L’interesse per gli studi sulla coscienza, da una ventina d’anni, cresce in modo esponenziale. Le pubblicazioni e i convegni su quello che pare essere l’ultima frontiera della ricerca si moltiplicano.
Proviamo a fare un punto della situazione.
Oggi la suddetta ricerca è affidata alla scienza e non esiste altro dominio di esperienza umana a cui sia riconosciuta idoneità a studiare la coscienza.

La filosofia si è defilata e solo i filosofi che hanno accettato gli argomenti neuroscientifici hanno ancora voce ascoltata (Dennett, Searle, Thompson…).
Ma è la coscienza una materia di competenza esclusiva, o anche solo principale, delle scienze?
No, per due motivi almeno.
La scienza sottostà al postulato di oggettività e alla metodologia dell’osservatore distaccato e non commisto all’evento osservato. Il postulato di oggettività predica che noi rileviamo dati da un mondo esterno a noi osservatori distaccati e li immagazziniamo e processiamo attraverso il rigore logico. Vige, quindi, un ferreo principio di transitività, ossia io – osservo e descrivo – qualcosa (soggetto, predicato, complemento oggetto) e in ciò l’osservante non deve essere coinvolto nell’osservato.
Orbene, la coscienza è soggetto di conoscenza.

“Soggetto: unità sintattica essenziale indicante la persona o la cosa che compie o subisce l’azione espressa dal predicato istituendo con questo un nesso inscindibile ed autonomo.”[1]

Che ciò sia vero lo comprovo se dubito se ciò sia vero. Io soggetto istituisco così con il dubbio stesso un nesso inscindibile ed autonomo: il soggetto dubitante.
Allo stesso modo si dà un osservante. Ma se l’osservante è affacciato sull’osservato, esso stesso, in quanto operatore dell’osservare, non è osservabile. Si evince facilmente che il limite dell’approccio scientifico canonico alla coscienza è la transitività del processo di conoscenza: osservo il mondo, critico i dati raccolti e formulo risposte.

L’osservatore in quanto tale non rientra, per definizione, nell’osservato a meno di cessare d’essere osservatore e si trasformi in osservato, alienandosi però dalla propria natura di osservatore.
La scienza si trova ad assumere, poi, un secondo postulato, quello di omogenità tra soggetto ed oggetto: che ciò che vale per l’oggetto valga per il soggetto. Ossia il soggetto (la coscienza) non sarebbe altro che un oggetto tra gli altri (o funzione o emergenza da oggetti) chiamato “soggetto”.
Si dimentica così l’insormontabile ed irriducibile apertità dello sguardo sul mondo, sguardo visitabile solo coincidendo con esso e conoscibile solo essendolo. E questo è esperibile in meditazione, non nella transitività dell’osservazione oggettiva dove soggetto ed oggetto si confondono nella vittoria della oggettività.

Ma cos’è coscienza? Cosa fa la coscienza? Innanzitutto si chiede di questo. Poi discerne, fa inferenze, ricorda, giudica, fa previsioni…
Queste sono facoltà della coscienza. Manca qualcosa, però: essa sa di essere e questo è il vero spartiacque tra scienza e coscienza.
Essere
non è di pertinenza della scienza in quanto non è qualcosa di specifico ma riguarda tutto, e non è computabile. Sartre scrisse ne La nausea:

“L’esistenza non la puoi mai dedurre; la incontri.”

Sapere dell’essere è la fondamentale tra le capacità della coscienza. Io oso dire: è la coscienza.
Quali algoritmi dovremmo elaborare per calcolare di essere?
Certamente discernimento, inferenza, memoria, giudizio, previsione sono funzioni che possiamo sperare di vedere, un giorno, attuate in modo stupefacente in una macchina, ma il saper d’essere no, per il semplice fatto che non è possibile elaborare operazioni che lo diano come esito.
La scienza può permettersi di non occuparsi dell’essere, le basta limitarsi alle funzioni di rilevare, discernere, inferire, ricordare, rappresentare, giudicare, fare previsioni, aprire scenari…

Ma che significa che qualcosa è?
Significa che non è mancante. Che significa che coscienza c’è? Che la coscienza sa della propria non nientità, della propria non assenza; che sa di esserci. Negarlo, o anche solo dubitarne, lo comproverebbe, in quanto dubitare e negare sono atti di coscienza, che perciò esiste, invece che non esistere.
La coscienza sa d’essere e dell’essere del tutto.
Essere, cioè il fatto d’essere, trova il suo significato più proprio come “il totalmente altro rispetto a niente”.
Essere e niente non sono meri concetti in quanto i concetti ci sono invece che niente. Questo lo comprendiamo. C’è comprensione invece che niente. Se non lo comprendiamo: niente comprensione invece che comprensione. Essere e niente non sono meri concetti, sebbene il loro significato si esprima attraverso il concettuale.
E se l’Universo è il tutto, la mancanza di un secondo Universo non è un concetto: esso non c’è proprio, se ne dà il niente.
Da ciò: perché c’è l’Universo invece di niente?

