Il prof. Paolo Portoghesi è ospite della biblioteca comunale di Misano Adriatico che ha organizzato il ciclo di conferenze intitolato “La bellezza salverà il mondo?“.
Rifacendosi al concetto di kalokagathìa di Platone, per cui ogni espressione in cui risplenda la bellezza nasce dal proficuo incontro tra l’aspetto estetico e quello etico, il prof. Portoghesi analizza i ruoli dell’architettura e dell’urbanistica che, nel tentativo di “salvare il mondo”, si allargano oltre la pura ricerca formale ponendosi l’obiettivo di perseguire il bene. Ma in cosa consiste questo bene?
In un epoca in cui l’uomo procede speditamente verso la distruzione del proprio habitat e la cancellazione delle identità storiche delle singole comunità, l’obiettivo che la ricerca architettonica deve porsi è la salvaguardia dell’ambiente e delle radici culturali. Ciò che oggi si mostra con evidenza è un’intrinseca conflittualità nell’operare dell’uomo. La sua azione sulla terra non è più basata sull’alleanza con essa ma sul conflitto. L’attuale società tecnologica, crescendo autonomamente rispetto al pensiero dell’uomo, è per natura in opposizione all’ambiente che l’accoglie. Se l’architettura deve riconquistare la dignità che le spetta è necessario ripensarla in questo suo aspetto salvifico.
Da più di un decennio l’aggettivo moderno è stato detronizzato e sostituito dall’aggettivo contemporaneo. Finché l’arte si poneva il problema di essere moderna tentava di esprimere lo spirito del tempo e manteneva, nonostante l’atteggiamento provocatorio, un dialogo con il passato. Ormai da tempo questo dialogo si è interrotto, in parte per la delusione dei tentativi, in parte per il fatto che, rivendicando una libertà assoluta, l’obiettivo di cambiare il mondo diventa una sorta di obbligo dal quale l’artista si libera volentieri. L’architettura degli ultimi vent’anni, quella del cosiddetto Star System, è un’architettura autoreferenziale che rifiuta qualunque tipo di impegno che non sia puramente artistico ed espressivo. A differenza dell’architettura moderna che è sempre stata osteggiata e accolta con diffidenza, quest’architettura contemporanea è unanimemente lodata ed incontra il plauso del pubblico, dei media e del potere politico. Il conflitto sistematico dell’epopea moderna che coinvolgeva la società nella nascita di un’avanguardia è sostituito dal rinnovamento fine a se stesso che trova giustificazione solo nel continuo alternarsi delle mode. La vera mancanza dell’architettura contemporanea, nel rifiutare l’impegno etico del nominarsi come architettura moderna, è l’incapacità di portare avanti e di trarre le conseguenze di un ragionamento che trae spunto e forza dalle sorgenti che alimentano la cultura. Osservando certe architetture drammaticamente espressive di questi primi anni del secolo si scorge un aspetto profetico che evoca qualcosa che incombe sulla società attuale e sul suo benessere.
Ma cosa è andato perso dell’antico modo di concepire il costruire e l’abitare? Dalla lettura di un passo di Martin Heidegger, in cui è descritta la più antica ed eternamente valida espressione di ordine costituita dal tempio greco, si coglie il significato di arte come messa in opera della verità:
“Eretto, l’edificio riposa sul suo basamento di roccia. Questo riposare dell’opera fa emergere dalla roccia l’oscurità del suo supporto, saldo e tuttavia non costruito. Stando lì, l’opera tien testa alla bufera che la investe rivelandone la violenza. Lo splendore e la luminosità della pietra, che essa sembra ricevere in dono dal sole, fanno apparire la luce del giorno, l’immensità del cielo, l’oscurità della notte. Il suo sicuro stagliarsi rende visibile l’invisibile regione dell’aria. La solidità dell’opera fa da contrasto al moto delle onde, rivelandone l’impeto con la sua immobile calma. L’albero e l’erba, l’aquila e il toro, il serpente e il grillo assumono così la loro figura evidente e si rivelano in ciò che sono.
[…]
Eretto sulla roccia, il tempio apre un mondo e lo riconduce, nello stesso tempo, alla Terra, che solo allora si rivela come suolo natale.”
