La linea guida del Buddhismo è bene espressa in:
Una volta il Beato era in una foresta di Simsapa presso Kosambi. Raccolse una manciata di foglie e chiese ai monaci: “Quali pensate, o bhikkhu, che siano più numerose, le foglie che ho in mano o quelle che sono sugli alberi del bosco?”
“Le foglie che il Beato ha raccolto con la mano sono poche, Signore; quelle che sono nel bosco sono molte di più.”
“Allo stesso modo, bhikkhu, le cose che ho conosciuto per esperienza diretta sono molte di più; quelle che vi ho detto sono soltanto una parte.
Perché non vi ho parlato delle altre? Perché esse non portano beneficio, non fanno progredire nella Vita Santa, e non conducono al distacco dalle passioni, al lasciar andare, alla cessazione, alla calma, alla conoscenza diretta, all’Illuminazione, al Nibbana.
Ecco perché non ve ne ho parlato. E che cosa vi ho detto? Questa è la sofferenza, questa è l’origine della sofferenza, questa è la cessazione della sofferenza, questa è la via che porta alla cessazione della sofferenza.
Questo è ciò che vi ho detto. Perché vi ho detto ciò? Perché questo porta beneficio e progresso nella Vita Santa, perché conduce al distacco dalle passioni, al lasciar andare, alla cessazione, alla calma, alla conoscenza diretta, all’Illuminazione, al Nibbana. Quindi, bhikkhu, fate che il vostro compito sia la contemplazione di: “Questa è la sofferenza, questa è l’origine della sofferenza, questa è la cessazione della sofferenza, questa è la via che conduce alla cessazione della sofferenza.” [Samyutta Nikaya, LVI, 31]
Dunque, nell’insegnamento del Buddha, il baricentro imprescindibile è nella sofferenza degli esseri senzienti e, nello specifico, dell’uomo: Prima Nobile Verità. Nelle epoche il Buddhismo ha dovuto sempre fare i conti col dàimon dei luoghi dove si proponeva. I Buddhismi di Shri Lanka, Tibet e Giappone, ad esempio, sono risposte a spiriti del luogo diversi. Basti pensare all’insuccesso di Shantaraksita, all’intervento, invece, riuscito di Padmasambhava e al Concilio di Lhasa che vide il Chan estromesso dal Tibet. Né la elevatissima raffinatezza filosofica di Nalanda né lo zen si confacevano, all’epoca, al dàimon tibetano.
Ogni paese-cultura è caratterizzato da una visione del mondo che ne determina la lettura della vita e della morte, i valori, la progettualità, la felicità e la sofferenza: in ultimo, da un senso. Dunque anche la sofferenza e le vie per superarla sono caratterizzate dal dàimon della cultura specifica in cui essa è patita. Il dolore e la morte stessi sono vissuti e sopportati nell’ambito di un senso oppure sofferti con disperazione cieca senza il supporto in un senso. Ad esempio, quale differenza nell’evento morte nella cultura religiosa tibetana rispetto a quella occidentale contemporanea e quale differenza tra l’atteggiamento musulmano espresso in “Dio dà, Dio toglie. Sia lode a Dio!” e quello, diffuso in Occidente, che non sopporta nessuna…
Nella nostra civiltà, la sfida alla morte, che la nostra cultura scientifico tecnica ha lanciato in modo radicale promettendo una longevità indefinita attraverso interventi genetici, tradisce un pessimo rapporto con la morte, definita “l’ultima malattia da vincere”, ossia con l’impermanenza. L’impermanenza, e con essa ogni limitazione, massimamente la morte, è avvertita come priva di senso. Anche se, da un altro lato, quello nichilista, la vita stessa è considerata, in ultimo, priva di senso. Se, da una parte il Buddha volle affrontare la sofferenza e la sua cessazione, dall’altra il suo progetto non è attuabile se la Seconda Nobile Verità non viene compresa: l’Origine della sofferenza.
Ai fini di un confronto efficace tra Occidente e Buddhismo, occorre che esso sia radicale, pena la trascuratezza di fattori determinanti. Ne segue che occorra chiedersi che cosa caratterizzi la sofferenza dell’Occidente contemporaneo; sofferenza che, è prevedibile, caratterizzerà via via tutta l’umanità per via di quel processo, mosso e convogliato dalla tecnica, che è la “europeizzazione del mondo” attraverso gli ambasciatori scienza e tecnica.
Scienza e tecnica hanno indebolito i tradizionali e classici riferimenti di fondazione, etica e senso fornendo, o promettendo, spiegazioni più efficaci di quelle religiose su pressoché tutti gli eventi della nostra vita. Scienza e tecnica non si pongono limiti di principio nella indagine e prospettiva di spiegazione di ogni contesto dell’esperienza umana, in vita, lavoro e ambiente. Oggi, in particolare, la meta è di chiarire in toto l’esperienza umana in una chiave incentrata sulle neuroscienze.
Scienza e tecnica si sono proposti, fino ad oggi, come interlocutori occidentali privilegiati del Buddhismo attraverso gli incontri del Mind and Life Institute, ad esempio. Scienza e tecnica, però, rispondono solo a tre domande circa un fenomeno:
- Come è strutturato?
- Come si comporta?
- A cosa serve?
Esse non si cimentano con significato, senso o valore dell’esistenza, se non in termini che siano riportabili alle tre domande suddette.
Naturalmente in noi v’è la domanda di senso della nostra esistenza:
- Perché esistiamo?
