Ci avvolge, sempre più, una pesante trama di tecnologia. Dopo averci liberati dalla fatica fisica e dato tempo libero in abbondanza, la tecnologia deve rimediare ad un tremendo effetto collaterale: l’abisso di noia, di tedio totale in cui ci ha sprofondati, paragonabile solo a quello delle classi più privilegiate dell’antichità.
Per alleviarlo, la tecnologia ha potenziato le sensazioni di cui possiamo oggi saturare i nostri recettori: possiamo stare svegli fino a tarda notte girando per locali, procurarci spettacoli, auto, moto, scegliere tra decine di canali televisivi, centinaia di riviste, migliaia di film e dischi, dove si ripropongono e amplificano sensazioni forti come emozioni, lotta, velocità, sesso, successo. Possiamo restare continuamente in contatto tra noi con infiniti mezzi di comunicazione. Ci avvolge un tappeto musicale con bassi potenti (rassicuranti memorie uterine), e un continuo stimolo visivo, luminoso, cangiante, fatto di inquadrature di pochi secondi. Il territorio è pieno di opere, strutture, servizi, anche sulle montagne più sperdute. Non c’è più bisogno del fiasco di vino per reggere la pesantezza del lavoro, ma neanche di droghe pericolose per sopportare il non-senso. Ci pensa la tecnologia (dove non basta la mente con i suoi progetti o ricordi) ad aiutarci a reagire al tedio.
La tecnica ci protegge riempiendo ogni spazio, ogni istante di sensazioni, così come il barocco del 1600 riempiva le chiese, i quadri, i mobili di infiniti riccioli, putti, raggi, colombe, in polifonie assordanti.
L’insoddisfazione è nel corpo, e nel corpo la tecnologia agisce per alleviarla: le sensazioni più riempitive coinvolgono bacino, pancia, cuore. Restare a lungo senza tuffi al cuore è noia, insopportabile mortorio.
La causa è molto precisa: cosa ci ripropone la noia, un sabato sera da soli, il silenzio, la notte senza luci, il tempo che scorre, un paesaggio monotono, niente da leggere, ore di attesa di niente di preciso…?
In quel tempo vuoto, emerge il sentimento di fondo: le cose, la mia presenza… senza significato.
E’ l’enigma. Inquietante. Assordante.
Nel vuoto di spazio, di immagini, di luce, di suoni, di sensazioni, c’è tutto il vuoto di me! Vuoto inteso come vuoto di senso, senza causa e scopo, privo di una ragione che me lo faccia sopportare. Da quando la religione si è svuotata dall’interno, incapace di parlare all’uomo del ‘900 di lui stesso, di questo suo sentire l’assurdo in ogni attimo di vuoto, siamo indifesi: non c’è una ragione, un significato divino in questa noia mortale. Ci difende la tecnica: perché è facile dire “meglio non pensarci a queste cose”, ma ci vogliono i suoi potenti mezzi per riuscirci. Il problema preme ad ogni coscienza, e se non se ne parla è perché nessuno ha una soluzione diversa dall’ignorarlo.
Per inciso, tanta tecnologia porta a moltiplicare i contatti con il mondo, e quindi non solo le sensazioni ma anche le reazioni, gli attaccamenti, le illusioni e quindi il dolore, secondo una precisa catena di cause ed effetti. Intensificare così tanto i contatti ci fa dimenticare il non-senso, ma accresce enormemente il dolore, di cui la “stressante e frenetica vita moderna” è così ricca. La domanda -ma perché?- rientra dalla finestra attraverso il dolore della mancanza, della perdita..
Restano, voce che grida nel deserto, i profeti dell’occidente: gli artisti.
Perché è il tedio la dimensione che la grande arte frequenta, a cui attinge a piene mani. L’artista sa vivere il tempo vuoto, la noia, ne coglie il fascino. Gli si rivela così un mondo estraniato, come visto per la prima volta. Edward Hopper, il grande maestro americano della pittura realista, dipinge una realtà monotòno, silenziosa, con figurine rigide e congelate, senza movimento. Ha dipinto più la luce che gli oggetti, la luce su corpi, case, alberi, stanze vuote: con un tale senso di semplicità e onestà, immediatezza, per far sì che i quadri provocassero, come egli disse, “quasi lo shock della realtà stessa”. Provate a restare una domenica pomeriggio, con molto sole, in compagnia di un catalogo delle sue opere… con tanto tempo.
Il vuoto di significato è insostenibile, ma non perché la vita chiede movimento e attività: quella accade comunque da sè, è una spinta biologica, ma c’è dell’altro. Perché provoca uno shock? Perché la coscienza sussulta nel vedere che tutto ciò non dovrebbe esserci, è un mistero di troppo.
Ti impatta in fronte con la sua evidenza, appena si rompe la TV o siamo costretti a stare in coda, e si prende spazio:
-ma cosa facciamo qui tutti quanti?
-nessuno ne sa niente, stiamo essendo senza un perché!
-e alla fine, la morte. Tutto per niente!
Se ci fermassimo qui saremmo in pieno nichilismo esistenziale, ma il tedio va letto più a fondo, sviluppato, praticato.
Non tutti siamo artisti, capaci di esprimere ed evocare il sentimento del tedio, ma siamo tutti coscienti e lo viviamo tutti. Possiamo imparare a frequentarlo e ad interrogarlo.
Perché nel tedio c’è tutto, la condanna e la liberazione.
La nostra Arte sarà quella di creare le condizioni perché si dispieghi in noi il tempo vuoto di suoni, sensazioni, traduzioni. Per incontrare e sondare il sentimento di fondo, l’enigma dell’esserci di tutto ciò, le domande che fa sorgere, lo shock. Questa è la dimensione della meditazione.
La Via del buddismo zen è una disciplina del sentire dilatato e contemplante, e del domandare spietato su ciò che si sente; del leggere e porre ordine fin dove è possibile, e poi lasciare spazio al Mistero irredimibile dell’Esserci invece che nulla.
Il sublime che l’arte figurativa del ’900 evoca, non nel “bello” ma in ordinarie scene del quotidiano su cui vibrano strane luci, è che l’universo sa illuminarsi sul proprio mistero attraverso questa coscienza umana. Con un sussulto, uno shock, emerge il Significato del tempo senza significato.
A questo non-senso ci si inchina.
E si continua a sondarlo: il fascino si nutre di sè, del suo star essendo, irreparabile.