Il tema del disagio giovanile è particolarmente caro agli insegnanti di A.S.I.A. che ne fanno un tema costante di indagine e di analisi al fine di comprendere le esigenze e le modalità di comunicazione delle nuove generazioni, per far loro scoprire come la pratica dello yoga e della meditazione possa andare incontro alle loro domande.
Il termine “disagio giovanile”, che utilizziamo comunemente e che continueremo anche in questa sede ad utilizzare per intenderci, può dar luogo a un equivoco, facendo pensare che si tratti di un malessere correlato ad una specifica età della vita, destinato a sparire con il passare degli anni. In realtà il disagio di cui ci occupiamo è il più universale e sovraculturale di cui ci si possa occupare, ma il problema è che i giovani sono in grado di esprimerlo alla massima potenza. Quello che, infatti, si verifica è che, con il passare degli anni, spesso si trova il modo non di risolverlo, ma di mitigarlo o di mascherarlo dietro a tutte le altre problematiche, che peraltro la vita ci fornisce abbondantemente.
Il fatto è che si sta abbassando sempre più la fascia d’età delle persone che ne sono affette, che stanno inoltre diventando sempre più numerose.
A questo proposito vorrei leggere alcune righe tratte dalla relazione sullo stato della sanità in Italia che Umberto Veronesi ha presentato al Consiglio dei Ministri nel 2000:
«Il disagio giovanile è un fenomeno dai contorni indefiniti, che va dai disturbi di comportamento alimentare – anoressia e bulimia colpiscono il 9% degli adolescenti, soprattutto ragazzi dai 12 ai 15 anni – all’abuso della droga. Tale abuso può essere sistematico e sotto un certo controllo medico, come per i 150 mila assistiti lo scorso anno nei 560 Servizi per i tossicodipendenti, oppure episodico. Il ricorso alle nuove droghe sintetiche è un fenomeno recente, ancora difficile da quantificare. (…)
Tra i giovanissimi si nota un capovolgimento comportamentale. Va affermandosi un nuovo tipo di consumo di sostanze stupefacenti, stimolato non più dal desiderio di fuga da una realtà ingrata, come avviene per coloro che fanno uso di eroina e di altre droghe pesanti (fortunatamente in diminuzione), bensì spinto dalla ricerca spasmodica di nuove sensazioni al limite e di un senso di onnipotenza. In questo contesto, cocaina, ecstasy, derivati anfetaminici registrano costantemente un preoccupante aumento».
In un articolo della CNN ho trovato le seguenti statistiche che non riguardano solo i giovani ma la cosiddetta “salute mentale” in generale:
«I disturbi mentali coinvolgono dieci milioni di pazienti e toccano la metà delle famiglie italiane, con un corredo di disagi che va dai disturbi legati alla sfera affettiva (37,8), a problemi di ansia (37,2), di somatizzazione (5,8), di controllo degli impulsi (3,6) e del sonno (3,5). Quasi sette milioni di questi malati sono donne. (…)
A livello mondiale, le malattie psichiche sono la seconda causa di spesa sanitaria, dopo i disturbi cardiovascolari. Secondo OMS e ONU, un ragazzo su cinque soffre infatti di disordini medio-gravi, la maggior parte dei quali non verrà mai curato a causa della mancanza di strutture idonee. Negli anni ’90 la depressione, l’abuso di alcool, i disordini maniaco-depressivi, la schizofrenia, i disturbi ossessivi compulsivi, sono stati tra le dieci cause principali legate alla disabilità. Secondo le stesse stime, inoltre, solo nell’anno 2000 è stato commesso un suicidio ogni 40 secondi».
Un altro articolo correlato a questo trovato su Internet recava il seguente titolo: «Il male dell’anima negli italiani: 10 milioni con disturbi mentali».
Vorrei partire da questi dati per fare alcune considerazioni.