Qui va introdotta l’intuizione geniale di Heidegger su la differenza ontologica tra essere ed essente.
Essente (si usa dire “ente”) è ogni cosa che è, e, inteso come il tutto essente, è colto nel suo essere, ossia nel fatto d’essere, espresso dal verbo “essere”: la verità sul tutto è “che è”.
Sapere che quel che c’è, c’è! pare una banalità, mentre è una verità sconvolgente.
Nelle parole di Heidegger in Domande fondamentali della filosofia:

“… la pura sobrietà del pensiero è in fondo solo il più severo trattenersi in sé della suprema disposizione emozionale, quella cioè che si è aperta di fronte a quell’unico fatto mostruosamente spaesante (dem einen einzigen Ungeheuren): che l’ente è e non è piuttosto non è.”[2]

Che la coscienza sussulti di questa consapevolezza mi pare essere il suo precipuo.
Ridurre la coscienza alle sole funzioni mentali quali rilevare, immagazzinare e rappresentare, patisce dei limiti di chi vede la propria coscienza capace solo di questo. Comprendo, seppure a fatica, gli scienziati, per via della loro disposizione professionale, ma molto meno i filosofi. Oppure, triste a dirsi, la filosofia è semplicemente finita, consegnata al dominio dell’oggetto, della funzione e dell’uso.
Il vero discrimine nell’indagine sulla coscienza sta nella differenza tra chi coglie il senso profondo dell’essere consapevoli d’essere e chi no. Infatti l’umanità si partisce in due: chi sa dell’ungeheuerlich (il mostruosamente spaesante) dell’essere e chi no, e gli indirizzi d’indagine che conseguono s’inoltrano per vie del tutto diverse; quel che varrà come risposta per coloro per cui essere ha quel significato non varrà per gli altri, e viceversa.
Il test di Turing[3] va completato dalla seguente esigenza: che le risposte, per essere omologabili a quelle umane, includano anche soluzioni di koan, altrimenti invece che dover accettare che la macchina calcolatrice sia assurta a livelli umani, dovremo rassegnarci al contrario: che l’uomo sia decaduto al poco di cui è capace una macchina.

“Tutti conoscono il suono di due mani che applaudono. Qual è il suono di una mano?”, recita un famoso koan di Hakuin (1686-1769).
Se sicuramente si può spiegare in termini causali il suono prodotto da due mani che battono, qual è la risposta al suono di una sola mano, il suono del mistero della sua esistenza? Non ci si arriva certo con la logica e la scienza ha come suo proprio ed essenziale di procedere logicamente.
È senz’altro di pertinenza della scienza lo studiare certe funzioni della mente e certi stati di coscienza (veglia, sonno, allucinazioni, patologie, ecc…); rientra nelle sue specificità transitive ed oggettive e ciò comporta benefiche ricadute sulla medicina e sugli strumenti che ci facilitano la vita, ma con ciò essa neppure sfiora l’essenziale della coscienza stessa di chi svolge tale ricerca: che essa può risvegliarsi al mistero, tremendo ed affascinante, di essere.

Tratto dall’articolo “Cos’è coscienza?” di Franco Bertossa comparso sulla rivista  “A.S.I.A. Antiche e moderne vie all’Illuminazione”, n. 27 Dicembre 2006

Sullo stesso argomento:

Note:

[1] Devoto, Oli. Dizionario della lingua italiana, edizioni Le Monnier.
[2] Martin Heidegger, Domande fondamentali della filosofia“, edizioni Mursia, La filosofia da venire e il ritegno come disposizione emozionale fondamentale del riferimento all’Essere (Seyn). Traduzione nostra:

“La pura sobrietà non è niente, tanto meno solo il mancare di una disposizione emozionale, né è la semplice freddezza del concetto irrigidito; la pura sobrietà del pensiero è in fondo solo il più severo trattenersi in sé della suprema disposizione emozionale, quella cioè che si è aperta di fronte a quell’unico fatto mostruosamente spaesante (dem einen einzigen Ungeheuren): che l’ente è e non è piuttosto non è.
Questa disposizione emozionale fondamentale della filosofia, ossia della filosofia a venire, posto che sia possibile dirne immediatamente qualcosa, nominiamo: il ritegno (Verhaltenheit).
In esso sono originariamente uniti e appartenente uno all’altro: lo spavento di fronte al fatto più vicino e più invadente, che l’ente è e al contempo il timore di fronte al fatto più lontano che nell’ente e prima di ogni ente essenzieggi (west) l’Essere. Il ritegno è quella disposizione emozionale in cui quello spavento non viene superato e accantonato, ma è, al contrario, preservato e custodito per mezzo del timore. Il ritegno è la disposizione emozionale fondamentale del riferimento all’Essere, in quale riferimento la segretezza (Verborgenheit) dell’essenzieggiare dell’Essere diventa la cosa più degna di essere domandata. Solo chi si precipita nel fuoco consumante del domandare circa questo fatto più degno di essere domandato, ha il diritto di dire di questa disposizione emozionale qualcosa di più del semplice nome.”

[3] Il test di Turing prende le mosse da un gioco, noto come gioco dell’imitazione, a tre partecipanti: un uomo A, una donna B, e una terza persona C. Quest’ultimo è tenuto separato dagli altri due e tramite una serie di domande deve stabilire qual è l’uomo e quale la donna. Dal canto loro anche A e B hanno dei compiti: A deve ingannare C e portarlo a fare un’identificazione errata, mentre B deve aiutarlo. Poiché C non possa disporre di alcun indizio (come l’analisi della calligrafia o della voce), le risposte alle domande di C devono essere dattiloscritte o similarmente trasmesse.
Il test di Turing si basa sul presupposto che una macchina si sostituisca ad A. In tal caso, se C non si accorgesse di nulla, la macchina dovrebbe essere considerata intelligente, dal momento che – in questa situazione – sarebbe indistinguibile da un essere umano.

Da: http://it.wikipedia.org/wiki/Test_di_Turing