Questo rapporto tra bellezza e verità è stato completamente dimenticato in ciò che l’architettura cerca di dirci oggi? Può essa esprimere ancora poeticamente il modo di abitare dell’uomo? Di nuovo Heidegger ci viene in soccorso, nell’affrontare queste domande, con la descrizione di un’antica casa della foresta nera:
“Qui, ciò che ha edificato la casa è stata la persistente capacità di far entrare nelle cose terra e cielo, i divini e i mortali nella loro semplicità. Essa ha posto la casa sul versante riparato dal vento, volto a mezzogiorno, tra i prati e nella vicinanza della sorgente. Essa gli ha dato il suo tetto di legno che sporge a grondaia per un largo tratto, inclinato in modo conveniente per reggere il peso della neve, e che scendendo molto in basso protegge le stanze contro le tempeste delle lunghe notti invernali. Essa non ha dimenticato l’angolo del Signore dietro la tavola comune, ha fatto posto nelle stanze ai luoghi sacri del letto del parto e dell’«albero dei morti», come si chiama là la bara, prefigurando così alle varie età della vita sotto un unico tetto l’impronta del loro cammino attraverso il tempo. Ciò che ha costruito questa dimora è un mestiere che, nato esso stesso dall’abitare, usa ancora dei suoi strumenti e delle sue impalcature come di cose.”
L’uomo si sente, sulla terra, in rapporto a qualcosa che lo supera. Questa visione assegna un ruolo fondamentale al vincolo tra architettura e natura. È osservando questa che l’uomo ha inventato le regole del costruire. Nell’architettura primitiva non è difficile ritrovare questo rapporto diretto e spontaneo con la natura, e oggi che siamo coscienti della responsabilità dell’uomo nei confronti della terra, traiamo ispirazione da queste prime forme del costruire per realizzare ciò che modernamente viene definita architettura bioecologica.
Le geo-architettura insegnata dal prof. Portoghesi è un’architettura che fa i conti con la terra, un’architettura della responsabilità. Questo nuovo modo di costruire non esiste ancora, il suo appello è indirizzato alle nuove generazioni che hanno il difficile compito di realizzarlo in accordo alla terra e alla storia. Mantenere una relazione con la storia non significa però rifugiarsi nella tradizione rinnegando il progresso. L’innovazione è un requisito fondamentale dell’architettura, ma il futuro si costruisce con materiali del presente e del passato. Se si rifiuta l’insegnamento che proviene dal passato si commettono infinite volte gli stessi errori. Il passato non va visto come un deposito, un fondo dal quale solo attingere avidamente. Esso rivolge al presente un appello, la richiesta di essere tramandato, e solo ascoltando il messaggio del già-stato si può accogliere l’avvenire nel suo venirci incontro.
La storia ed il passato dell’ambiente costruito ci appellano a rispettare le regole che hanno generato e sedimentato la loro conformazione. I repentini cambi di direzione dell’odierno modus operandi non trovano corrispondenza in ciò che ci viene insegnato da una tradizione millenaria fatta di edifici e di città. Lo studio della genesi dei nuclei urbani, che troppo spesso è trascurato nella progettazione dei nuovi quartieri, può regalare un profondo insegnamento a chi è chiamato ad intervenire su di essi. Lo stare insieme, il rapporto tra le persone, è stato un aspetto fondamentale dello sviluppo dei centri abitati. Piazze e strade si sono conformate in modo da individuare luoghi privilegiati in cui l’identità delle persone potesse riconoscersi. Questa bellezza delle città storiche non si è mai riusciti pienamente a trasferirla nelle periferie di recente costruzione, che non hanno nessun rapporto con lo straordinario carattere degli antichi borghi italiani e dei luoghi dello scambio sociale. Fondamentale compito della geo-urbanistica è di valutare il proprio effetto sulla psicologia dei cittadini. La città è un laboratorio permanente di ipotesi sviluppate dagli urbanisti e verificate sugli stessi abitanti. Queste indagini, identificando i linguaggi dei luoghi e il modo particolare per cui ogni sito si è caratterizzato in un determinato modo attraverso il tempo, individuano quella matrice che, perché alla base della bellezza di un ambiente urbano, va conservata.
L’architettura contemporanea rifiuta di mettersi in relazione con il contesto urbano esistente e con le consuete regole del costruire. Essa si mostra come un’architettura alla deriva, priva di un orientamento, che anzi evita come un vero pericolo. Ci si compiace di questa deriva, senza cercare nessuna convergenza. Recuperare una relazione con la storia e focalizzare gli sforzi in una direzione comune sono le priorità fondamentali che possono riassegnare all’architettura la dignità morale che è stata sacrificata in nome di una libertà solo apparente. Un possibile orientamento può essere guidato solo da una revisione dell’originario significato di bellezza, che possa tornare a prevalere sull’affermazione individuale e sulla sperimentazione tecnologica e formale fine a se stessa. Questo tentativo di convergere in un comune obiettivo comporta un profondo ripensamento di ciò che significa abitare la terra. Riscoprendo il significato originario di abitare si possono riallacciare i legami con un modo di costruire che risponda veramente a questo originario bisogno.