“La forza della verità” è un’intervista al Maestro Franco Bertossa tratta dal volume
Tu non uccidere. Umanità e attualità del male
a cura di P. Pelliccia, D. Canzoniero
Damiani Editore, 2008
Un percorso antologico interdisciplinare rivolto agli insegnanti e agli alunni delle scuole medie superiori nel quale l’intervista qui ripresa riveste un ruolo centrale.
Il percorso di Tu non uccidere prende le mosse dagli eventi più tragici della storia recente e dell’attualità per meditare sul senso del male compiuto dall’uomo contro il suo simile e contro la sua stessa umanità per tentare di ristabilire un rapporto sensato con la presenza del male nelle nostre coscienze, oggi come in tutta la storia dell’uomo. E proprio nelle parole e nel vissuto di Franco Bertossa si incontrano due elementi centrali della riflessione sul male dell’uomo contro l’uomo: da un lato la condizione estrema, l’inconcepibile annientamento dell’uomo esposto al male della guerra e della ideologia totalitaristica, dall’altro la penetrazione del senso di queste esperienze, senso che rappresenta una necessità per le coscienze che le hanno subite e anche per noi che ne abbiamo solo vissuto l’eco lontana.
Affrontare la cruciale domanda di senso sollevata dai terribili eventi della nostra storia non è solo un esercizio di memoria storica ma illumina la nostra condizione, attuale e perenne. I genocidi del XX secolo, le guerre e la disumanizzazione che hanno caratterizzato il nostro recente passato, minacciano ancora oggi il senso profondo dell’essere umani, sia nella loro realtà storica che nell’attualità dei fatti di cronaca nazionale e internazionale. La disumanità che l’attualità del Tibet, del Darfur, della Cecenia riportano sotto gli occhi del mondo, ci fanno tornare alla mente fatti terribili come la Shoah o lo sterminio dei Gulag sovietici, i racconti di Primo Levi come quelli di Jean Amery o di Solzenicyn, testimonianze di un’assurda tragedia che ha spinto i suoi protagonisti a perdersi nell’assenza di senso, di ogni valore nell’esistenza umana, fino alla disperazione e al suicidio.
Proprio a partire dal rammemorare i fatti ed i personaggi di questi terribili eventi la testimonianza resa da Franco Bertossa assume una particolare pregnanza, in quanto contribuisce a chiarire il senso profondo dell’essere umani che le guerre e dei genocidi del XX secolo hanno seriamente messo in crisi, e quindi a riportare sulla via dell’esperienza dell’esser-ci “differente, inafferrabile eppure assolutamente certa”, la ricerca del senso dell’essere umani che ancora rimane come la domanda di fondo dei nostri tempi e dei nostri animi.
La forza della verità. Intervista con il Maestro Franco Bertossa
Maestro Bertossa, potrebbe raccontarci la sua esperienza con Von Dürkheim? Perché ha voluto incontrarlo e che cosa le disse?
F.B.:Il Conte Karlfried Von Dürkheim (1896 – 1988) era un nobile tedesco con una storia particolare. Aveva partecipato alla prima guerra mondiale e mi raccontò personalmente di essere stato nei luoghi della carneficina. La notte uscivano camminando sui cadaveri, la terra non si toccava neanche più – poi aggiunse con uno sguardo dolce – “Dio mi ha concesso la grazia di non dover mai sparare a nessuno”. Dicevo che era un nobile e nella prima parte della sua giovinezza, subito dopo la prima guerra mondiale, passava spesso pomeriggi a conversare nell’atelier di uno scultore, a Monaco, semplicemente per stare insieme tra intellettuali, artisti di quell’ epoca. Un giorno la sua futura moglie così, distrattamente, mentre erano annoiati e lui sonnecchiava sul divano, aprì un libro, il Tao Te Ching e si mise a leggere alcuni versi famosi che dicono “il vaso è caratterizzato dalle pareti ma ciò che lo rende vaso è il vuoto all’interno, la ruota è fatta dal cerchione e dai raggi ma ciò che la rende ruota è il vuoto al centro del mozzo”. Queste parole nel dormiveglia, in questo stato assonnato e annoiato lo penetrarono profondamente ed ebbe un’esperienza di improvviso risveglio. Che sia stata un’ esperienza molto molto profonda lo testimonia il fatto che quando io l’ho incontrato, nel 1987, era ormai novantunenne, ancora palpitava di