Innanzi tutto è evidente che il fenomeno è in costante aumento ed è di portata planetaria, anche se (in realtà non ho trovato questa specificazione) credo che si possa affermare che riguarda soprattutto il mondo industrializzato. Il terzo mondo è, infatti, affetto da una diversa tipologia di problemi.
Secondariamente ho notato che i termini “mente”, “psiche” e “anima” sono usati come sinonimi e che questo porta al fatto che non ci sia distinzione tra quelli che sono veri e propri problemi psicologici o psichiatrici e quelli che potrebbero essere veri e propri problemi dell’anima, intesa come quella facoltà autocosciente che è in noi e che è in grado di interrogarsi sui significati profondi dell’esistenza e di esprimere un bisogno di senso. Bisogno che si esprime attraverso un sentire che può anche diventare problematico e, in casi estremi, patologico.
Si nota inoltre, ma questo passa quasi inosservato e si dà per scontato che debba essere così, come i “problemi dell’anima” siano ritenuti di pertinenza scientifica. Il Ministro auspica maggiori finanziamenti per la ricerca scientifica in questo campo; all’interno dell’articolo è riportato il parere della neurofisiologa Rita Levi Montalcini. Non ho trovato il parere di un prete o di un filosofo.
Stiamo assistendo ad un cambiamento culturale epocale: l’anima è diventata di pertinenza scientifica.
Grazie agli innumerevoli successi della scienza, si pensa che questa possa risolvere tutto, anche in ambiti che non sono di sua stretta competenza. Dietro a questo sta una concezione particolare di quello che è un essere umano: si pensa cioè che esso sia esauribile nella descrizione dei meccanismi che riguardano la materia di cui è composto il suo corpo. Questo è la diretta conseguenza di quello che è il metodo scientifico che studia solo ciò che può osservare oggettivamente: dal punto di vista oggettivo, studiando una persona, non si possono trovare che cellule, neuroni, sostanze chimiche. Questo è molto importante nell’analisi del disagio giovanile. Infatti, se io non sono nient’altro che un ”ammasso di neuroni”, come afferma il neurofisiologo premio Nobel, Francis Crick, perché non dovrei sedare il mio disagio con l’uso di sostanze chimiche, proprio come fanno i giovani che si drogano? Peraltro, anche ufficialmente spesso si cerca di sedare il disagio con psicofarmaci. Cambia la chimica ma la struttura è la stessa. In realtà, scientificamente si possono trovare le sostanze chimiche che sono in circolazione nel mio organismo quando provo una certa sensazione, ma i significati che le sensazioni veicolano, dove si trovano? Qual è inoltre il rapporto di causa-effetto? Sono mosso da significati o i significati sono prodotti dalla materia? Ma questa, da cosa è mossa? La scienza non può occuparsi dei significati perché non sono misurabili, quantificabili, analizzabili con un microscopio.
L’ambito della ricerca interiore non può essere di pertinenza scientifica.
Proprio per questo è importante proporre un’alternativa come la pratica dello yoga e della meditazione.
Infine negli articoli sopra citati ho notato che sono presenti elenchi di sintomi, ma non analisi delle cause, e che inoltre tutto viene messo in un’unica categoria, che è quella del disagio che definirei “psicologico-relazionale”, o in casi gravi psichiatrico. Il ministro stesso afferma che si tratta di un fenomeno dai contorni indefiniti.
In realtà un’altra grave forma di disagio si sta diffondendo a macchia d’olio tra le giovani generazioni, un disagio che è stato profeticamente annunciato da un filosofo più di un secolo fa:
«Descrivo ciò che verrà: l’avvento del nichilismo (…). L’uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo, ora a quello, ora a quel valore, per poi lasciarlo cadere; il circolo dei valori superati e lasciati cadere è sempre più vasto; si avverte sempre più il vuoto e la povertà di valori; il movimento è inarrestabile – sebbene si sia tentato in grande stile di rallentarlo. Alla fine l’uomo osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l’origine; conosce abbastanza per non credere più in nessun valore; ecco il nuovo pathos (…), il nuovo brivido (…). Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli (…)».
