1. Coscienza e domanda
Attorno al tema dell’esperienza cosciente vertono sia filoni importanti della filosofia e della scienza Occidentali sia le millenarie tradizioni Orientali dell’Induismo e del Buddismo, che propongono non solo modelli teorici ma Vie di ricerca realizzative.
È possibile coniugare il rigore del Logos sviluppato dalle prime con la pratica e l’esperienzialità dello sguardo interiore coltivato nell’altro ambito?
Per affrontare il tema di cosa sia l’esperienza cosciente, la cognizione, la soggettività – ossia qualcosa che riguarda ciascuno di noi in prima persona – credo dovremmo chiederci quale sia la domanda più originaria che possiamo porci a riguardo.
Nella modalità oggettiva di conoscenza, per raggiungere risultati validi, si procede secondo un metodo scientifico che consente di comunicare su fatti verificabili dalla comunità dei ricercatori.
Possiamo adottare la stessa metodologia anche quando l’indagine sulla coscienza è condotta in prima persona?
Come può il soggetto che indaga se stesso condividere con altri ciò che ha notato guardando dentro di sé? È possibile raggiungere la medesima validità di ciò che si scopre secondo un processo oggettivo in terza persona?
Riguardo alla questione su quale sia la domanda preliminare sull’esperienza cosciente, possiamo chiederci se questa stessa domanda sia di carattere scientifico o piuttosto filosofico. Probabilmente contiene in sé aspetti di entrambi gli ambiti; in quanto deve perseguire un certo rigore logico, non contradditorio, e allo stesso tempo, riguardando dei processi di acquisizione di conoscenza, deve porre la questione della loro stessa origine.
Noi ci interroghiamo ma non vogliamo dare per scontata ed acquisita questa capacità: perché ci facciamo delle domande? Che spinta è quella che le fa affiorare?
Proprio mentre poniamo in questione la domanda, ci stiamo facendo una domanda…
L’evento-domanda è in atto, ci sta muovendo e va sondato a fondo in quanto, se questionandolo (cercando di capirlo, conoscerlo) si ripropone, affiora come un punto di partenza insormontabile.
Possiamo considerare lo stato interrogante una delle qualità più essenziali dello “sguardo” che anche in questo momento s’affaccia sul mondo?
Della domanda, possiamo notare due aspetti. Uno riguarda i contenuti che essa può esprimere, legati ad una certa struttura concettuale, ad uno specifico background storico e culturale. Un altro aspetto è quello che potremmo chiamare “stato di domanda”, una sorta di sostrato sul quale prendono forma le parole e i costrutti sintattici specifici.
Lo stato di domanda affiora ogni volta che restiamo stupefatti e non abbiamo ancora trovato la formulazione adatta ad esprimerlo. Viviamo allora uno stato sospeso, non ancora “saziato” da quel contenuto che ci dà il sapore di una risposta.
L’aspetto della domanda che io considero insormontabile è questo primo atteggiamento, questo stato che non coincide con alcun contenuto specifico.
Cosa significa allora partire dalla nostra domanda? Possiamo subito chiederci perché vada fatto ma, non appena ci accingiamo a farlo, confermiamo e rilanciamo il domandare come inizio inaggirabile dell’indagine.
Nel campo dell’esperienza ci si presenta qualcosa che ci tocca e suscita in noi uno stato di domanda. Questo può svilupparsi secondo differenti modalità culturali, ma rimane come un nucleo-sorgente irriducibile di ogni esperienza in generale.
Chi ha avuto modo di osservare lo sguardo di un neonato nei suoi primissimi giorni di vita, avrà notato un intenso stato interrogante, una sorta di perplessità tranquilla ma molto profonda. È il modo di guardare di chi ancora non dispone di una articolazione verbale ma solo incontra degli eventi sconosciuti e si accende in uno stato non neutrale.
Con il tempo e con l’educazione, le persone imparano ad associare delle parole a ciò che vivono ma, da principio, ogni irruzione di qualcosa nel nostro campo di coscienza ci propone la sua sconosciutezza e innesca in noi uno stato precursore di tutte le successive articolazioni, e quindi da questo il bisogno di una risposta.
Se qualcuno volesse criticare quel che ho appena enunciato, non potrebbe farlo che con delle domande e con ciò confermerebbe che la domanda é un evento originario, attraverso il quale ci affacciamo sul mondo.