quell’esperienza. Mi recai a Todmoos Rütte, una località nella Foresta Nera dove attorno a lui si era costituita una comunità e chiesi in segreteria se potessi incontrare il ‘dottore’, come lo chiamavano, e mi fu detto che ormai vecchio, stava molto male e che non incontrava nessuno, neanche gli amici. Allora gli lasciai una lettera che mi avevano assicurato gli avrebbero consegnato. Scrissi poche parole riguardanti ciò che io stesso vivevo, sul senso del profondo mistero della nostra esistenza e ci misi anche un fiorellino giallo che raccolsi nei campi. Alla segreteria avevo solo detto che ero Franco, neanche il cognome, e che seguivo un corso di Aikido in un centro sportivo da quelle parti. La mattina successiva, ero a colazione con il maestro Yoshigasaki, che era il conduttore del seminario – c’eravamo io, mia moglie Beatrice e mio figlio Silvano, che avrà avuto un anno e mezzo – e sento suonare il telefono nella hall. Il gestore risponde, poi si rivolge alla sala dove eravamo noi, dicendo “Franco? Franco?”- capii che cercavano me. Risposi e dall’altra parte c’era la segretaria, Christa Overbach si chiamava, che mi disse “il dottore la vuole vedere, ha fatto fare delle ricerche, sapeva solo il nome Franco, sapeva che era a Herzog… qualcosa (Herzogenhorn), ha fatto fare un’indagine per individuare il posto dove si trovava, ho chiamato il primo numero di telefono trovato perché il dottore vorrebbe assolutamente che domani vi incontraste”.
Era bastata una lettera, le parole giuste, le poche cose che era sicuro che condividevamo… Il giorno dopo mi recai ad incontrarlo nella sua casa, era una casa tedesca, di quelle di campagna, di legno scuro, e c’era una scala che saliva al piano di sopra. Nella stanza in cima alle scale, nel suo studio, incontrai questo vecchio nobile signore che sedeva dietro ad una scrivania – mi ricordo che mi impressionò il fatto che facesse fatica a stare seduto perché stava tutto inclinato, pendeva da un lato e non ci vedeva ormai quasi più, ma sembrava commosso e lì pensai “ma guarda che testimonianza, che insegnamento: quest’ uomo sta faticosamente seduto e però mi dedica i suoi ultimi respiri”. Dopo questo pensiero ebbe luogo il dialogo più commovente che io abbia mai vissuto, perché ci respirammo a vicenda. Io gli raccontai la mia esperienza, lui mi raccontò la sua, e gli dissi che cosa mi aveva colpito nella sua storia. Avevo letto alcune pagine di Alan Watts, che lui aveva incontrato negli anni 70 a Parigi e Alan Watts raccontava di questi strani casi di reduci della seconda guerra mondiale che avevano vissuto esperienze stranianti, che nessuno capiva, che venivano classificate come psichiatriche, ma in realtà nessuno riusciva a curare queste persone. Queste persone si erano trovate sul campo di battaglia a correre all’attacco ad esempio, e ad un tratto avevano visto una bomba che cadeva nel luogo dove stavano loro, avevano visto il niente che stava arrivando a tutta velocità: non c’era la possibilità di fare due passi, tra un istante la bomba sarebbe caduta proprio lì e sarebbero morti. Ma la bomba cadeva e non esplodeva, era difettosa, e loro restavano vivi pur avendo attraversato una terribile strettoia, una strettoia della minaccia totale, del nulla, dell’annientamento che la morte significa per una coscienza. Così restavano vivi e consapevoli solo visceralmente di star vivendo il miracolo della loro vita, della loro esistenza, ma non sapevano dirselo. L’energia della consapevolezza che sempre accompagna gli eventi del risveglio, quell’energia era stata scatenata, era esplosa in loro, visceralmente, e non trovava una soluzione. Questo è solo uno dei casi, si sa di casi di kamikaze giapponesi che si lanciavano contro una nave americana, ma a poche centinaia di metri prima dell’ impatto finivano la benzina, l’aereo perdeva quota e ammaravano. Anche loro avevano visto l’imminente impatto che poi non era avvenuto e anche queste persone hanno dato testimonianze di quel momento in cui tutto si stringeva come nella strettoia della clessidra. Il tempo stava finendo, il niente stava arrivando e invece si ritrovavano vivi, esistenti, sorpresi, stupiti, straniti.