Si tratta di un frammento scritto da Nietzsche verso la fine dell’Ottocento, che credo descriva esattamente quello che sta attualmente succedendo. D’altra parte frequentemente avanguardie di pensiero sono in grado di esprimere anticipatamente un sentire che in seguito diventerà più diffuso.
Ma da cosa deriva questo crollo di valori? Da qualcosa di cui ha parlato Nietzsche stesso annunciando, nel La Gaia Scienza del 1882, la morte di Dio, che significa la perdita di un centro assoluto, di qualcosa di fondante su cui costruire un sistema di valori. Venendo a mancare questo, è potuta affiorare la domanda sul senso della vita e dell’esistenza di questo universo. Un tempo sarebbe stato irriverente nei confronti di Dio chiedersi sul senso dell’esistenza. La sua presenza sanciva la causa, il senso e il fine ultimo. Qualcuno adesso ha dei problemi a chiedersi qual è il senso della vita? Le giovani generazioni sicuramente no, ma in realtà nemmeno gli anziani: il cambiamento è già avvenuto.
Possiamo quindi affermare che esistono due diversi tipi di malessere, uno di tipo psicologico-relazionale, ed uno che definirei filosofico-esistenziale, dove per filosofico non intendo un concetto astratto, ma qualcosa che viene sentito visceralmente.
Il primo ha la caratteristica di essere dipendente da circostanze di vita e in particolare da problematiche affettive. È quello di cui si occupa la psicanalisi, che, infatti, cerca le cause del malessere nelle relazioni avute nell’infanzia con i genitori o l’ambiente circostante. Il secondo ha la caratteristica di essere assoluto. Uso questo termine non per enfatizzarlo ma per indicare che esso non dipende da circostanze di vita, non viene risolto cambiando vita o elaborando le relazioni con i genitori, ma trova le sue ragioni d’essere nel puro e semplice fatto di esistere.
Il malato esistenziale percepisce un senso di inutilità, non capisce che cosa stia a fare al mondo, verso dove vada. Non capisce perché le persone che lo circondano riescano ad aderire e prendere sul serio gli eventi della vita. Proprio per questo si sente un isolato. La sua malattia può portarlo alla depressione o anche ad un bisogno di sfida, di eccesso, di desiderio di sensazioni sempre più intense, come è messo in evidenza anche nella relazione di Veronesi, parlando di nuove droghe. Spesso sfocia in un senso di estraniazione che lo porta ad esperienze spaesanti di vario colore ed intensità, delle quali fanno parte anche le crisi di panico.
Il malato esistenziale non è curabile con le tradizionali terapie psicologiche o psicanalitiche, proprio perché la sua malattia non ha a che fare con la psiche, ma con uno strato di coscienza più profondo, non dipende dal suo carattere ma da qualcosa di più universale. Più universale perché esprime un problema universale. Se qualcosa in noi può essere chiamato anima io chiamerei anima proprio ciò che ha la capacità di sentire questo problema universale e di elaborarlo in domande, portandolo anche a compimento, a risoluzione, come vedremo più avanti.
Il problema esistenziale non solo spesso non è legato a circostanze di vita, anche se in realtà può essere evocato da gravi problemi, quali lutti o perdite irreparabili, ma spesso addirittura affiora quando tutto pare andare bene.
È per questo che è affiorato con le generazioni del dopoguerra. Il fenomeno della ribellione giovanile è, infatti, iniziato tra gli anni ’50 e ’60. Spesso è stato coperto da altre problematiche, quali la pace, il bisogno di giustizia, l’ecologia che lo hanno solo parzialmente incanalato, ma non risolto.
Nel mondo industrializzato occidentale, intere generazioni di genitori, che in molti casi avevano sofferto la fame, la paura della guerra, si sono ritrovate con figli che avevano tutto quello che a loro era mancato ma che, nonostante questo, erano afflitte da un profondo senso di insoddisfazione.
