano, come se volesse ancora trovare in esso i segni dell’energia e della tensione che, grazie al respiro e allo sguardo, animavano l’anonimo volto: «Da allora, tra il vedere un cranio davanti a me o un personaggio vivo la differenza è diventata minima…, il che mi ha sempre piuttosto scosso. All’opposto, lavorando sul personaggio vivo – e quasi con orrore – arrivavo, se insistevo un po’, a vedere quasi il cranio attraverso.»
Da questo punto di vista, Il teschio è un’opera-chiave, un vero e proprio archetipo, la prima, drammatica interrogazione della testa umana, che assillerà Giacometti nell’arco di tutta la sua vita.
Seguirono altri tentativi, in ambito naturalistico (cfr. pp. 58 ss.), ma anche nel successivo e lungo periodo in cui Giacometti subì l’influsso delle avanguardie artistiche coeve (1925-1935), la testa e il corpo furono al centro della sua indagine artistica (si pensi alla celebre, astratta Tête qui regarde, 1928, p. 77) o a Tête-crâne (1934, p. 116), di ispirazione cubista.
Il simbolo della piazza
Una sera del 1938 un’auto urtò Giacometti e lo travolse in Place des Pyramide. Non fu un incidente grave, ma ebbe per l’artista il significato di un avvertimento, come la morte di van Meurs: all’improvviso Giacometti colse di nuovo, ma in maniera più intensa, la precarietà dell’esistenza, la propria finitudine. E la piazza (cfr. per esempio il bronzo Place del 1948, p. 161 o foto), acquistò una densa valenza simbolica: essa divenne, come scrisse Bonnefoy, «il segno stesso, soprattutto di notte, della solitudine di ogni essere, esposto lì più che altrove a quella suggestione di nulla, di nonsenso di tutto, che nasce dagli spazi vuoti.»
In Place quattro uomini in movimento sembrano dirigersi verso una donna, immobile. Ogni figura, spiega Giacometti, «ha l’aria di andare per conto suo, tutta sola, in una direzione che le altre ignorano. Si incrociano, si sorpassano, senza vedersi, senza guardarsi. Non raggiungeranno forse mai la loro mèta («l’atto del convergere finisce per trasformarsi in dispersione», annotò Jean Soldini), irraggiungibile come la mèta dell’artista stesso, apparentemente semplice e banale, in realtà, come vedremo, vertiginosamente complessa: «cercare di copiare quel che vedo», la «rassomiglianza assoluta»: «Cerco di fare ciò che trent’anni fa mi sembrava impossibile fare. Trovo che sia altrettanto impossibile che allora e perfino completamente impossibile, non può esserci che scacco. L’unica cosa che mi appassiona è cercare comunque di avvicinarmi a questa visione che mi pare impossibile rendere.»
Il «ritorno all’ordine»
Tre anni prima dell’incidente, nel 1935, Giacometti era tornato al modello e quindi alla figurazione: un tormentato ritorno all’ordine, dopo la fase avanguardistica ormai implicitamente ripudiata. «Sapevo che un giorno sarei stato obbligato a tornare al modello» scrisse in quegli anni. «Lo temevo, ma nel contempo lo speravo, poiché le opere astratte che facevo in quel periodo erano esaurite.»
Deciso a indagare la realtà per scoprirne l’essenza, si allontanò dalle correnti antinaturalistiche. Il suo desiderio, che era nel contempo il suo dramma, è racchiuso in questa frase: «Tutto il percorso degli artisti moderni è in questa volontà di afferrare, di possedere qualcosa che sfugge continuamente… È come se la realtà fosse continuamente dietro i velari che si strappano. Ce n’è ancora un’altra, sempre un’altra.»
Le opere che segnano il cambiamento di rotta sono: Autoritratto (un disegno del 1935, p. 122); La madre del pittore, La mela e La mela sulla credenza, tutti dipinti a olio del ’37 (pp. 123 e ss.). Conseguenze di questa svolta, oltre a una profonda, frenetica, dolorosa riflessione sul senso della sua pittura e a furibondi ripudii di ciò che scolpiva o dipingeva, furono l’esclusione dal gruppo surrealista, a cui aveva aderito nel 1930, e l’interruzione di ogni esposizione fino al 1947. Sul piano artistico, a partire dal 1939 le figure scolpite divennero sempre più piccole, fino a diventare talmente minuscole da poterle tenere sul palmo di una mano (pp. 132-133). «Provo a dare alla testa la sua giusta dimensione, la reale dimensione,» scrisse quell’anno Giacometti «così come si presenta a noi quando vogliamo cogliere con un’occhiata l’apparenza globale di una testa. Quello che ci colpisce nel suo aspetto esige una certa distanza.» Questa serenità di giudizio diventa terrore un anno dopo: la riduzione delle figure fu paragonata infatti a una «catastrofe veramente spaventosa».
