Lezione tenuta da Franco Bertossa mercoledì 31 ottobre 2001 presso A.S.I.A. Bologna
a cura di Beatrice Benfenati
Lo stato molle e l’atteggiamento etico
Allieva I: «Come posso sapere se faccio bene o faccio male a fare una cosa?».
Franco Bertossa: «Ci sono certe verità di cui possiamo fare esperienza, come, per esempio, che il mondo va da sé. Questo vuol dire che la domanda che mi hai appena fatto, l’atteggiamento con cui ti poni davanti ai fatti, quello che farai, andrà da sé. Sei d’accordo?».
Allieva I: «Funziona così».
Franco Bertossa: «Anche che noi non lo accettiamo, o che sentiamo che questa verità ci prende, va da sé. Così anche che non lo vediamo e che spesso cadiamo nell’illusione. A questa verità se ne innesta un’altra, che scaturisce dalla domanda: ‘cosa sta succedendo? Per quale motivo?’. C’è differenza fra il cogliere che il mondo va da sé e il non coglierlo?».
Allieva I: «Sì».
Franco Bertossa: «In che consiste?».
Allieva I:«Se uno non lo coglie pensa di star costruendo il mondo».
Franco Bertossa: «Non solo: pensa anche che ci siano degli avversari. Ma se le cose vanno da sé, vuol dire che dietro a tutto questo non c’è un agente. Ci sono dei processi mentali, ci sono dei sentimenti, ma non c’è un libero agente; le cose stanno accadendo così come fra un po’ verrà freddo, come adesso è sera. Là fuori non ci sono tanti piccoli protagonisti e liberi agenti, ma un unico movimento che li sta prendendo e fa fare loro quel che fanno. Chi muove tutto questo?
Qualche giorno fa mi è venuta un’idea che mi sarebbe stata più utile in passato: perché mi è venuta in mente proprio quel giorno, in quel modo e con quell’intensità? Chi muove tutto questo? C’è un battito del cuore, una peristalsi intestinale, un respiro, un metabolismo, una friggitura, dei neuroni, dei pensieri: chi è il gestore di tutto questo? C’è un gestore? Perché, verso dove, con quale criterio? C’è una regola? Ha senso chiederselo o anche la regola è solo un prodotto fatto affiorare dall’indicibile?
Queste domande, a mio avviso, costituiscono un atteggiamento etico, lo stato che chiamo ‘molle’.
Tu dici di voler sapere se quando agisci fai bene o fai male, ma questo non lo può sapere nessuno, perché quel che facciamo lo sappiamo solo un attimo dopo che l’abbiamo fatto.
Anche i fatti tragici nascono da uno che ha avuto un’idea: e se non gli fosse venuta? Chi gliel’ha fatta affiorare e perché?
Cos’è allora lo stato etico? Non dipende da noi porci in esso. Da un certo punto di vista possiamo dire che tutto è ‘stato etico’, ma non è giusto dirlo, perché noi ci rendiamo conto di questo e rendercene conto già ci modifica un po’. Quel che viviamo è uno stato di non concludibilità. Inoltre vediamo, sempre a posteriori, che facciamo e diciamo delle cose, e spesso non siamo neanche d’accordo con quel che abbiamo appena detto e fatto, ma le cose vanno avanti così, come una sola cosa che fa tutto.
Lo stato ‘molle’ è intrinsecamente contraddittorio, non è una soluzione ma è una soluzione: è un campo difficile perché l’inizio esula da ogni definizione. La nostra vita, la nostra esperienza, non comincia con una definizione, ma con uno stato intrinsecamente contraddittorio e proprio per questo dialettico, che si nega e si afferma. Per esempio, se alla luce del niente tutto è singolare, che senso ha dire che capisco qualcosa se anche l’atto del capire è una singolarità? Ma allora come faccio a capire? E come faccio a riconoscere che non riconosco più niente?
All’inizio la realtà si dà in un misterioso modo che sembra contraddittorio. Anche la stranezza è strana. Cosa riconosco quando non riconosco più niente? Il modo iniziale del darsi dell’esperienza è contraddittorio: io sono me stesso – cos’altro potrei essere? –, ma sono anche altro da me stesso. Dal punto di vista dell’io, ogni negazione e ogni affermazione corrispondono sempre ad un’affermazione: io non esisto o io esisto si equivalgono, perché se affermo una negazione, affermo che nego, ed è come affermare che affermo. Però, alla luce della singolarità e del niente, colgo anche l’esser altro di me da me. L’esser altro significa che io non sono riconoscibile, non sono confrontabile, non sono collocabile, non sono identificabile con niente, sono una singolarità totale e assoluta.