Succedevano anche in altre situazioni di questo genere di cui Von Durkheim si occupava. Per esempio si veniva condannati a morte, si veniva portati al muro, tutto era pronto, i comandi venivano dati, pronti, puntate… e poi all’ ultimo, terribile scherzo, “tornate in cella, vi fuciliamo domani”. E anche lì il nulla era davanti a loro. Il contrasto tra la situazione, la strettoia estrema: “… sto per diventare niente … sto per diventare niente…”, e ad un tratto “potete tornare in cella”! Ritrovarsi esistenti, vivi e con quest’energia che era stata risvegliata… Il caso di Satprem (1923 – 2007) è simile. Egli era un intellettuale francese, un uomo dello spirito che ha vissuto fino alla morte a Pondicherry, nel Sud dell’India. A vent’anni, durante l’occupazione tedesca, faceva parte della Resistenza e fu catturato dalla Gestapo. Lui raccontava – esiste un bellissimo documentario su questo [N.d.R. Il documentario di cui Bertossa parla è quello girato da Davide Montemurri e presentato al Festival di Venezia nell’82. Il filmato è disponibile per il noleggio solo attraverso la Agenda International Italia – www.nuovevoluzione.it Nel volume “L’uomo dopo l’uomo” Ed. Mediterranee, è riportata l’intervista di F.De Towarnicki in cui Satprem racconta di quell’esperienza e del suo cammino spirituale che da lì prese avvio.] – che ogni giorno veniva qualcuno per fucilarlo, e lui ogni giorno si diceva “adesso tocca a me, adesso tocca a me”. Con occhi pieni di luce, in quel filmato raccontava che questi tra virgolette torturatori, in realtà lo hanno ripulito fino al più profondo dell’anima. Ma prima diceva: “In quella situazione non ti aiuta Dio, non ti aiutano i compagni, non ti aiuta la famiglia, non ti aiuta il partito, non ti aiuta niente e nessuno, resti col tuo niente, e pensi ‘adesso sto per diventare niente’… epperò sopravvivi, la guerra passa, tu sei ancora vivo, e cerchi di capire che cosa sia successo. Aggiunge: “In quella stessa cella, un giorno, mentre aspettavo ‘adesso tocca a me… tocca a me’ ad un tratto mi si è acceso nel cuore, qualcosa di dolcissimo.”
La medesima esperienza può essere vissuta in modo dolce, liberante, a livello mistico, oppure in un modo straniante, come capitò a quei reduci che venivano ricoverati negli ospedali e venivano curati come folli, come squilibrati, le loro famiglie si disgregavano intorno a loro, nessuno sapeva capirli, nessuno sapeva accoglierli, finché qualcuno diceva “nella Foresta Nera c’è un uomo che ha passato due guerre, che forse ti può capire, ti può aiutare”. E infatti il Conte Von Durkheim li incontrava, cercava di prendersene cura e diceva loro “guardate che per una volta nella vostra vita voi siete stati veramente sani. In quel momento eravate svegli, vi siete resi conto di qualche cosa che a quasi tutti sfugge, il mistero stesso dell’esistenza, la piena, totale consapevolezza, l’esplosione della consapevolezza del fatto di esistere: non niente, bensì esistere! Esserci!”. Me lo raccontava con questa intensità, e mentre lui me lo raccontava io avevo le lacrime agli occhi perché parlava di quello che è successo a me, anche se non in situazioni così atroci – io ho attraversato solo momenti di smarrimento esistenziali, ma il risveglio era stato della stessa natura – e fu proprio a quel punto che mi disse: “Vedi, oggi se qualcuno mi chiede che ‘cos’è un albero?’ io non posso che rispondergli – e poi gli uscì una voce intensissima per un 90enne – : guardalo! ma guardalo veramente!”. Questa era la sua risposta a una domanda che un occidentale affronterebbe solo in una logica predicativa: l’albero è un vegetale, l’albero è un oggetto là fuori e via dicendo. Invece lui diceva solamente “guardalo, ma guardalo veramente”. In quei momenti, in quei terribili o meravigliosi momenti, io penso che diventi evidente che noi viviamo due vite, due dimensioni: una è la dimensione storica, una dimensione di cui si scrive nei libri, di cui si fanno cronache, di cui si riportano memorie, la storia degli uomini come può esser vista da fuori, le cronache terribili, i massacri, le guerre, i genocidi, quelli ancora in atto. Ma un’altra storia può essere raccontata, sebbene solo occasionalmente affiori, anche attraverso la testimonianza degli altri, ed è la storia della coscienza degli uomini. È quella storia delle coscienze degli uomini che passa anche attraverso momenti atroci, muovendosi secondo un’altra logica che non è la logica del benessere, la logica della pace, ma è la logica del risveglio all’esistenza verso la quale tutto tende. Questo non significa che si debbano augurare terribili esperienze alle persone, però coloro che hanno vissuto quello a cui mi riferisco comprendono, e alla luce di quell’esperienza, da quel momento, si vive solo per quell’esperienza, si vive per quel risveglio. Questo lo testimoniano anche persone che hanno vissuto terribili malattie e poi sono sopravvissute, o anche non sono sopravvissute, ma nei momenti estremi delle loro vite hanno detto “considero questa mia malattia come la cosa più preziosa della mia vita, perché se non l’avessi passata, non avrei compreso certe cose”.
