Aveva aspettato a lungo il proprio turno per il trapianto, ma, quando è arrivato, Walter Bevilacqua ha preferito lasciare che fosse qualcun altro a sopravvivere grazie al rene che gli era destinato: “Sono in molti che aspettano quest’occasione. Persone che hanno famiglia e più diritto a vivere di me. E’ giusto così”. Queste le parole, confidate solo al proprio parroco e a un vicino di letto, in ospedale, con cui Bevilacqua ha spiegato la propria scelta: “Sono solo, non ho famiglia. Lascio il mio posto a chi ha più bisogno di me. A chi ha figli e ha più diritto di vivere”. Uomo semplice e solitario, per tutta la vita pastore sulle alture che attorniano la Val Divedro, al confine piemontese con la Svizzera, Bevilacqua è mancato qualche giorno fa, all’Ospedale ‘San Biagio’ di Domodossola, mentre si stava sottoponendo alla dialisi. La sua vicenda, altrimenti di certo obliata, è stata resa nota durante la messa domenicale da Don Fausto Frigerio, parroco del paesino in cui si sono svolte le esequie.
Sessantotto anni di un’esistenza dura com’è sempre quella dei pastori che restano in quota, e della quale dal nonno, che lo aveva allevato, aveva imparato a non lamentarsi mai. Ora non solo i compaesani di Bevilacqua, ma chiunque ne conosca la storia si trova a confronto con un esempio difficile da seguire, addirittura opposto all’atteggiamento più comune, in questo luogo e in quest’epoca, al cospetto della morte, propria o altrui. Com’è stato possibile, per quest’uomo, accettare la propria fine in virtù di un pensiero tanto radicalmente altruista? Avrebbe compiuto la stessa scelta se fosse vissuto lontano da un contatto così diretto e continuo con la natura?
E’ utile soffermarsi su tale riflessione, e forse capovolgerne i termini: cosa ci impedisce di rapportarci alla morte in modo magari non eroico come insegnerebbe questa storia, ma almeno non conflittuale, scevro dal terrore che, perlopiù, suscita la prospettiva di perdere la vita? Quale ruolo occupa il pensiero concreto della fine, non solo nella nostra individuale quotidianità, ma nell’ambito socio-culturale a cui apparteniamo? Quale lettura ne diamo, tale per cui chi muore in ospedale subisce spesso un trattamento disumano proprio durante le ultime ore di vita? L’allontanamento del nostro quotidiano dai cicli naturali ha un ruolo, in tutto questo? Se sì, quale?
Sulle pagine della nostra rivista abbiamo più volte aperto uno spazio che potesse ospitare alcune considerazioni fondamentali sulla fine della vita. In questo caso preferiamo aprire interrogativi che possano sollecitare ciascuno ad una ricerca personale e autonoma, possibilmente per una presa di coscienza piana, silenziosa, dignitosa come lo è stata la decisione di Walter Bevilacqua.