Di solito, chiedendoci come si produca e che cosa sia una domanda, non ci soffermiamo tanto sul domandare stesso, ma ci ritroviamo quasi subito sbilanciati in ipotesi e tentativi di risposta. Dovremmo comunque ammettere che non ci può essere risposta se prima non è stata posta una domanda e quindi, in ogni caso, emerge che a governare il processo di comprensione é la domanda.
Le risposte sono gli intendimenti, le interpretazioni conclusive a proposito di noi stessi e del mondo, che fungono da gradini più o meno stabili su cui poggiamo e da cui rilanciamo il nostro stesso sguardo sul mondo.
Avendo individuato nello stato interrogante il nucleo più essenziale dello sguardo cosciente, e il suo ruolo originario nel dare impulso e forma ad ogni processo di conoscenza, dobbiamo chiederci allora di che natura sia la domanda più originaria che possiamo farci sulla coscienza.
2. La fenomenologia e l’Aurora del mondo
A quali strumenti possiamo attingere per sviluppare la nostra indagine sulla coscienza e sulla sua essenziale caratteristica di domandarsi?
La tradizione filosofica Occidentale ci fornisce a questo riguardo le irrinunciabili indicazioni metodologiche della Fenomenologia, che presenta notevoli affinità e convergenze con le pratiche della meditazione coltivate in Oriente.
La fenomenologia è un indirizzo filosofico inaugurato ai primi del ‘900 da Edmund Husserl. La sua prima e formidabile indicazione ci dice che noi non possiamo che avere a che fare che con dei fenomeni perché la realtà, innanzitutto, ci appare, ci si manifesta.
Una mano, un pensiero, una sensazione, una persona, un’ispirazione, un desiderio, ci appaiono, dischiudono il proprio contenuto rilasciando un peculiare sapore di esperienza. Ciò che chiamiamo “mondo”, ciò con cui costantemente ed inevitabilmente abbiamo a che fare, non è altro che una collezione di fenomeni.
Questa apparentemente elementare osservazione ha in realtà una potenza deflagrante in quanto incrina l’abituale e ingenua convinzione nell’esistenza in sé degli oggetti, di un mondo indipendente da chi lo esperisce, ma nega al contempo che possa esistere una dimensione di assoluta soggettività.
Non ci può essere, cioè, un Puro Soggetto, un Io Assoluto, o Atman, di cui si parla sia nell’Induismo sia nelle tradizioni filosofiche idealiste, inteso come uno sguardo che possa splendere senza contenuto.
Di questo eventuale sguardo, infatti, dovremmo farne esperienza e questa non può essere altro che un fenomeno. Sotto il nome di “fenomeno” vanno dunque non solo le esperienze percettive, ma anche quelle relazionali e concettuali, tutto ciò con cui entriamo in contatto e che rilascia una traccia.
Riconosciuto il fenomeno come fondo irriducibile di ciò che accade, Husserl si chiede quale ne sia l’essenza, ciò senza cui un fenomeno non sarebbe proprio quel che esso é.
Da questa formidabile e radicale impostazione dello sguardo cosciente prendono piede le più significative forme espressive artistiche, letterarie e filosofiche che hanno caratterizzato il ’900.
Le straordinarie opere di Morandi, Mondrian, Proust, e tanti altri, scaturiscono da questa “possibilità” di approccio. Il pittore Paul Klee, ad esempio, tenta nei suoi quadri di rendere il mondo come lo vedrebbe un bambino, senza costrutti o interpretazioni acquisite ma in una modalità molto prossima a quella che lui amava definire l’ “Aurora del mondo”.
3. Come riaccedere al punto-sorgente del pensare? Heidegger e la Differenza Ontologica
Sulla via aperta dalla fenomenologia si innesta colui che io considero il grande Bodhisattva d’Occidente, il pensatore che ci ha aperto le più radicali possibilità della interrogazione filosofica: Martin Heidegger.
Nella Prolusione che inaugurò nel 1929 il suo insegnamento all’Università di Friburgo, egli enunciò il punto di partenza, la scaturigine di un percorso di pensiero che si sarebbe sviluppato nei successivi cinquant’anni.
