Durante la gravidanza, le donne pensano molto al parto e poco ai momenti successivi che saranno invece densissimi. La pratica dello yoga è purtroppo vissuta solo nell’attesa della nascita, non immaginando quanta intensità affiorerà invece incontrando il bambino e in seguito, il giovane.
Infatti, già dal primo incrociare lo sguardo del neonato affiora un sentire inaspettato: quel bambino emana qualcosa, i suoi occhi dicono e chiedono qualcosa. Non è solo il bambolotto in carne ed ossa che appariva nei sogni, ma è di più, è cosciente, qualcosa in lui è acceso indubitabilmente. Cos’è?
Gli occhi guardano per la prima volta il mondo al di fuori dell’utero, ma “ciò” che attraverso gli occhi sta guardando sa d’antico. Quando quello sguardo e il nostro s’incontrano, qualcosa in noi sussulta e cerca sfogo nelle lacrime, quasi ad umanizzare ciò che umano non è.
Cosa dice quello sguardo antico?
Ci dice di sensazioni profonde che condividiamo con lui, ma di cui, avendo noi perduto quel candore, non siamo più in grado di sopportare la verità che vi si rivela: stupore, meraviglia, stranezza, imbarazzo, spaesamento, inquietudine, voglia di distrarsi. Perché proprio questi sentimenti? Perché non subito quelle sensazioni che ci aspettavamo, amore, tenerezza, affetto?
Nelle settimane successive al parto, quando con le mamme cerchiamo di dare un significato all’esperienza vissuta, le descrizioni di questi primi momenti, soprattutto se è stato possibile tenere da subito il piccolo vicino a sé, sono molto simili: – Tanto stupore da avere difficoltà ad avvicinare il bambino anche solo per sfiorarlo. In principio non era ancora il “nostro bambino”, ma appariva strano e quasi estraneo. Lo sguardo era insostenibile, guardava senza sorridere, senza piangere, senza riconoscere, eppure comunicava qualcosa, e noi, per qualche momento sentivamo la stessa cosa. Cosa sentivamo?
A rispondere a questa domanda sarà ancora il bambino, ma non subito, bensì quando avrà sviluppato un linguaggio sufficiente per esternare finalmente in modo a noi comprensibile ciò che dentro spinge:
– Perché?-
C’è un periodo, tutti i genitori lo sanno, in cui il bambino chiede continuamente:
– Perché?-
Su tutto applica questa domanda, e su ogni risposta che gli forniamo, ancora insiste. In breve tempo ci ritroviamo a fondo corsa e aprire l’enciclopedia non ci aiuta, perché anche su quello è possibile rilanciare un altro impietoso perché e il bambino lo farà di sicuro.
Ma il perché dei bambini é mistico e, prima o poi, arriva il ‘perché?’ sul tutto: – Perché c’è il mondo?-
Che la nostra risposta sia quella di un credente o di un ateo cambia poco perché la domanda rimane anche quando tutte le ragioni possibili sono state date; è immediatamente rilanciata su ciò che noi gli indicheremo come “causa prima”: – Perché quella causa prima c’è?-
Riaffiorano le stesse sensazioni che percepivamo insieme con lui quando è nato: imbarazzo, stranezza, inquietudine, voglia di distrarsi.
Se in quel periodo, tra la nascita del bambino e le sue prime domande, non avremo lavorato su noi stessi cercando di trovare il giusto significato di quelle prime sensazioni, allora probabilmente, giunto il momento dei ‘perché?’ faremo un guaio.
Se quell’intensità, affiorata nel primo incontro col bambino e riemersa alle sue prime domande, non sarà stata indagata, ci ritroveremo a non sopportarla e la eviteremo irritandoci col bambino perché fa troppe domande: – Smettila con tutte queste domande!-
Il bambino, che è ancora nell’età in cui i genitori sono i maestri incontestati, imparerà che le domande sono da evitare perché mettono a disagio; quella meraviglia, quella curiosità che le cose suscitano sono pericolose, forse addirittura segno di una malattia che ha solo lui perché mamma e papà non provano tali sensazioni e non si fanno più certe domande e lui vorrebbe essere come loro.
Quella domanda candida che, dopo anni, il piccolo è riuscito finalmente a dirci, nominandola, comincia a colorarsi di bene o male, giusto o sbagliato, piacevole o spiacevole, esattamente come quella dell’adulto.
E così le sensazioni che non facevano né ridere, né piangere, ma che neppure erano indifferenti, ora cominciano ad essere evitate perché sono le stesse che portano a fare domande.
La domanda originaria del neonato -Perché c’è tutto questo? Cos’è?- che i suoi occhi esprimevano in un silenzioso stupore e che ci rimbalzava addosso mettendoci a disagio, perché, a nostra volta, avevamo imparato ad evitarla, prende anche nel bambino la via dell’oblio.
Impara a far finta che tutto sia normale e giustificato e a temere stupore, meraviglia, stranezza; ad evitarli, magari scambiandoli per sintomi di una malattia, come quei momenti, durante l’adolescenza ad esempio, in cui il mondo e lui stesso si denudano d’ogni arbitrario significato rivelando la sconosciutezza.
Il bambino divenuto ragazzo scoprirà presto che la finta disinvoltura degli adulti, che usano il mondo e se stessi come se avessero risolto l’originaria domanda e colto un senso nell’esserci, poggia invece sulla distrazione; che tutti fanno finta di sapere e invece nessuno sa nulla, e tutti hanno una gran paura di parlarne. Non c’è da stupirsi che il ragazzo che da piccolo, prendendo i genitori a modello, ha imparato ad evitare i perché, provi ora nei loro confronti un senso di ribellione cogliendo la falsità di molti loro atteggiamenti.
Che triste regalo gli abbiamo fatto! Che triste regalo ci siamo fatti!
Ma è possibile evitare di fare questo guaio?
In Oriente si dice che se vuoi essere d’aiuto agli altri prima devi aver aiutato te stesso.
Fin dai primi giorni, quando l’intensità del parto e dell’incontro col bambino sono ancora molto presenti, è possibile indagare questo sentire, guidati da chi ha già attraversato la medesima esperienza, per coglierne il significato.
Aiutare te stesso significa riconoscere il valore della domanda originaria assopita dentro di noi –Perché c’è tutto questo?- smettere di evitarla, anche se, nella nostra società, tutto sembra costruito sapientemente per eluderla.
Tutto questo sembra impossibile se si pensa che l’impegno che il bambino procura, impedisca di intraprendere una tale ricerca. Si dimentica però che è stato proprio il suo arrivo a farci riaffiorare questo particolare sentire.
Opportunamente guidati, impareremo a cogliere ciò che, col suo sguardo stupito e le sue domande, il piccolo maestro ci testimonia.