Quindi c’è la storia delle coscienze che è diversa dalle storie narrate nei libri di Storia, e conoscere la storia delle coscienze che si sono trovate nell’estremo confronto con il niente è uno dei motivi per cui andai ad incontrare, chiesi di incontrare ed ebbi la grazia di incontrare Von Dürckheim.
L’ illuminazione buddhista e l’esperienza d’essere, sembrano essere per lei molto vicini nel loro significato. In un suo articolo, (“Buddha e Heidegger. La vacuità e la differenza“) pone in diretta relazione la dottrina della vacuità buddista e la differenza ontologica heideggeriana. Vede in questo un ponte tra Oriente e Occidente, ovvero un terreno di dialogo e di incontro tra le diverse culture?
F.B.: Oriente e Occidente sono sovrapponibili su più piani: riesco ad individuarne tre. La via scritturale – come noi abbiamo le nostre sacre scritture anche gli Indiani e i Cinesi hanno le loro proprie sacre scritture; quindi una via del credo. Una seconda via è quella che in Occidente possiamo chiamare “(neo)platonica”, vale a dire la scoperta di essere abitati (sarebbe, in effetti, la nostra vera realtà) da un principio che trascende l’io ordinario: in Occidente tutta la tradizione del platonismo, in India la tradizione del Purusha, dell’Atman, del soggetto che trascende la dimensione mondana. Ma l’incontro che più mi sembra auspicabile nei tempi che viviamo è l’ incontro che credo sia fondato sulla grande intuizione heideggeriana della differenza ontologica. Come ho detto prima, c’è differenza tra l’ente – l’ente è quel che si trova ad essere, ciò che c’è, l’essente inteso nella sua totalità, come il mondo, l’universo, ed ogni dettaglio in esso – e la verità su l’ente, che è il fatto di essere dell’ente. Il fatto di essere non è un ente, perché se fosse un ente si darebbe il suo stesso fatto d’essere. Ora, la struttura di questa differenza, la non coincidenza del fatto con la sua verità, la differenza dell’ente dal suo essere, è perfettamente sovrapponibile alla struttura della vacuità buddhista. Thupten Jinpa è un uomo di grande cultura; egli ha percorso tutti i gradi della formazione filosofica e monastica-tibetana fino al grado di Geshe Larampa, è stretto collaboratore del Dalai Lama ed ha anche un PhD in Scienze Religiose a Cambridge. È quindi un uomo che conosce entrambe le culture; un giorno parlando di Heidegger lui mi disse “… Franco vuoi dire che per Heidegger essere non è una qualche cosa” e io gli precisai “Giusto: essere è la verità dell’essere di tutte le cose” e lui “Ma allora è come per la vacuità di Nagarjuna e Tzong Khapa, per i quali la vacuità non è qualcosa ma è la vacuità di tutte le cose. Se la vacuità fosse qualcosa, della stessa vacuità si darebbe la vacuità e quindi è differente”; “esattamente” convenni. Ecco. Il ponte tra le due culture, vale a dire tra la cultura della esistenza, del significato dell’esistenza e quindi del, in ultimo, niente di significato (concettuale) dell’esistenza, e quella del buddhismo – della vacuità di tutte le cose in cui la vacuità non è qualcosa ma è la vacuità di tutte le cose – può rintracciarsi nella struttura differente che accomuna questi due percorsi, queste due strutture. Sì, credo che questo sia il grande ponte. C’è da chiedersi perché questo sia importante, e possiamo risponderci che oggi l’uomo è smarrito poiché ha conosciuto il tramonto di ogni possibilità di senso della propria esistenza. Ma può accaderci quell’evento di risveglio al fatto d’essere di cui ho parlato. L’impatto con l’esistenza può essere positivo o negativo, il fatto di essere, di ritrovarsi a essere, può essere vissuto anche come condanna, ma la verità della vacuità è più forte di ogni condanna perché anche il sentimento della condanna si ritrova ad essere. Così la verità della vacuità fondata sul significato di verità dell’essere che è il non-niente – essere significa non-niente – ci mostra qualcosa di più profondo, vale a dire l’infondatezza, il senza ragione e senza appoggio. Secondo una bella espressione di Shih-shuang un maestro del chan cinese, vacuità vuol dire che tutte le cose sono sospese, infatti ad una domanda di un monaco egli disse: “la risposta più profonda del buddismo è come un sasso sospeso nell’aria” e guardando la faccia del monaco chiese “hai capito?” e l’ altro disse “no”, e lui “meglio che tu non abbia capito, altrimenti la tua testa sarebbe andata in frantumi!”