Il celeberrimo testo Che cos’è metafisica? descrive in realtà un punto-sorgente che non è né una speculazione né una deduzione ma un’esperienza, un evento illuminante che Heidegger considerava irrinunciabile per il pensiero e che in quell’occasione egli volle descrivere in termini fenomenologici. Questo accadimento dischiude alla coscienza il fatto dell’essere, Das Dass. È la scoperta di ritrovarsi esistente che si dona nella tonalità emotiva della Angst, la cui traduzione nel termine “angoscia” troppo facilmente ci depista verso la ordinaria accezione di ansietà psicologica.
Si tratta invece di un evento preziosissimo, da non impregnare troppo avventatamente con le tinte dello spaventoso o dell’inquietante, perché, per come lo descrive Heidegger, è piuttosto una “Chiara notte”, una intuizione assimilabile al Satori di cui si parla nella tradizione Zen.
In una lettera scritta all’amico filosofo Karl Jaspers, Heidegger data la sua personale esperienza attorno agli anni ’10-‘12, precisando che in conseguenza di quella profonda intuizione egli fu come “sbalzato fuori dalla teologia”, e da allora in poi si sentì come un albero “al contrario”, che non cresceva più nella direzione dei rami ma delle radici. Trattandosi dell’esperienza che svela la Verità dell’essere, non lascia fuori niente di più radicale e, in questo ambito, Dio non può più costituire un fondamento per ciò che esiste.
Come racconta l’allievo Walter Biemel (1) Heidegger visse una ulteriore personale esperienza – relativa al ruolo del nulla nella comprensione dell’essere – nel 1928 sulla neve in una giornata di sci; questa intuzione del nulla gli chiarì il significato della Angst il quale in Essere e Tempo era ancora mancante (2).
In cosa consiste questo singolare evento capace di risvegliarci al fatto dell’essere?
Durante i seminari organizzati a Le Thor dal filosofo francese Jean Beaufret, Heidegger, rifacendosi al filosofo greco Parmenide, si espresse dicendo che dobbiamo tornare a considerare che “è presente l’essere presente”.
Di solito diciamo che è presente qualcosa, la tal persona, il tal oggetto: cosa significa che è presente l’essere presente? Che verità trapela da questo “raddoppio” della presenza?
Qui incontriamo il perno del pensiero heideggeriano, una chiarificazione senza la quale non credo sia possibile pensare in termini davvero profondi.
Per Heidegger il pensare va distinto dal calcolare, si tratta di gettare uno sguardo profondo nella verità dell’esistenza e non di muoversi in una mera combinatoria di pensieri.
In questo senso la Angst, in quanto esperienza diretta del fatto d’essere, è l’accesso più autentico al pensiero. Il pensare profondo è quindi illuminante e intuitivo, accende domande che scaldano il nostro cuore, muovono le nostre viscere e non possono poi più essere messe a tacere.
Per praticare questo livello di pensiero, non possiamo ignorare il significato della “differenza ontologica”, luogo-chiave della riflessione heideggeriana, che è possibile illustrare in modo molto semplice e accessibile anche ora.
Di solito noi partiamo da un oggetto o, più in generale, da un ente, cioè da una porzione di realtà che riconosciamo o attraverso cui riconosciamo il resto. Anche le categorie, i concetti, gli strumenti di conoscenza sono in questo senso enti, essenti.
Se prendiamo in considerazione un ente qualsiasi, di solito ne cogliamo le modalità e ci sfugge che in realtà esso presenta due facce: la sua “oggettità”, il suo essere qualcosa, che è ciò che ci balza immediatamente agli occhi, e la verità, cioè il fatto che esso c’é.
Questo secondo aspetto non viene quasi mai colto subito ma non è certo secondario quanto ad importanza, contiene infatti la verità dell’essere.
Ognuno di noi è un complesso organismo fisico, biologico, psichico ed emotivo e poi é esistente. Nel fatto che esistiamo ci si mostra la verità d’essere di questo organismo in cui di solito ci identifichiamo integralmente.
Come scrive Heidegger nella sua Lettera sull’umanismo, questa abissale differenza ordinariamente ci sfugge e così coltiviamo il pensiero, sviluppiamo la conoscenza, tralasciando completamente la verità dell’essere.