Questo ci ricorda un’altra vicenda avvenuta in India circa 2500 anni fa, a segno dell’universalità del problema, quando all’età di 29 anni il giovane principe Siddharta decise di fuggire dal palazzo del padre per andare incontro al suo bisogno di risolvere il problema della sofferenza. Aveva tutte le ricchezze che voleva, moglie e figlio compresi, eppure la sua insoddisfazione ed il suo bisogno di ricerca interiore erano più grandi. Immagino il padre di Buddha in versione moderna che dice al figlio: “Ti ho fatto crescere in un palazzo, ti ho dato tutto quello che desideravi, che cosa ti manca?”. In realtà il padre del futuro Buddha sapeva perfettamente da quale malattia fosse affetto il figlio, e nel film di Bertolucci esplicita il problema dicendo che ci tocca nascere e poi morire e poi rinascere all’infinito, in un circolo costrittivo in cui non abbiamo scelto di stare.
Questo è il modo in cui in India è stato espresso il problema dell’esistenza, ed è proprio da questo che è nato il bisogno di ricerca interiore.
I padri adesso non sanno esattamente da cosa sono afflitti i loro figli e quindi difficilmente possono aiutarli. Proprio da questo nasce il conflitto. Non potendo risolvere il problema si cerca di nasconderlo, coprirlo o addirittura reprimerlo. I loro figli esprimono qualcosa che riguarda anche loro, ma come risolverlo?
È molto interessante il modo in cui i genitori esplicitano il problema: “Cosa ti manca?”. Siamo, infatti, abituati ad identificare lo star bene con un senso di pienezza e il malessere con un senso di mancanza e conseguentemente a cercare di risolvere ciò che ci affligge in un modo che definirei “allopatico”. Se soffriamo di solitudine cerchiamo compagnia, se abbiamo paura cerchiamo rassicurazione, e così via. Ma se il problema è la mancanza di senso, non inteso in senso personale, ma assoluto, dove lo andremo a trovare? Se il problema è l’esistenza, qual è l’antidoto?
A questo punto, poiché la problematica si fa piuttosto scottante, quasi tutti voltano lo sguardo, cercano di distrarsi, ignorando che esiste un’altra via che consiste nel guardare più in profondità il problema stesso.
Esistono Vie di ricerca interiore, come la meditazione e lo yoga, che consentono di andare ad osservare il problema proprio là dove sorge.
Spesso i giovani sanno che stanno male, ma non riescono ad elaborare il problema. Vivono uno sconvolgimento emotivo, un sommovimento viscerale che solo in alcuni casi diventa un’esplicita domanda di senso. Sono spesso scoraggiati perché hanno già sperimentato altre strade che non sono servite a nulla ed inoltre si sentono decisamente incompresi in questo malessere così difficile da “leggere”.
È perciò importante che un giovane elabori il proprio sentire cercando di capire quali significati nasconde, con quale domanda può essere espresso. Bisogna comunque tener presente che non tutti sono afflitti dallo stesso problema e che non tutto cura tutto. È innanzitutto necessario arrivare a comprendere il nostro bisogno più profondo, se questo è rappresentato da un bisogno di verità, la “ricerca” può sicuramente fare qualcosa per noi.
Il malessere che affligge giovani (e non) non è solamente qualcosa di negativo da rifiutare, ma può avere un valore, in quanto spinta alla ricerca e può esprimere qualcosa di vero. Introduco questa parola che ha un’importanza fondamentale. Ciò che rende i giovani ribelli è il fatto che vengono loro proposte soluzioni che sentono arbitrarie, non risolutive, quali lo studio, la carriera, la famiglia, in alcuni casi la fede. Non intendo dire che queste cose non siano importanti, ma sicuramente non sono risolutive del problema esistenziale che è più grande della vita stessa, in quanto comprende anche il problema della morte e può essere applicato a qualsiasi sistema di vita.