All’inizio le cose si danno così, e proprio per questo si possono poi articolare fino a quel limite del pensiero, l’accesso al pensiero duale, in cui ci permettiamo solo la dualità di vero/falso, il mondo del c’è/non c’è che sono propri della logica e della ragione. Il limite a questo è il mondo della medesimezza, della singolarità e dell’autoreferenzialità, dimensione in cui la contraddizione è intrinseca e insanabile. Quello è lo stato molle».
L’intrinseca contraddittorietà della tensione originaria
Allievo I: «Questo è come dire che c’è un mondo di contraddittorietà intrinseca e un altro in cui vale lo schema vero/falso: come avviene il passaggio tra i due?».
Franco Bertossa: «Questa è una questione capitale che ora possiamo solo accennare. Riguarda il confine tra autoreferenza e transitività. Quando ci si ripiega su se stessi può trattarsi di un atto solo di natura esplorativa (seppure autoreferenzialmente), in quanto la coscienza si occupa di sé, oppure di trovare l’accesso alla singolarità, perché, nel momento in cui mi incontro, incontro il mio essere che mi è familiare, ma che incontrando se stesso in quanto essere si diventa estraneo, perché l’essere non è rapportabile con niente. Quindi è vero che sono me stesso e che al contempo sono altro da me stesso. Se elimino l’autoreferenza e punto la freccia dell’attenzione transitivamente, posso permettermi la logica esclusiva del vero o falso, del questo o altro, la logica descrittiva e proposizionale. Ma la contraddizione è ineliminabile, e in primo luogo la vivo nella dimensione dell’esperienza originaria, perché nel momento in cui mi incontro, incontro la mia singolarità, che è ciò che mi permette un primo rimbalzo da sé ad altro, che poi si amplifica fino a concepire l’altro come cosa, come oggetto, e fino a perdere il senso di sé o far diventare sé una ‘cosa, oggetto’.
Se tralasciamo il percepire l’essere alla luce del nulla, il sé resta solo sé e l’altro resta altro, rimane una questione di identità o di alterità. Invece, alla luce del nulla, il sé diventa singolarità, ciò che non ha confronti con altro e quindi non può riposare in sé perché, stando in sé, nel contempo è anche altro da sé. Anche il ‘capire’, come tutto il resto, alla luce del nulla è una singolarità, così come i quattro tempi della coscienza che si mostrano come uno strano evento, come atomi e datità. Ma tutto questo, nel contempo, lo capisco ed è la questione del nulla che permette questo gioco dialettico.
Con l’oblio del niente si perde il senso di questa intrinseca e originaria contraddizione e la realtà appare solo come presente, come positività. Ma questo è un tema su cui bisogna andare cauti: è delicato perché è iniziale.
La similarietà e l’estraneità sono dunque contemporanee come due poli perché anche riconoscere la stranezza è un riconoscimento, seppure nel riconoscersi ci si riconosca altro; ciò è possibile solo alla luce del nulla. Potremmo collocare questo pensiero in avidya, inteso come quello stato di tensione che non riposa in sé, e che proprio per il suo intrinseco sapere/non sapere, ‘un non saper, sapendo’, come disse san Giovanni della Croce, genera una tensione. Che affermi o che neghi, non posso che collocarmi in me stesso. Nel contempo, cogliendomi, colgo il mio non essere me stesso, il mio essere estraneo e singolare sullo sfondo del niente. Ed è proprio questo aspetto singolare, non scontato, quel che genera pensiero, come una sorta di precipitato, di risoluzione di quella tensione a comprendere ciò che non è me stesso: l’altro-me. Sartre chiama queste due polarità il “per sé”, che sarebbe la coscienza, e l’ “in sé”, che sono le cose. Le cose attorno a noi non saranno mai riducibili al per sé, alla coscienza: le restano estranee, ma io dico che la coscienza stessa si resta estranea, e da questo divario che non si riesce a colmare nasce una reazione.
In questo dialogo, in questa dialettica tra il me stesso e l’altro, tra il sapere e il non sapere, si articola la nostra tensione a voler capire. Potete pensare che tra i due poli scorra una corrente con una maggiore o minore organizzazione a gestirla, un ganglio da insetto o il cervello di Buddha, ma che comunque origina dall’assurdo contrasto col niente; per cui, alla fine, tutto nasce dal niente».
Allievo II: «Nel momento in cui dico di sapere di non sapere, sono già entrato nel pensiero transitivo? Lo chiedo perché in qualche modo mi rifaccio ad un momento passato, e il momento in cui colgo l’esistenza diventa già un pensiero, la traccia di un momento di medesimezza».