Come è stato possibile che la lunga e gloriosa tradizione dell’Umanismo si sia sviluppata senza la necessità di mettere in rilievo questa verità fondamentale? Come è accaduto che l’uomo si sia perso nell’analisi degli enti e delle loro relazioni senza quasi mai soffermarsi sul fatto che tutto questo sta esistendo, che c’è? E noi, come possiamo ri-accedere a questo punto nodale della nostra esperienza?
La distinzione tra le cose, gli enti e il loro fatto d’essere affiora in modo lampante e cristallino in uno specifico pensiero che è sempre a nostra disposizione.
Quando prendiamo in considerazione un evento nella nostra mente, per esempio ciò che stiamo pensando adesso, possiamo senz’altro affermare che quelli che stiamo producendo sono dei pensieri. Muovendoci sul piano delle caratterizzazioni, siamo in grado di riconoscere tra l’assenza di pensiero oppure il suo darsi, tra una percezione visiva ed un pensiero, che è quindi un fenomeno con una peculiare caratterizzazione qualitativa.
In questo modo possiamo pervenire ad un pensiero-limite dalle grandi potenzialità, il pensiero che dice che c’è pensiero.
In esso riconosciamo l’ente-pensiero ma, se lo guardiamo più a fondo, cogliamo che nel suo significato affiora anche il fatto che esso c’è.
Qui possiamo intuire chiaramente il senso della differenza ontologica introdotta da Heidegger, in quanto ciò che è caratterizzato come pensiero si mostra anche essente. L’essere che affiora non è però riducibile al solo pensiero, non è quindi un prodotto della mente o una categoria astratta ma una verità che riguarda qualsiasi ente in quanto ente.
Fra le nostre potenzialità coscienti e cognitive c’é dunque anche quella di vivere un evento di consapevolezza che ci mostra il fatto d’essere di ogni cosa, incluso quello stesso evento di conoscenza. Siamo molto lontani da questa possibilità essenziale quando prendiamo in considerazione i singoli enti, perché l’autentico schiudimento della dimensione esistenziale umana è nel vedere che ogni ente esiste.
Fenomenologicamente, la verità dell’essere affiora nell’impatto con quello che Heidegger chiama “l’ente nella sua interezza”, il tutto. Sebbene mai potremmo collezionare la totalità degli enti, nondimeno ci è possibile fare l’esperienza del tutto come universo essente. Da questo punto di vista, non è tanto rilevante come una cosa è quanto il fatto che c’é.
4. I dubbi su come il mondo é. La certezza che “qualcosa” c’é
Qualcosa sta essendo e noi possiamo accedere a questa verità nella sua interezza, non come somma di tanti fatti ma attraverso il significato di essere, che accomuna tutti i fatti possibili dell’universo, presenti, passati, futuri, compresi quelli di cui mai avremo diretta esperienza.
Che la realtà sia limitata, infinita, che sia solo un sogno o indipendente da noi, non scalfisce la verità dell’essere, la verità che qualcosa, comunque sia, sta essendo.
Se ci disponiamo ad una osservazione lucida e rigorosa, dobbiamo ammettere che non possediamo molte certezze sul mondo. Effettivamente ne abbiamo solo delle sensazioni, delle percezioni: esiste la realtà indipendentemente da me che la percepisco?
Ognuno di noi ne é intimamente convinto, ma ne possiamo avere la certezza? A ben vedere resta un dubbio di fondo, il mondo potrebbe effettivamente essere limitato alle percezioni, ai ricordi e alle idee che ne abbiamo ora, oppure potrebbe essere una vastissima realtà senza confini, ma, sostanzialmente, queste due opposte possibilità non possono annullare il fatto che un mondo c’è e ci si manifesta.
Cosa accade quando ce ne rendiamo conto, quando in noi affiora la consapevolezza che un mondo, e noi stessi, ci sono?
Se osserviamo il darsi di questa realizzazione, noteremo che essa è accompagnata dalla voce emotiva della stranezza, che ci parla di qualcosa che non é afferrabile, esauribile e conoscibile a fondo.
Nel sapore emotivo della stranezza, dice Heidegger in Che cos’è metafisica?, accade che il mondo letteralmente “ci sfugge di mano”. L’essenza della Angst ci mozza la parola, e in sua presenza “ogni dire «è» tace al suo cospetto”.