Il percorso che si propone con la pratica dello yoga e della meditazione non vuole portare a soluzioni arbitrarie o ad atti di fede, ma semplicemente a guardare le cose come stanno, ad osservare il problema al suo principio per vedere cosa nasconde e se può essere sgretolato, se regge ancora ad un’osservazione più attenta.
Il malessere esistenziale è una conclusione tirata sull’esistenza.
Si tratta di riaprire i giochi, di vedere cioè come e perché abbiamo tirato proprio “quella” conclusione e questo può avvenire, cogliendo il mistero che siamo, portandoci proprio là dove la coscienza si affaccia sul mondo, prima ancora di diventare mente. Là dove non si trovano cervello, neuroni o sostanze chimiche, ma “coscienza di”.
Nella cultura in cui è nato lo yoga questo si sa bene. La coscienza non è un prodotto del corpo, ma casomai sono cosciente di avere un corpo. L’essere cosciente viene prima di tutto è un a-priori, la condizione indispensabile perché ci sia esperienza. È il testimone di cui parla Patanjali, l’Atman delle Upanisad. È importante perché è un luogo dell’esistenza che ci riguarda personalmente e che ci può portare ad un salto di consapevolezza. È denso del mistero che siamo e proprio per questo riapre i giochi:
su un mistero non è possibile tirare conclusioni.
Questa non sarà l’ultima parola che l’essere dirà di sé, ma l’inizio di una parola nuova.
Le risposte alle domande fondamentali non esistono. Non sappiamo chi siamo, perché ci siamo, che ne sarà di noi domani o quale sarà il nostro prossimo pensiero, ma si può diventare consapevoli del miracolo che siamo ora. Là dove era solo disordinato sommovimento viscerale si può scoprire fascino e meraviglia.
Tutto questo può sembrare un percorso astratto, solo teorico, in realtà si tratta di filosofia strettamente esperienziale. Parte dal sentire del praticante ed è accompagnata da percorsi di pratica intensissimi.
Il corpo viene educato all’immobilità attraverso la disciplina dello yoga e a partire da questo la mente viene portata ad uno stato di silenzio in cui è possibile l’osservazione e l’ascolto. In queste condizioni il sentire viene ripulito e può rivelare i suoi più profondi significati.
In queste pratiche la relazione con l’insegnante deve essere molto stretta, proprio perché si tratta di andare a visitare delle zone nuove, abitualmente non praticate. La meditazione non ha niente di pericoloso in sé, ma la mente, non abituata ad osservare il mondo interiore, può produrre fantasmi e perciò è importante che qualcuno dall’esterno la riporti sui binari giusti. L’insegnante infonde coraggio all’allievo e cerca di aiutarlo ad ordinare le sue osservazioni, perché non si perda in suggestioni non significative e magari distraenti. Quello che si cerca di suscitare con la pratica è un salto di consapevolezza, un’esperienza che trasformi il tormento di esistere in consapevolezza di esistere. Spesso le persone che si mettono su questa via praticano quasi tutti i giorni con grande passione ed interesse. Anche tutti gli altri aspetti della vita ne risentono positivamente, poiché riescono a guardare il mondo con occhi nuovi. Studi che apparivano noiosi spesso vengono ripresi con passione, perché riescono a vedere che ciò che muove la loro ricerca è anche il motore di diversi ambiti culturali, dalla ricerca scientifica, all’arte, alla poesia, alla filosofia. Sostanzialmente non trovano un fondamento, la causa del mondo, ma un principio da cui guardare tutto questo.
Vorrei concludere citando un brano noto nel mondo dello yoga e a me molto caro:
«Per il comando di chi, per la spinta di chi vola il pensiero? Per le arti di chi il respiro per primo si muove? Per il volere di chi vien pronunciata la parola? E qual Dio domina la vista e l’udito? (…)».
Kena Upanisad
Paola Basile è autrice del libro “Figli del nulla” i giovani e il male di vivere tra nichilismo e buddhismo