Dalle sensazioni del parto al loro significato
Il parto è un’esperienza molto intensa: per alcune ore, la donna si trova a vivere se stessa e ciò che la circonda senza la mediazione della mente che traduce, prevede, controlla.
Questo causa l’emergere di numerose emozioni che resteranno impresse, tracce indelebili che riaffioreranno ogni volta che se ne presenterà l’opportunità, e se una donna che ha partorito, anche numerosi anni prima, incontrerà un’altra donna che è alla sua prima gravidanza le parlerà unicamente di sensazioni, in genere poco rassicuranti. Paura, sofferenza, impotenza, solitudine, spaesamento, insicurezza, ansia… sono alcune delle parole che in genere accompagnano questi racconti “del terrore”.
La parole divengono veicolo di contagio e la primipara si trova ad accogliere le stesse sensazioni, a farle sue, a pensare al parto condizionata da esse, senza accorgersene.
Non una domanda affiora a discriminare ciò che sta per essere travasato. Perché ?
Forse pensiamo al parto come a qualcosa di totalmente istintivo, emotivo; un momento in cui la ragione non può trovare spazio se non divenendo ostacolo. Alle sensazioni intense, invece, si lascia aperta la strada, possono venire travasate senza freno.
Cosa accadrebbe se la donna alla prima gravidanza ponesse a quella che ha già partorito qualche domanda del genere: “Perché paura? Di cosa? Perché la solitudine diventava un problema? Quale situazione avrebbe avuto come esito la sicurezza anziché l’insicurezza?”
Probabilmente la donna che ha partorito si accorgerebbe di non sapere rispondere a queste domande, di non essersele mai poste o perlomeno non abbastanza da arrivare a una risposta talmente esaustiva da divenire più importante delle sensazioni stesse.
E’ possibile arrivare a significati che superino le stesse emozioni dalle quali siamo partiti?
Cominciamo dalla paura. Se una donna dice di avere paura del parto ci sembra normale, addirittura sembrerebbe strano se dicesse di non averne alcuna.
Paura di cosa? Del dolore ovviamente. Di quale dolore? Del dolore che non conosce, che può divenire insopportabile, incontrollabile nella sua intensità, nella sua durata, nei suoi effetti. Un dolore al quale dovrà reagire, ma non sa come: riuscirà a restare concentrata o perderà il controllo e si metterà ad urlare? Ci sarà qualcuno in grado di aiutarla o dovrà fare da sola?
E’ chiaro quindi che ciò che chiamiamo “paura del dolore” in realtà significa paura dell’ignoto perché imprevedibile e quindi non controllabile. Possiamo dire, ancora meglio, paura dell’incontrollabile e delle nostre reazioni di fronte ad esso.
Cosa invece rassicura, del controllabile? La prevedibilità, conoscere i limiti entro i quali l’evento resterà, sapere insomma, più o meno, cosa accadrà, riuscendo a prevedere le nostre reazioni. C’è quindi un confronto tra l’assoluta mancanza di controllo, vissuta per alcune ore e gli altri momenti della vita dove invece ci si sente artefici di ciò che sta accadendo.
Perché allora, una volta nato il bambino, la donna non ritorna subito disinvolta e tranquilla, sicura di sé, padrona di ciò che da quel momento in poi accadrà?
Tutti sanno, invece, che nei giorni successivi al parto la madre è in uno stato diverso. Più fragile, più vulnerabile, quasi insicura. Guarda il bambino, stenta a riconoscerlo, è spaesata. Quel sentire che non cessa con la nascita del bambino, ma che anzi, al contrario, si accentua ogni volta che ne incontra lo sguardo, cosa significa? Le dice qualcosa che si riferisce solo al parto o che la riguarda sempre? Forse si è insinuato un dubbio sull’impressione, prima talmente forte da apparire certezza, che le sia possibile controllare qualcosa nella vita. La vita stessa assume così sembianze diverse: da familiare e scontata appare strana, quasi estranea. E’ lo stesso sentimento che emana il bambino. Cos’è? Che sta veramente accadendo?