Le forme trasfigurate
Nel 1946, un’altra drammatica esperienza ebbe di nuovo un potente e decisivo influsso sulla sua arte: la morte del signor T, un suo vicino di casa a Parigi. Giacometti lo vide nella fase ultima della sua agonia: «immobile, la pelle giallo avorio, tutto raggomitolato su se stesso e già stranamente lontano», e poche ore dopo «morto, le membra d’una magrezza scheletrica, proiettate in avanti, divaricate in abbandono lontano dal corpo, un enorme ventre gonfio, la testa all’indietro, la bocca spalancata».
Nessun cadavere gli era parso «così nullo, avanzo miserando da buttar via come il cadavere di un gatto per la strada». La sua testa era divenuta un «oggetto, minuscola scatola, misurabile, insignificante. Anzi no,» precisa Giacometti «non proprio come un oggetto, ma come qualcosa che era nello stesso tempo vivo e morto. Urlai di terrore quasi avessi varcato una soglia e fossi entrato in quell’attimo in un mondo mai visto prima. Tutti i vivi erano morti, e questa visione si ripetè spesso, nel metrò, per strada, al ristorante, con gli amici.»
Anche gli oggetti subirono una trasformazione, i tavolini, le sedie, gli abiti, la strada, persino gli alberi e i paesaggi.
Pochi mesi dopo Giacometti scolpì Il naso e la Testa su stelo, definite da Bonnefoy «le raffigurazioni più terrificanti della morte e dell’aggressività del nulla che mai artista moderno abbia concepito». La testa dal lunghissimo naso è ingabbiata in una struttura metallica e appesa a un filo: se la si allontana spingendola con un dito, essa ritorna inesorabilmente e più vicina, sfiorandoti o urtandoti, proprio come l’idea della morte, come la morte stessa.
Questi due capolavori sono il segno inequivocabile della elaborazione intellettuale di un terrore esistenziale e del suo superamento grazie all’arte. Essi si collocano all’inizio di un nuovo, sorprendente corso della produzione di Giacometti, in cui i soggetti delle sculture (ritratti a mezzo busto e a busto intero, figure sole, composizioni con più figure, immobili o in movimento, racchiuse in una gabbia) si riappropriano dei loro volumi, ma si restringono e si allungano, fino a diventare filiformi.
L’immobilità, l’aspetto emaciato, macilento, le superfici smangiate, corrose, tormentate, la fragilità e la solitudine evocano l’usura, la consunzione cagionate dal tempo e dalla vita, ma soprattutto la tragedia dell’uomo contemporaneo, che ha perso ogni illusione, che è destinato a vivere, come scrisse Sartre, «con la morte nell’anima», in un «vuoto attraversato dal reale». Sono opere che interrogano il fruitore, gli parlano, lo pungolano, lo inquietano per il dramma che lasciano intravedere o sprigionano.
Anche nei quadri, soprattutto nei ritratti di suoi familiari, di artisti e di conoscenti, ritornano questi temi che sono tipici dell’esistenzialismo di Sartre (non per caso autore di una prefazione – fondamentale – a un catalogo di Giacometti). Dipinti dai colori marci e spenti, in cui i personaggi sembrano emergere come relitti dagli abissi del tempo.
Folgorante testimone della sua epoca, della nostra epoca, Giacometti non lasciò soltanto una sublime eredità estetica. La sua testimonianza è anche etica. Scavando nel profondo della realtà, si allontanava dalla rappresentazione del vero, intesa in senso fotografico, trasfigurando le forme per svelare la tragedia della condizione umana. Quando scriveva: «Cerco di copiare quel che vedo», per raggiungere la «rassomiglianza assoluta», non intendeva certo sostituirsi banalmente al fotografo. Egli cercava invece di «copiare» quel che vedeva dietro ogni volto, dentro ogni corpo, «un certo sentimento delle forme che è interiore e che si vorrebbe proiettare all’esterno».
Nel 1961, quasi alla fine del suo tormentato percorso artistico, Giacometti diceva ancora a stesso: «Perché sento il bisogno, sì il bisogno, di dipingere volti? Perché sono – come si può dire – quasi allucinato dai volti delle persone? E questo da sempre. Come un segno ignoto, come se ci fosse qualcosa da vedere che non si vede al primo colpo d’occhio. Perché?»
* Nel testo si fa riferimento al catalogo della mostra al Kunsthaus di Zurigo, svoltasi dal 18 maggio al 2 settembre 2002.
Per gentile concessione di Laureto Rodoni.
L’articolo originale, «Sono quasi allucinato dai volti delle persone»
è presente su Il portale dell’arte di Rodoni.ch