Il professor Eugenio Borgna, primario emerito di psichiatria all’Ospedale Maggiore di Novara, è stato anche docente delle Vacances dell’Esprit. La psichiatria e la filosofia del ‘900 sono messe a confronto in questa intervista esclusiva del Centro Studi ASIA ad uno dei più interessanti autori del momento in tema di psicologia e psicopatologia a carattere divulgativo.

Domanda: Professor Borgna, quale percorso l’ha condotta a intraprendere lo studio della psichiatria?

Risposta: il percorso è stato semplicissimo. Dopo la laurea in medicina sono entrato come assistente straordinario e poi come assistente ordinario nella Clinica Neurologica dell’Università di Milano che si occupava allora essenzialmente di malati neurologici e anche di una piccola parte di malati psichici, ma stando in una clinica neurologica la psichiatria era considerata una disciplina insignificante e lontana dal destare interessi culturali, favori scientifici, sennonché il direttore della clinica era tornato dall’America e aveva incominciato a studiare le malattie psicosomatiche che in America negli anni cinquanta stavano rifiorendo. Tornato a Milano, non potendo arrivare alla cattedra di neurologia per ragioni tecniche ha potuto avvicinarsi e poi ottenere la clinica psichiatrica invitando anche me a collaborare con lui. Sono stato allora in un grande ospedale psichiatrico di Milano, ad Àffori, a svolgere alcune ricerche sugli psicofarmaci che in quegli anni venivano scoperti e fra il clima neurologico scientifico della clinica universitaria e il clima psicologico umano di un ospedale psichiatrico, anche se quello di Milano divorato da un’ansia senza fine sui pazienti, ho comunque avvertito l’importanza che aveva, il significato che aveva per me, incontrare persone non tanto sul piano di quello che erano e che sono, i loro disturbi neurologici, organici, somatici, che si curano esclusivamente con farmaci, ma invece l’importanza con effetti psicologici delle malattie neurologiche, cioè con risonanze emotive che i pazienti provavano nei confronti delle malattie di cui soffrivano, ma soprattutto l’importanza che aveva il colloquio medico-paziente nel cercare di capire quali abissi di angoscia o di malinconia c’erano in loro e quale aiuto psicologico poteva dare un medico che contemporaneamente, questo grazie all’insegnamento datomi da mio padre, che coglieva il significato della filosofia e della poesia. L’ospedale psichiatrico di Novara era diretto da un grande psichiatra, Enrico Morselli, che aveva scritto anche dei lavori di straordinaria importanza, mi ha invitato a occupare un posto di primario che si era in quel momento reso libero, allora, conseguita la libera docenza, in psichiatria e neurologia, ho continuato a essere assistente ordinario della clinica fino al 1967 ma contemporaneamente sono stato all’ospedale psichiatrico di Novara, del quale poi diventavo direttore nel 1970.

Quindi destino da una parte che Cazzullo mi mandasse ad Àffori, poi anche una certa allergia che provavo nei confronti della lentezza estrema con cui procede un esame neurologico, fatto di mille piccoli segni indiziari. A Novara sono rimasto fino alla fine, quando si sono chiusi gli ospedali psichiatrici ho lasciato la direzione per assumere la funzione di primario di psichiatria nell’ospedale civile di Novara. L’altra stella che ha segnato il mio destino è stato quello di dirigere a Novara l’ospedale psichiatrico femminile, quello maschile era diretto da un mio collega, essendo la follia femminile infinitamente più aperta di quella maschile, ho potuto scrivere dei lavori anche dopo aver avuto la libera docenza, lavori che sono confluiti anni dopo nei libri che in parte voi conoscete.

Domanda: nel suo ultimo libro “Come in uno specchio oscuramente”, lei cita il professor Galimberti il quale parla dell’età della tecnica come “la riduzione dell’individuo a funzione di un apparato. Il funzionamento è garantito dalla sostituibilità degli individui”. Ma partendo da noi, ognuno sente se stesso in quanto unicità; questo crea un conflitto interiore. Come ciascuno di noi può affrontare questo disagio?