In quel momento inafferrabile, illeggibile dal punto di vista della ordinaria conoscenza modale, tutto ciò che sappiamo del mondo viene messo tra parentesi e sembra non valere più. La realtà ci si presenta nella sua misteriosa sconosciutezza e, scrive sempre Heidegger, «se l’uomo può ancora una volta giungere alla vicinanza dell’essere, allora deve prima imparare ad esistere in ciò che è senza nome.»
Ciò che è senza nome non è solo la scintilla cosciente che sta guardando al centro di noi stessi anche ora, ma tutto, ogni cosa essente.
5. Essere-invece-che-niente: l’irruzione dell’infondatezza
Il nome alle cose lo diamo solo successivamente ad un originario impatto con l’assolutamente ed intrinsecamente misterioso, il senza nome che Heidegger chiama anche Das Nichts, il Nulla di possibilità qualificanti che ci rivela che l’ente c’è, che non è niente. Quel che incontriamo davvero nell’ente è in ultimo la sua totale alterità rispetto a niente.
Ciò che è, infatti, c’è-invece-che-niente e l’ “invece” è uno strano ponte tra la sponda di tutto ciò che accade, inclusi noi stessi, e una sponda… che non c’é.
È un ponte che non riesce a collegare i termini essenziali e radicali di essere e niente. Questo equivale a dire che questo mondo, questa nostra esistenza, sono infondati, non poggiano su nulla, non hanno una derivazione né una giustificazione. Tutto questo non è riconducibile ad un creatore perché, se pure ci fosse, sarebbe anch’egli essente e quindi altrettanto infondato.
Questo può aiutarci a comprendere meglio perché Heidegger, nell’intuire la verità dell’essere, si sentì “sbalzato fuori dalla teologia”!
Tutto ciò che c’è si trova ad essere, a “negare” il niente e in questo “invece-che-niente” risiede l’impossibilità di ogni fondamento e di ogni derivazione. Anche se l’universo fosse eterno, esistesse da sempre, il significato di “niente” permarrebbe immutato perché legato all’ “invece-che-essere”. I termini “essere” e “niente” non vanno messi in relazione, come sovente accade, nel senso di un passaggio da niente a qualcosa o da qualcosa a niente. Un passaggio, una trasformazione, può avvenire da qualcosa a qualcos’altro, non da “ciò” che non c’è a ciò che c’è o viceversa. Ciò che è, che ci sia o no da sempre, è-invece-che-niente.
Ma pensare adeguatamente essere e niente, intendere profondamente la loro relazione, non è un compito facile, e non è infrequente cadere in trappole svianti. Ci si figura ad esempio il niente come una sorta di “ambito” da cui sarebbe sorto l’essere, ma niente non può essere neanche uno spazio vuoto o un’assenza precedente l’essere. (3). Niente é l’alternativa non verificata di questo stesso istante. Proprio ora, infatti, invece-che-niente si dà qualcosa.
L’ ‘invece” non è però un termine a cui ci possa accostare indifferentemente, con un disinteressato e neutrale approccio teoretico, perché è ciò che letteralmente ci ustiona la mente. Quando realizziamo veramente che si dà qualcosa invece-che-niente, e con questo che l’essente non può avere una ragione né una derivazione, ma è assurdamente e impossibilmente esistente, non possiamo non essere attraversati da una fiammata nel cuore che ci lascia in un profondo sconcerto.
Nella gamma delle tonalità emotive che ci attraversano, giace la possibilità di essere risvegliati a profondi e radicali significati. Attraverso lo stupore, la meraviglia, l’ammirazione, la noia, i momenti di vuoto, ci parlano i significati di essere e di niente.
Qual è, allora, la domanda più fondamentale che possiamo porre sull’esperienza cosciente?
È possibile avviare i passi di un’indagine sulla conoscenza, sulla coscienza, a prescindere dal “fatto” originario dell’essere? È possibile tralasciare il fatto che siamo in grado di sapere del nostro essere, della nostra mente, e che sappiamo anche di sapere d’essere?
6. La sapienza che viene dalla Differenza: guardare il mondo… “dal niente”
Se possiamo avere accesso a questa indubitabile verità, dice Heidegger, è perché l’essenza dell’uomo, che lui chiama Esserci (Dasein) è di “essere tenuto nel niente”.