. La verità dell’infondatezza, il fatto che tutto ciò che c’è è sospeso nel nulla – questo essere sospeso è una metafora ovviamente – esiste invece del nulla e non può esserci nessuna ragione, nessuna giustificazione, perché ogni giustificazione esisterebbe invece che niente, ecco io questo lo chiamo l’infondatezza. Ma se questo è vero, ed è vero, allora anche le nostre reazioni sono infondate, quindi la paura stessa è come un sasso sospeso nell’aria, la luce stessa resta sospesa nell’aria, la sofferenza è un sasso sospeso nell’aria e così anche la gioia, anche il piacere: ogni nostra reazione sono eventi, enti-dharma, come direbbero i buddisti, sospesi nell’aria, infondati e vuoti. Questo ci libera, ci pone al di là di noi stessi, nella visione, netta e chiara che non sta da nessuna parte il diritto di afferrarci a qualche cosa, neppure a noi stessi. Il Buddha ha detto: “Oh monaco, lascia cadere il ‘mio’, lascia cadere l’io, lascia cadere la coscienza, lascia cadere tutto, perché niente di ciò veramente ti appartiene”. La libertà è al di là delle singole caratterizzazioni di quanto accade, la verità è indicibile, il Buddha la chiamò Tathagata, Heidegger la chiama la differenza o la trascendenza. Noi abbiamo il modo di sperimentare tutto questo e non solo come concetto, ma in un momento intuitivo profondo, possiamo sentire che letteralmente il nostro luogo è un non-luogo e quando si vede questo non-luogo ci si sente per la prima volta veramente liberi, liberi addirittura da noi stessi. La morte non fa più paura, la mancanza non fa più paura perché alle radici della sofferenza sta la non “disponibilità al congedo” per usare un’espressione heideggeriana. Il fatto è che il niente arriva, il niente ci percuote le mani, il niente pretende il suo ed esige tutto ciò che noi abbiamo e così la ‘disponibilità al congedo’ è ciò che noi dobbiamo maturare. Ecco, l’infondatezza vissuta come vacuità ci dà questa forza e fa maturare in noi la forza della disponibilità al congedo, nulla è nostro, la vita non è nostra, l’esistenza non è nostra e questo non può esser vissuto come disperazione perché la disperazione stessa, non è nostra e questo ci slancia in spazi nuovi, liberi, ma non sono neppure spazi… forse la parola giusta è abbandono, un abbandono così profondo da essere più profondo di ogni idea di abbandono.
Franco Bertossa è nato nell’Istria Italiana nel 1954 dalla quale la famiglia fuggì in seguito alle persecuzioni del regime comunista. Dopo un periodo di peregrinazioni si stabilì con la famiglia a Bologna, dove Bertossa vive tuttora. Maestro di meditazione di indirizzo buddhista e di arti marziali, pratica da oltre trent’anni queste discipline che ha avuto modo di perfezionare in prolungati soggiorni in Oriente. Quello che egli chiama “il risveglio al mistero dell’essere”, accadutogli nella primavera del 1980, lo ha portato ad impegnare interamente la sua vita nell’approfondimento e nella trasmissione di questo significato fondamentale per ogni essere umano. Attualmente è impegnato nell’insegnamento presso l’associazione ASIA dove un gruppo di un centinaio di allievi lo segue in una pratica rigorosa e di lungo corso. Da qualche anno ha fondato il Centro Studi ASIA e si è impegnato nell’avvio di un confronto esperienziale, oltre che teoretico, tra i pensieri filosofico e scientifico occidentali e i modi della conoscenza interiore orientali. Autore di numerose pubblicazioni su riviste specializzate e del volume “Lo sguardo senza occhio” con R. Ferrari, nel ‘95 ha ideato le Vacances de l’Esprit, iniziativa di divulgazione culturale di alto profilo alla quale hanno partecipato importanti intellettuali italiani e internazionali come: Vattimo, Severino, Volpi, Galimberti, Gallese, Luisi, Hofstadter, Batchelor e molti altri.