Nell’antica Cina si svolse un celebre dialogo tra il primo patriarca del Chan (Zen cinese) Bodhidharma e l’imperatore che era già buddista:
Imperatore: – Ho fatto costruire monasteri, ordinare monaci, tradurre testi; quali meriti ho
accumulato? –
– Nessun merito –
– Ma allora su cosa si fonda la sacra dottrina? –
– Un vuoto immenso, ed in esso nulla di sacro –
– Ma chi sei tu per parlarmi così? –
– Non lo so –
Ogni epoca ha sensibilità e problematiche che la caratterizzano. Ciò vale anche per i nostri tempi.
Oggi il problema in occidente è il nulla. Tutto è minacciato dal nulla. Veramente Dio è morto e nulla si intravvede che possa rimpiazzarlo. Dopo il preludio di Nietzsche e le precisazioni di Wittgenstein, Heidegger e Sartre sull’essere invece che il nulla, per non citare che la filosofia, non possiamo ignorare la questione fondamentale che è venuta imponendosi nel ‘900, quella dell’infondatezza dell’essere. Questo ben sanno le nostre coscienze e, vista la portata totalizzante della questione, temono di affrontare ciò che pare senza soluzione. Il figlio del ‘900 è il nulla, e con, e alla luce di esso ci presenteremo al nuovo millennio. Le religioni in senso tradizionale sono impotenti di fronte alla nuova apparizione. La coscienza contemporanea è riuscita faticosamente ad esprimere l’irriducibile ad ogni ragione, la stordente assurdità dell’essere, il fatto che qualcosa in generale si dia (compreso l’eventuale Dio, l’antica “ragione” del mondo, che in quanto essente ricadrebbe nella domanda fondamentale: perché un Dio, perché non nulla?) invece che nulla. L’intero nostro secolo ha dovuto soccombere sotto i colpi terrificanti del nulla. Il nulla è padre del non senso e nei suoi effetti più devastanti, di quella forma deteriore e a-filosofica di nichilismo che io chiamo il nientismo, di cui il vivere occidentale attuale è intriso. Non si vive più per guadagnarsi il paradiso o comunque da un’etica riconosciuta fondamento di vita; può valere ogni cosa ed il suo contrario, poiché tutto è in troppo rapida trasformazione e un fondamento assoluto da cui partecipare agli eventi non c’è più. I valori dei nostri genitori e nonni non sono più riconosciuti da noi. Forse resta condiviso un qualche vago senso di solidarietà, ma sicuramente non più Dio, patria, famiglia e neppure fatica né sacrificio. Su cosa fondarsi? Pare che oramai si ricerchi solo ciò che stordisce e fa dimenticare che siamo orfani di Dio. Restano il consumo, lo sport, lo spettacolo, le vacanze e gli obiettivi effimeri. Ma le coscienze non possono cancellare ciò che sta inciso nel più profondo di esse: che esse esistono e che ciò è inspiegabile. Da qui la disperazione, il pianto. Ed ecco quel che sento così spesso dai ragazzi: – Ma che senso ha tutto questo? Perché devo esserci? Chi ha chiesto di esistere?- e questi interrogativi suonano come grida disperate. Non si può (più) rispondere appellandosi ad un “amore” divino. E’ proprio ciò che molti giovani non accettano né riconoscono. D’altra parte il cristianesimo è da oramai trent’anni nella crisi più grave della sua bimillenaria storia, come dice Jean Guitton e se una volta era raro che un prete si spretasse, oggi ne conosco molti, sembra non esistere più la religione di un’intera vita. Per questo abbiamo bisogno di un diverso appoggio.
All’epoca dei grandi maestri Chan (zen cinese), si usava porre ai maestri una domanda che, secondo il codice del tempo, corrispondeva a “che senso ha l’esistenza?”: – Perché Bodhidharma è partito per l’oriente ? ossia, perché si è preso la briga di portarci il suo buddismo, se un valore assoluto, a sua stessa detta, non c’è?
Una famosa risposta fu:
-Chiedilo a quel palo, laggiù.-
Il monaco che aveva posto la domanda replicò perplesso – Maestro, non capisco…-
– Io meno di te – concluse il maestro.
Una poesia di commiato alla vita di un altro maestro zen
Per cinquantatré anni
se l’è cavata questo bue sgraziato
ed ora incede a piedi scalzi nel vuoto…
Che nonsenso!
Questa gente sapeva vivere il nulla. Là dove la persona comune s’inquieta o cade nell’angoscia, il praticante zen trova il fondamento nella stessa impossibilità di un fondamento. Questo non è comprensibile solo razionalmente. Si pratica per illuminarsi su questo paradosso. Questo è satori, la grande comprensione. Quando intuisci non piangi più. Il buddismo non è, in origine, religione. Esso non contempla dei creatori. Buddha era solo un uomo che si pose gli interrogativi fondamentali e non arretrò neppure di fronte al crollo dei valori assoluti del suo tempo, i valori della tradizione vedica e upanishadica. Si spinse fino alle estreme conclusioni. Di questo ha bisogno anche il nostro tempo: uno sguardo senza paura anche nei tempi e nei luoghi della morte di Dio. Nella nostra coscienza non c’è risposta, ma c’è, in un lampo d’illuminazione (satori), la soluzione all’angosciante stato di sofferenza (dukkha) dell’anima che sa che non c’è risposta. Il buddismo è attuale.