Risposta: certo, i rischi che corriamo tutti sono i rischi di essere destituiti di autonomia, di creatività, di generosità, di lirismo della conoscenza, come lo chiama Nietzsche, che è invece la premessa essenziale per potere realizzare fino in fondo quelle poche o tante risorse interiori che esistono in ciascuno di noi. Sfuggire alle tenaglie esasperate e crudeli della tecnologia non è facile, ci si salva solo se riusciamo ad ascoltare le nostre emozioni, soltanto se riusciamo a vivere la vita come condizionata fino in fondo dal nostro essere in relazione con gli altri, riacquisendo quindi quella profonda correlazione umana che invece la tecnologia tende a distruggere, facendo di ciascuno di noi un automa autistico che può essere autosufficiente senza avere invece bisogno di colloquio, di dialogo, di solidarietà, che sono le condizioni essenziali perché il destino di una persona si realizzi fino in fondo. Come sfuggire? Dipende dalle doti che abbiamo, dalle speranze che vivono in noi, dalla volontà di sfuggire la routine e di recuperare soprattutto la novità e l’originalità di ogni incontro che abbiamo con gli altri. Poi, anche ascoltando quello che i libri di poesia, i romanzi, i filosofi, qualche libro di psichiatri, cercare di salvare la propria identità mantenendola in una comunicazione continua con quella degli altri, sfuggendo al fanatismo razziale, culturale e cercando invece di realizzare valori personali che sono comunque sempre e soltanto valori interpersonali. Non siamo monadi dalle finestre chiuse, ma monadi, dovremmo essere, dalle finestre aperte, alle quali giungono continuamente sollecitazioni, elementi creativi che ci trasformino impedendoci di trasformarci in pietre.

Domanda: Galimberti considera il sacro come la speranza nell’era della tecnica. Dove affonda le proprie radici il sentimento del sacro? Si può parlare di psiche anche per questo sentire così peculiare che sembra caratterizzare profondamente l’essere umano in quanto tale, più che la persona, il personaggio?

Risposta: questa è una domanda bellissima anche se ha radici essenzialmente nel pensiero e anche nel linguaggio di Umberto Galimberti. Nel mio discorso la parola sacro non compare mai, non perché ritenga che tutto sia spiegabile, anzi ritengo che quello che Galimberti chiama sacro potremmo anche definirlo come ansia dell’infinito, di qualcosa che Kafka chiamava indistruttibile, di qualcosa che oltrepassa ogni esperienza finita, ogni esperienza conclusa, aprendoci quindi ad altri orizzonti di senso, ad altre speranze, che non siano soltanto le speranze concrete e quotidiane, che mi accada qualcosa di utile, ma che siano invece quelle speranze che si trasformino, come scriveva Gabriel Marcel in una speranza che resiste anche alle sconfitte, agli scacchi, ai fallimenti ai quali siamo tutti esposti. Invece di sacro parlerei di infinito, di questa esigenza di infinito che c’è in ciascuno di noi, che ci rende comunque inappagati dinnanzi a conquiste, risultati, risultanze che abbiano soltanto confini, limiti, terrestri e concreti senza aprirsi invece a orizzonti più ampi, nei quali si riconcilino anche le attese di chiunque che, soprattutto soffrendo, ha bisogno di colloquio, di dialogo, di comunicazione, di vicinanza, di solidarietà.

Domanda: Heidegger parla dello stupore come sentimento ontologico. Esso nasce quando l’ente si apre nel suo significato, che c’è invece che non esserci. Come rientra questa emozione nella terapia psicoanalitica?

Risposta: questa tesi heideggeriana mi sembra difficilmente conciliabile con il pensiero di Sigmund Freud, cioè con la psicanalisi più seria, più rigorosa, come quella freudiana, come quella Jungiana, che seguono altri cammini da quelli heideggeriani non ammettendo mi sembra una ontologia ma invece semmai una ricostruzione storica degli eventi che si sono vissuti. Quindi semmai una ontologia mobile che non è qualcosa di determinato, di fissato, ma che cambi, che si trasformi in relazione alle vicende della vita che abbiamo vissuto e di quella che possiamo vivere in futuro.