- Perché c’è un Universo invece di niente?
- Che senso ha esserci?
- Come affrontare il niente che devasta le nostre vite? (abbandono, malattia, vecchiaia, morte…)
Se, col cappello dello scienziato, secondo l’espressione di Francisco Varela, si tentasse di riportare la spiegazione dell’esistenza del mondo alla fluttuazione del vuoto quantistico “pre” Big Bang, allora perché il vuoto quantistico invece di niente? Se, col cappello buddhista, si portasse la risposta alla Originazione Dipendente, perché questa catena causale invece di niente? Infine, nessun Dio può essere causa originaria o risposta, poiché Dio stesso “è” – infatti non è un mero nulla, altrimenti il teista sarebbe indistinguibile dall’a-teo. Che anche Dio sia, lo pone sul piano della ingiustificatezza esistenziale: perché Dio invece di niente? Quale è la causa della causa, quale la ragione della ragione?
È la “morte di Dio”, proclamata da Nietzsche.
L’europeo, dopo Leibniz, Schelling, Nietzsche, Heidegger e Sartre – ossia dopo la loro maturazione della domanda fondamentale “perché vi è qualcosa invece di niente?” e della domanda di senso e dopo la presa di coscienza che esse resteranno per sempre irrisolte in quanto mistero insormontabile nel quale ci ritroviamo gettati (samsara, per il Buddhismo) – ha scoperto di essere privo di fondamento ultimo e dunque di senso.
Lungo la via della consapevolezza della perdita di ogni senso matura il Nichilismo, oggi dominante sebbene in tante declinazioni e sfumature.
Nietzsche aveva esordito con:
Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché? [Frammenti postumi, 1883-88]
Così in L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre dice che l’uomo, ad ogni istante, ha tutte le possibilità di scelta, ma nessun criterio assoluto per decidere.
Il Buddhismo è la sola tradizione religiosa che affronta il niente nelle declinazioni di
a-vidya: niente di conoscenza originaria
a-nitya: niente di permanenza
an-atman: niente di essenza intrinseca
shunyata: vacuità
Il Buddha non ha temuto di mettersi in gioco integralmente, di restare solo col suo “non so” e di votarsi alla risoluzione della sofferenza derivante dal suo ritrovarsi ad essere senza un fondamento. Egli non ha fornito fondamenti, al contrario ci ha mostrato come guardare l’infondato, il mistero originario e vuoto senza depressione o terrore. È auspicabile un confronto alla radice tra Occidente e Buddhismo sul terreno della sofferenza, della sua causa, della sua cessazione e della via per la cessazione della sofferenza.
D’altra parte, con quale Buddhismo confrontarsi senza tenere presente ciò che lo caratterizza essenzialmente? L’Occidente versa nel vuoto di senso. Ha visto il problema alla radice, e forse lo ha espresso più radicalmente dell’Oriente, ma non conosce le strategie di soluzione del disagio derivante da tale presa di coscienza. Il Buddhismo, invece, conosce la Via che porta alla soluzione ed è espressa come Quarta Nobile Verità. Questo è il confronto da fare: entrambi abbiamo qualcosa da insegnare e qualcosa da imparare. L’Umanismo, d’altronde, non può sperare di sopravvivere al dominio della lettura scientifico-oggettivante dell’esperienza umana se non si basa su ciò che di oggettivato non ha proprio nulla, ma che, anzi, la scienza si trova ad esaltare suo malgrado: il vissuto della epocale perdita di senso dell’esistere.
Insegno da oltre trent’anni secondo questa prospettiva e ho visto moltissima gente patire gravemente la perdita di senso. Tale sofferenza è, però, ben affrontabile con risultati solidi e permanenti.
Un problema si evidenzia: a chi può rivolgersi chi in Occidente patisca di tale smarrimento? Il ruolo del pastore religioso tradizionale non pare essere adeguato; quello dello psicologo neppure. Una collaborazione con la psicologia, però, è auspicabile. Chi abbia vissuto momenti “metafisici” in solitudine e incapace di elaborare alcun significato da tali esperienze, ha facilmente confuso i sapori genuinamente esistenziali con quelli di sofferenze relazionali, psicologiche; vi si è trovato come un bambino in balìa di un evento soverchiante. Inoltre, spesso tali paure vengono aggravate da vissuti negativi scatenati dall’uso di droghe per cui il giovane teme, poi, di rivisitarli nei percorsi meditativi.
Io propongo che sia il Buddhismo a forgiare tale ruolo.
Naturalmente occorre prima prendere coscienza del problema ed avviare una cultura della comprensione della “fine del senso”. Il Postmodernismo – ben espresso da Lyotard: Semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle meta narrazioni [La condizione postmoderna] – è stato l’espressione compiuta della perdita di un senso centrale della storia e dell’esperienza umana in generale. Dunque ci si ritrova ad esistere senza risposta circa il “perché?”, e ciò definitivamente e senza appello.
La vacuità – Shunyata – non teme ciò, anzi potrebbe essere il luminoso “topos” del post-Posmoderno. Se la perdita di senso getta nello smarrimento e nella sfiducia che la sofferenza più profonda possa mai avere termine, il Buddha dice, e noi lo confermiamo, che, al contrario, la sofferenza può avere termine: Terza Nobile Verità. Gli Upaya – i mezzi e le vie di tale insegnamento – adeguati alla nostra civiltà sono il gradino successivo: Quarta Nobile Verità.
Articolo comparso sulla rivista Non credo n.° 28