Franco Bertossa: «Questa però è una domanda trabocchetto, perché non esiste una coscienza senza mondo, quindi non si può propriamente dire che tutto può essere ridotto alla coscienza. Non esiste solo coscienza, ma coscienza bipolare, il guardare e il visto, e, anche se molto prossima, la struttura dell’esperienza è sempre bipolare; quella che altre volte ho chiamato ‘nuvola di esperienza’. In essa c’è esperienza, traccia, ed è lì che ritroviamo il se stesso. Ma è impossibile segnare il confine, dire dove comincia la traccia. Non è possibile dire che io sono qua e tu sei là, che tu sei l’altro e io sono me stesso, perché i due poli sono intrinsecamente connessi e non c’è un confine. Se ci fosse potresti riconoscerlo, ma allora non sarebbe più un confine, sarebbe già alterità: da dove lo vedresti? Sarebbe necessario un altro confine, e, se lo riconoscessi, daccapo, diventerebbe già un oggetto. Per questo il nucleo originario dell’esperienza è come una nube senza confini, in cui c’è il sé e l’altro da sé. Questo è uno straordinario mistero, pieno di fascino, è l’inizio in cui tutto si accende e in cui, se vissuto con poca lucidità, ingenuamente si creano delle tendenze e dei fraintendimenti come quello di oggettivare tutto, o di scegliere uno dei due poli dimenticando l’altro. In questo modo non ci si dimentica solo di una parte di sé, ma anche di ciò che rende possibile il concetto stesso di ‘altro’, cioè il niente. L’altro diventa allora non problematica presenza, pura positività, e in questo intendimento si radicano l’ottusità, la fantasia, il sogno, l’alienazione, e anche la tecnica.
Quando Douglas Hofstadter dice che, seppure resti non attingibile, non bisogna dimenticarsi della struttura su base fisica del cervello e del suo schema, e che tutto sottostà alla fisica e alle sue leggi, si è semplicemente dimenticato di se stesso, scambiandosi per una funzione riconducibile ad uno schema fisico. Il suo è un pensiero ingegnoso, ma filosoficamente incompleto.
Quindi è parziale sia dire che tutto si singolarizza, sia che tutto ha un’identità. È una contraddizione che però non è una contraddizione in termini originari, intrinseci: è strutturale. La coscienza si spalanca, sa e, nel momento in cui sa, è se stessa, ma quel sapere diventa subito fatto, evento, nel suo darsi è subito non-niente, propone il confronto col niente e quindi, contemporaneamente, è estraneità. Ma l’estraneità è un evento della coscienza, riconosciuto dalla coscienza, e quindi è anche identità; eppure nel momento in cui si pone come tale, alla luce del niente, è subito estraneità.
Questa tensione ci sta facendo parlare adesso… ha costruito questo orologio… ha fatto sì che questo zaino esista, con tutto quello che contiene, ci fa avere questi occhi, queste mani… questa tensione fa tutto. Dimenticarsene, o ridurla a corrente elettrica o di qualche altro genere è una svista colossale. Pensare adeguatamente l’essere significa anche vedere il momento in cui si condensa il mondo della scienza e della tecnica che, sebbene abbia effetti impressionanti, restano espressione di un pensiero estremamente ingenuo e parziale. Quando Heidegger ha detto che “la scienza non pensa” tanti scienziati si sono offesi. Egli ricollegava sempre il pensare al cogliere il fatto originario, mentre la scienza calcola, pone tutto in termini di alterità per cui la vita della coscienza non è che una funzione di un insieme di oggetti combinati, oggetti che non sono neanche visti alla luce del nulla; per cui, se ci riferiamo alla scienza, quale parola è più adatta e adeguata del ‘calcolare’?
Ma il pensiero non può permettersi di non pagare lo scotto dell’essersi alienato da sé, di essersi allontanato dal vero di se stesso. Il pensiero non può permettersi di non pensare adeguatamente l’essere.
E tutto è contenuto nella tensione originaria. Abbiamo un processo di pensiero che ci ha formati in un certo modo, ma la protagonista è quella tensione che costantemente viaggia; e che diventa corposità, identità, se stesso e altro da se stesso. Il ‘so’ si attiva proprio perché non sa cosa ha incontrato e non esiste un posto in cui sostare pacificamente in se stessi, così come non esiste l’assolutamente altro da se stessi: avidyā, samskara, vijñāna.
Il primo arbitrio è concepire questa tensione davanti, come oggetto, perché è qui e nel contempo fuori da qui, è esperienziale ed immediata. Ma se non vediamo il nulla, che è l’attivatore della questione, allora non vediamo nulla!
Levinas dice che non esiste fenomenologia senza intenzione, senza la freccia della coscienza che va a posarsi su qualcosa. Heidegger chiama quel bersaglio “Da” e dice che in esso trapela l’essere. Senza questa chiave formidabile la fenomenologia stessa non vale molto. In questo atto non si dà solo l’alterità ma anche il ‘di chi ne va’ in questa verità. Trovo che tutto questo sia estremamente appassionante, perché si tratta dei primi atti del darsi dell’essere».