Nel 1980 ebbi il primo contatto con i Tibetani dei campi profughi in Nepal. In quegli anni venni a conoscenza del dramma generato dall’invasione e occupazione da parte dei Cinesi; conobbi personalmente qualche tibetano e ricordo in particolare un certo Kusang il quale, con i figli, gestiva un piccolo ristorante i Freak street, a Katmandhu. (Che tempi…!)
Io e alcuni amici eravamo sovente ospiti – nel senso che non c’era verso di riuscire a pagare la cena – da lui. Ci raccontava del Tibet che fu, dei suoi viaggi da mercante con carovane di yak (o cavalli, non ricordo), attraverso lande desertiche del Tibet centrale. Disse che aveva anche visto lo yeti – ne descrisse e disegnò due specie, l’una aggressiva l’altra no –, yeti che aveva attaccato gli ultimi yak della fila della carovana, e così avevano dovuto ucciderlo e l’avevano visto da vicino.
In Nepal c’erano tanti tibetani profughi.
Le storie di morte e distruzione che ascoltai mi impressionarono atrocemente. Essendo anche la mia famiglia profuga – siamo giuliani dell’Istria – e avendo sentito a iosa racconti di atrocità comuniste durante la guerra e subito dopo, ero sensibilizzato e potevo immaginare cosa fosse successo in Tibet.
«La gente veniva gettata nel fiume», diceva una signora che incontrai presso il grande stupa di Boudhanath. Il fiume era lo Tsangpo Yarlung, ovvero il Brahmaputra. Poi mi mostrava foto di luoghi sacri e aggiungeva: «Non esistono più; sono stati fatti saltare con la dinamite».
Un’altra signora mi disse che aveva trascorso due anni in una cella allagata perennemente con dieci centimetri di acqua. Dormiva, per così dire, nell’acqua. Suo marito era scomparso.
Di storie del genere ne ho ascoltate diverse dal primo viaggio in poi, sia in Nepal che negli insediamenti tibetani in India.
Il povero Kusang, che rividi in miei ulteriori viaggi, si illudeva di poter tornare in Tibet nel giro di pochi anni, poiché vi era stato un allentamento da parte dei Cinesi dopo la visita di delegati del Dalai Lama in Tibet. Invece la successiva politica di Deng Xiaping (quello di Tinenamen) tornò a indurirsi.
Chi è stato in Tibet dice che i cinesi hanno, in realtà, fatto molto anche di positivo: case, scuole, ospedali, trasporti, impiego… ma qui c’è un particolare discorso da fare.
Riflettiamo con ordine.
Innanzitutto il Tibet rappresenta la riserva d’acqua della Cina, oltre che dell’India del Nord e del Pakistan.
I grandi fiumi, che sfociano sia nel Mare della Cina che nell’Oceano Indiano, scaturiscono dai ghiacciai himalayani.
(L’acqua: la stessa ragione per cui Israele non cederà mai il Golan.)
Per queste ragioni, anche l’India contende certe zone himalayane alla Cina.
Oltre all’acqua, il Tibet è ricco di foreste e minerali. È la sua “colonia”, quella da cui rifornirsi di materie prime così come facevano le nostre potenze coloniali in India, Africa, Sudamerica.
Se non esercitasse un ferreo controllo sul Tibet, la Cina comprometterebbe la propria stessa vita.
La Cina non cederà mai il Tibet e mai allenterà la ferrea presa su di esso.
Pensando dal punto di vista tibetano, il Dalai Lama ha molto moderato le sue richieste, giungendo a dire che non reclama affatto l’indipendenza dalla Cina (la quale, anzi, offre opportunità di lavoro e benessere ai tibetani), ma che chiede solo tre garanzie, ossia la preservazione di cultura, lingua e ambiente.
Credo che siano richieste molto giuste e oneste; infatti, perdendo questi tre fattori, un popolo perde di identità e si estingue.
Heidegger ci ha insegnato qualcosa di essenziale relativamente alla politica: un popolo resta aggregato attorno ad un sentimento poetico. Il Dalai Lama lotta per preservare quello del suo popolo, i cinesi per digregarglielo.
Se ciò riuscisse, i tibetani scomparirebbero come unità e identità di popolo.
Faccio qui presente un fatto attuale, quello di Larung Gar.
Nel 1980, un eminente lama, Khenpo Jigme Phuntsok, costituì un piccolo centro religioso sulle macerie di quello che era stato un importante monastero della tradizione tibetana Nyimapa: Larung Gar. Sorge in località isolata, nella più pura tradizione Nyima. Data la speciale caratura del lama, attorno a lui si aggregarono molti altri religiosi fino a che nacque una comunità di oltre diecimila monaci e monache. I cinesi non gradirono e fin dal 2001 iniziarono a ridimensionare l’insediamento; si presentarono con mille soldati e seduta stante iniziarono a demolire le residenze delle monache, vietando alle popolazioni locali di dar loro rifugio.
Nelle settimane successive le povere donne vagavano perse e senza meta sulle vie attorno a Larung Gar.
Il fondatore venne arrestato e “morì in ospedale”.
Passarono anni e la comunità tornò a crescere.
Ora i cinesi hanno ripreso la demolizione, dichiarando che i monaci non devono superare il numero di cinquemila presenze.
Alcune monache si sono già immolate col fuoco per protesta.
Chiaramente i cinesi temono che questi centri tornino a rinfocolare il sentimento “poetico” dei tibetani, ricostituendo così un soggetto che reclami identità e autonomia.
Se togli la prospettiva spirituale e monastica ai Tibetani, ne uccidi l’anima.
Capiamo i Tibetani e capiamo i Cinesi che lottano per la vita – senza acqua, niente vita.
Come uscirne?
Non so.
Il Dalai Lama ha ricevuto il Premio Nobel per la pace perché ha sempre riconosciuto che ogni essere senziente lotta per la sua felicità, Cinesi compresi.
Io credo due cose:
1. Non sempre il conflitto nelle nostre vite sempre può trovare una soluzione.
Credo che esso sia qualcosa di intrinseco alla vita stessa e talvolta ineliminabile.
Si propone, dunque, il tema della lotta tra posizioni inconciliabili.
Il Dalai Lama ha scelto quella non violenta, mentre altri, come i Palestinesi, quella violenta.
Entrambi stanno perdendo.
2. Questa nostra vita non ha lo scopo di farci stare bene, ma di insegnarci qualcosa sulla nostra profonda natura.
Il maestro principale è il niente.
Attraverso “colpi di niente” veniamo gettati nella perplessità.
Il niente ci smuove dall’inerzia e, se nella via, ci estorce più consapevolezza – quella radicale.
I Tibetani devono anch’essi fare i conti col niente, la portata del quale, magari, eccede quella della loro stessa tradizione buddhista.
E parlo da profugo io stesso.
Anch’essi dovranno affrontare la “morte di Dio” e quello della fine dei tempi poetici.
Ma il sapore della verità si presenta, insospettabilmente, proprio quando tutto pare perduto.
Che per risvegliarsi alla verità del Buddha occorra perdere perfino la identità buddhista? Io ho fiducia nel niente.
Il niente mi privò di tutto.
Per restituirmi mille volte tanto.
Ciò detto, mi inchino con solidarietà alle sofferenze del popolo tibetano.
Il mio cuore è con voi.
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Ecco il link all’associazione Italia-Tibet per ulteriori informazioni.