La tempesta di sensazioni che la donna ha attraversato dando alla luce suo figlio, ha lasciato delle tracce che la tengono aperta, con pochissime certezze e piena di dubbi, ed è quello il momento in cui è possibile cercare, nelle sensazioni ancora così intense, i significati.
A questo punto solo qualcuna, pochissime in verità, chiede di capire meglio perché le sensazioni non bastano; ha bisogno di verità, di capire se ciò che per qualche ora è affiorato e che adesso stenta a scomparire parla anche di altri momenti. In altre parole se ciò che indubitabilmente ha visto è una verità relativa a quella situazione o una verità assoluta, sempre presente, anche ora.
Le altre invece, e sono la maggioranza, non chiedono di capire meglio le sensazioni vissute, forse perché le sensazioni, soprattutto quelle inquietanti, passeranno, o meglio, resteranno sopite e latenti, in attesa di essere risvegliate per essere travasate attraverso un racconto; il capire invece resterebbe, indelebile, chiedendo di farci i conti.
Per queste donne il parto rimarrà solo un evento che ha permesso loro di avere un figlio.
Per quelle invece che sentono più il bisogno di significati che di sensazioni sarà stato invece un’iniziazione e le settimane immediatamente successive una opportunità per capire cosa è successo.
Che il parto sia un’esperienza che apre la donna a una verità più profonda alla quale bisogna dedicare del tempo è testimoniato anche da altre culture che, fin dall’antichità, per un periodo di circa quaranta giorni, tenevano la nuova madre libera da ogni incombenza.
In alcune tradizioni era il marito ad accudire la moglie. Le nonne si occupavano del bambino che veniva portato alla madre solo per l’allattamento.
Anche nelle culture abituate a una vita molto comunitaria, in quel periodo alla donna veniva riservato uno spazio protetto, a cui avevano accesso solo poche persone.
Presso alcuni popoli la madre, al momento del pasto, veniva addirittura imboccata.
Questo periodo di quaranta giorni si concludeva con rituali diversi che preparavano la donna a rientrare nella società come persona nuova.
E’ evidente che tutte queste attenzioni andavano ben al di là della finalità di permettere alla donna di riprendersi fisicamente dal parto. Cosa poteva mai fare la giovane madre in quelle settimane in cui aveva tanto tempo per oziare, per sentirsi, per ricordare, per pensare? Probabilmente le venivano create le condizioni per stare senza distrarsi con gli effetti di ciò che le era successo, ed è proprio così, col tempo e con la concentrazione, che i significati emergono.
Che succede invece oggi, nella nostra cultura, alle donne che vorrebbero tempo per capire?
Esattamente il contrario.
Nei giorni successivi alla nascita c’è un continuo viavai di gente che chiede e dà alla donna solo emozioni, mai significati. Il silenzio, la contemplazione, non le sono permessi. Deve parlare, informare parenti e amici, perché il silenzio verrebbe visto come malattia, qualcosa da curare.
Finito questo periodo di celebrazione delle emozioni, tutti spariscono e la donna si ritrova sola con l’impegno del bambino, della casa. A volte si fermano ad aiutarla la madre o la suocera che, se da una parte forniscono un indubitabile aiuto fisico, dall’altra divengono, quasi sempre, fonte di rumore poiché sono disabituate al silenzio e si fanno continuamente accompagnare dalla televisione o dalla radio.
I giorni passano, il bambino è un grosso impegno, la stanchezza aumenta e l’apertura a sensazioni significative che si era creata col parto, tende a richiudersi senza che sia stato possibile capire quale verità stavano svelando.
Così delle poche, pochissime donne pronte a chiedersi sui significati, quasi nessuna ha le condizioni per poterlo fare ed è per questo che l’esperienza del parto viene ancora raccontata solo parlando di sensazioni e mai di significati.