Le terre della cultura tibetana sono state il luogo di un evento straordinario. Questo accadimento è indicato con la parola Dharma, “vedere le cose per quel che sono, nella loro verità e mantenersi in essa”.
Buddha significa “svegliato”, svegliato alle cose come sono e quindi al Dharma.
Nel corso della sua intensa ricerca, il Buddha si è chiesto come si produce l’esperienza umana e, in particolare, come si producono quelle esperienze che noi chiamiamo sofferenza, dolore. Egli riconduce il tutto ad un irrazionale a monte, avidya. Si dà questa irrazionalità, una sorta di mistero, di nescienza irriducibile: qualcosa è, sta accadendo, ma è impossibile sapere cosa sia, né perché sia.
Nel momento in cui si presenta questa nube di mistero, essa viene colta innanzitutto nella propria gratuità e nel suo essere senza una ragione o un senso: qualcosa si dà invece che non darsi e in questo sta la sua abissalità.
Nell’ambito di questa nescienza, di questo mistero intrinseco, qualcosa si agita, si scalda, “frigge”. Nei Veda, e anche in testi successivi, questo viene indicato con la parola tapas.
Il chiedersi se è proprio vero che, a partire da questa nescienza originaria si porduca tapas – anche questo chiedersi è esito dello stesso movimento, di questa “friggitura” originaria.
Ciò che è non riesce a riposare in se stesso perché non è autocompiuto, perché non può trovare in sé una ragione, ma attinge a questo irrisolvibile mistero originario.
Avidya, la nescienza circa l’irrazionale che sta all’origine, cerca riposo, cerca sollievo e lo trova nel campo della coscienza. Il “friggere originario” e il nascere di tutte le strategie per la ricerca di un riposo sono delle forze che, riunite e coordinate, “diventano” (non in senso temporale, in quanto la coscienza è da sempre) lo spalancamento di una coscienza.
Il Buddha, con metodo estremamente rigoroso, ha osservato che l’esperienza umana è innanzitutto caratterizzata da una opacità, da una forma con cui gli oggetti si presentano, composta anche di una sensibilità affettiva. Con siò si intende che, entrando in contatto con gli oggetti, toccando le cose si ha un rimando di carattere affettivo, che determina che queste esperienze ci piacciano, non ci piacciano o che ci siano indifferenti. Tutto ciò ci incide nel profondo lasciando tracce. La coscienza è l’ambito dove tutto ciò accade. Con un’analisi di estrema precisione il Buddha ha individuato cinque livelli di esperienza: rupa, la forma, vedanā, la percettività affettiva; samjñā, l’ideazione e la concezione delle cose; samskarā, le tracce che le esperienze lasciano in noi e condizionano le successive esperienze; e infine vijñāna, tutto ciò accade. Buddha chiama questi livelli skandha.
La rivoluzione operata dal Buddha è che la coscienza, vijñāna, non è divinizzabile, mentre nella tradizione induista, da cui il Buddha proveniva, l’elemento cosciente, il chit, nelle sue più sottili manifestazioni quali Ātman, Puruśa, era ritenuto attributo divino o divinità stessa. Per il Buddha invece vijñāna è uno degli “elemento dell’esistenza”. Se anche lo considerassimo attributo divino non potremmo fare i conti con la sua gratuità, col suo esserci senza alcuna possibile ragione. E ciò rimanderebbe necessariamente all’irrazionale originario, il senza fondamento.
Nei sutra il Buddha dice di non aver mai voluto dare ragioni metafisiche né filosofiche, ma di aver sempre e solo insegnato che esiste il dolore ed che si dà la via all’estinzione del dolore.
Per questo ha formulato quella che io trovo essere la più straordinaria analisi dell’esperienza umana mai prodotta: il pratittyasamutpada, o coproduzione condizionata, che dice che di ogni cosa c’è una causa o una condizione, un co-fattore. Se non ci fosse quel friggimento (avidya) e il movimento che esso produce con le sue tracce consce ed extraconscie (samskaras), non ci sarebbe neppure coscienza (vijnana), ma se non ci fosse coscienza non ci sarebbe l’esperienza di una forma, di una fisiologia e di una anatomia che accolga la coscienza stessa (nama-rupa), non ci sarebbe l’ambito sensoriale (shadayatana) in cui è possibile l’incontro e il contatto con le cose (sparsha). Se non ci fosse questo non ci sarebbe neppure la reazione, il contraccolpo (vedana), e neanche il desiderio (trishna) di avere o non avere più una certa sensazione; senza questo non sarebbe possibile neppure un accasarsi nelle sensazioni che ci piacciono (upadana) e, di conseguenza, neanche la protrazione di esistenza (bhava), quello starci dentro e fornire l’energia perché si sfori da una vita all’altra pur di portare a compimento un desiderio. Senza questa spinta protrattiva non ci sarebbe nascita (jati) e senza nascita neppure vecchiaia né morte (jara-marana) e neppure una successiva rinascita. Ma se tutto questo c’è ci sarà vita, esperienza e sofferenza.
Dove si colloca il punto cruciale di questa analisi?
La sete non è propriamente causa di dolore, ma è nella sete che si origina il dolore, che affiora un’occasione, un precursore del dolore.
Il Buddha era un genio fenomenologico che riusciva a cogliere ogni dharma, ogni fenomeno, nella sua sfumatura più sottile, bastante a distinguerlo da un altro fenomeno.
La disciplina buddhista, oggi come allora, è vipassana. Vipassana è un vedere penetrante, oltre le razionali distinzioni, è uno sguardo che entra nell’ultima essenza vuota; questo vuoto non è quello che ci condannava all’angoscia, al tedio. È difficilmente descrivibile perché è un’esperienza e non è in rapporto con una sensazione di vuoto, perché anche la sensazione abbinata al vuoto è vuota. Il vuoto è differente nel senso heideggeriano, differisce rispetto a ogni dato, non esiste la sensazione di vuoto, perché ogni sensazione a sua volta è vuota.
In questo senso è la verità ultima su tutto, il cui elemento liberante è che non ci si può attaccare neppure all’esperienza di vuoto, perché questo sarebbe a sua volta vuoto. Questa è la potenza di sunya, che non lascia niente tra le mani, neppure l’angoscia. La coscienza può arrivare ad una verità differente rispetto ad ogni manifestazione. Per questo si dice di Ananda che illuminandosi rimase senza ulteriori afferramenti, senza ulteriori upadana, tutto gli si singolarizzò.
Quel vuoto, quel non senso che ordinariamente sono condanna, diventano liberazione alla luce di un’illuminazione, diventano quell’esperienza in base alla quale non ci si aspetta nient’altro, e per cui, paradossalmente, ciò che frigge smette di friggere perché la friggitura stessa è vuota. Come disse il Buddha, questa è la fine del Male.
Se il Buddhismo deve proporsi in Occidente, e l’Occidente ne ha bisogno, deve tenere conto dell’infondatezza e del niente che ha tagliato tutte le radici. L’Occidente non ha alternative perché l’unico che abbia affrontato il problema dell’infondatezza è il Buddha.
Occorre risvegliare le intelligenze, che in Occidente non mancano, all’analisi della nostra condizione di questo nostro essere misterioso e infondato.
Foto nell’articolo: l’albero della Bodhi a Bodghaya
Foto in homepage: Mattia Faloretti on Unsplash