Domanda: l’angoscia è un sentire particolare. Heidegger afferma che essa è fondamentalmente diversa dalla paura, l’aver paura di è sempre anche aver paura per qualcosa di determinato. Certo l’angoscia è sempre paura di, ma non di questo o di quello, l’indeterminazione di ciò di cui ci angosciamo è un’essenziale impossibilità di determinazione, poiché l’angoscia rivela il niente. Come viene interpretata dalla psichiatria questa sostanziale differenza fra paura ed angoscia e quale valore viene attribuito ad ognuna, con quali criteri?

Risposta: la separazione fra angoscia e paura, di Heidegger, di Karl Jaspers, anche quella di Kierkegaard il quale ha scritto pagine bellissime su ciò che caratterizza l’angoscia e su ciò che caratterizza la paura. Non sempre passiamo dal piano filosofico ontologico a quello psicologico, paura e angoscia si possono differenziare nei loro aspetti psicologici, a volte l’una sconfina nell’altra, benché mantenere separata l’angoscia dalla paura assume anche in psichiatria un valore euristico nel senso che sindromi cliniche psicopatologiche determinate dall’angoscia hanno senza dubbio una irruzione diversa da quella delle sindromi tematizzate invece dalla paura, più gravi le prime, meno gravi le seconde, più legate alla personalità dei pazienti la prima, più legata alla mutabilità delle situazioni la seconda, la paura. Ci sono farmaci che più facilmente riducono la soglia di insorgenza dell’angoscia nei confronti di quelli che precriviamo invece quando la paura diventa il sintomo più importante di una sintomatologia clinica. L’angoscia ha poi anche sconfinamenti psicotici, può diventare anche angoscia psicotica, mentre la paura resta in fondo in ciascuno di noi dall’inizio alla fine qualcosa che fa parte della vita psichica quotidiana senza invece precipitare giù nei vortici di una paura psicotica, salvo quando la paura non entra a far parte di una costellazione psicopatologica molto più complessa, anche quella schizofrenica, ma le cose qui si complicano. Comunque certo l’angoscia, questo timore, questo perdere il controllo di sé dinnanzi a situazioni che non riusciamo a definire, mentre la paura è in una connessione tematica costante con eventi, con situazioni, che una volta riconosciute possono anche essere eliminate, mentre di per sé l’orizzonte da cui nasce l’angoscia, siccome è il nulla, la morte, sarà più radicata in noi di quanto non accada nella più labile e fragile paura.

Domanda: lei ha fatto una distinzione fra un’angoscia che può sfociare in una angoscia psicotica. Lei distingue fra angoscia neurotica e angoscia psicotica. Heidegger in Che cos’è metafisica? fa una distinzione fra angoscia essenziale, che in qualche modo egli lega alla differenza ontologica, e l’angoscia che poi sfocia nella paura, nell’angoscia come ansietà. Lui usa la parola Angst parlando di angoscia essenziale e Angstlichkeit per questa ansietà che lui tende a confinare nei sentimenti umani. Lei vede questa distinzione?

Risposta: applicata alla psichiatria clinica questa distinzione di Heidegger non riuscirei a riconoscerla come significativa, perché legata ad un cammino epistemologico che mi sembra essere solo heideggeriano, e non riconducibile ai sentieri della comprensione e della spiegazione psicopatologica, psichiatrica.

Domanda: la malattia, il lutto e la morte sono occasioni estremamente delicate che l’Occidente tende ad anestetizzare, ad istituzionalizzare. In generale si tende a cadere in balia delle emozioni che si scatenano al cospetto di tali eventi. È possibile un rapporto diverso con un sentire tanto intenso? Ed è lecito aspettarsi qualcosa come il superamento, la rielaborazione del lutto?

Risposta: la grande meta della psicanalisi freudiana è proprio incentrata su questo traguardo, su questa possibile metamorfosi, trasformazione, dell’angoscia della morte nella sua accettazione. Il processo analitico tende a questo. In una situazione culturale diversa come quella psichiatrica il tema della morte, che rientra fra l’altro nella genesi di molte forme di angoscia, è senz’altro più difficile da arginare e anche da superare, nel senso che a questa esperienza si accompagna la domanda fondamentale sul senso della vita e della morte. Sono queste esperienze per le quali non ci sono farmaci che servano, non ci sono percorsi all’interno della psichiatria clinica che possano se non cercare di accentuare le risorse interiori che esistono in noi, per sfuggire almeno in parte all’angoscia divorante della morte come conclusione improvvisa della vita.

Domanda: nel suo ultimo libro lei dedica uno spazio importante al linguaggio artistico, soprattutto nell’arte visiva del novecento affiorano spesso emozioni come l’angoscia e la malinconia che tendono da un lato al senso del tragico, mi viene in mente l’arte di Giacometti, e dall’altro c’è un sentire fortemente lontano dalla scontatezza ma che ha in sé un senso del contegno, del ritegno, come una forza interna dell’autore, sto pensando alle nature morte e ai paesaggi di Morandi. In quanto psichiatra, come nomina e valorizza questo luogo del contegno?

Risposta: dimora del contegno come la intende lei?

Domanda: come un senso di sentire la gettatezza della vita, sentire il senso di finitudine dell’esistenza e della non scontatezza di tutto ciò che c’è intorno, ma non con un senso di tragico e di disperazione che, invece, in molti autori dell’arte del novecento viene fuori.

Risposta: questa domanda mi sembra difficilmente applicabile alla psichiatria. In questi capitoli mi sono confrontato con i modi con cui il dolore, l’angoscia, la sofferenza, la speranza, si sono manifestati in esperienze creative, liriche, pittoriche, scultoriche, in parte anche nella musica. Però limitandomi soltanto alla decifrazione di quelle possibili emozioni che si colgono, in Giacometti come in Bacon, aiutato anche dagli studi mirabili in questo campo di Heidegger che qui diventa un Heidegger non più ontologico ma fenomenologico, che cerca cioè di fare riemergere l’essenza del linguaggio dei colori in Georg Trakl, e comunque la psichiatria può essere invitata a confrontarsi su queste cose soprattutto nella misura in cui dalla rilettura di esperienze artistiche si abbia una rinascita della immedesimazione emozionale nel dolore, diversamente espresso, artisticamente espresso che esiste negli altri; quindi la pittura anche in qualche modo come invito a non lasciare inaridire le proprie emozioni, le proprie capacità di sensibilizzazione estetica, critica e creativa.

Domanda: esistono dei laboratori all’interno dei reparti di psichiatria che mettono i pazienti di fronte alla possibilità di esprimersi a livello figurativo, pittorico?

Risposta: sì certo, questo è un altro discorso che in genere viene definito come area di una psicopatologia dell’espressione, cioè della capacità espressiva che alcuni pazienti trovano, ritrovano oppure inventano quando entrano nell’area della sofferenza, della malattia. Il primo aspetto è questo. E secondo è il significato terapeutico eventuale che dipingere, che suonare, che usare collage e così via assume in ordine all’evoluzione della malattia; quindi, niente a che fare col discorso della genialità quando questa entra in contatto con la follia, che è il discorso che ho svolto io, ma invece un discorso rivolto a cogliere da una parte quali innate esperienze creative la follia può far nascere in sé, dall’altra l’importanza che aprirsi a esperienze di creatività, sia pure quotidiana, possa essere utile a chi sta male, a chi cioè ritrovi in questi mezzi e strumenti espressivi una qualche mitigazione al proprio dolore e alla propria angoscia. Quando Shakespeare dice: date parole al vostro dolore, altrimenti il vostro cuore si spezza, in fondo potrebbe anche voler dire: date disegni, date figurazioni al vostro dolore perché il vostro cuore non si rompa, non si frantumi.

A cura di Linda Altomonte e Paolo Ferrante
Redazione Asia.it