Interdipendenza nelle isole oceaniche ed esperienza della finitezza*
Leggi il primo capitolo: perchè facciamo scelte eco-ambientali rovinose?
2. Isole sostenibili: due stili di espressione dell’interdipendenza
Dobbiamo sviluppare la nostra capacità
di sentire le nostre emozioni e quelle degli altri
di percepire la bellezza del mondo,
e di pensare nel modo giusto.
Pierre Lévii
Tikopia è un’altra isola della Polinesia, meno isolata e fredda di Pasqua ma circa 30 volte più piccola e altrettanto fragile. Come ogni piccola isola ha reti ecologiche semplificate e che sono quindi meno capaci di assorbire le perturbazioni e le oscillazioni distruttrici da parte del clima e degli abitanti. Tuttavia è abitata stabilmente da ben 3000 anni da circa 1200 persone, che vivono in grande armonia e pace.
È sempre grazie al lavoro di Jared Diamond[2] che sappiamo che gli abitanti i Tikopia, dopo qualche errore iniziale, hanno sostituito la foresta pluviale senza rinunciare a complessità e biodiversità. Importando diverse specie da altre isole hanno creato una “foresta fruttifera” disposta a piani orizzontali come quella originaria: piante d’altro fusto, sotto di esse piante a fusto medio, poi arbusti e tuberi. Intuendo che facevano parte di un ordine complessivo, hanno ricreato in questa foresta arficiale anche le relazioni ecologiche che sembravano più insignificanti. Hanno allevato solo polli, avendo e a un certo punto deciso di comune accordo di eliminare tutti i loro maiali perché nutrirli rappresentava una spesa ambientale troppo alta. La pesca, regolata da forti tabù, ha dato con continuità proteine a tutti, mentre i danni dei terribili cicloni che potevano sradicare i preziosi alberi da frutto venivano superati con “razioni d’emergenza” (frutti dell’albero del pane, che come pasta fermentata potevano durare anni). Hanno attuato uno stretto controllo demografico mediante celibati, aborti e infanticidi, ma anche attraverso un certo numero di suicidi. I conflitti sono stati ridotti al minimo grazie a una struttura sociale estremamente egualitaria che tuttavia veniva stabilizzata da elementi di forte unità: la tradizione e alcuni individui (sacerdoti, capiclan) che fungevano da connettori capaci di far convergere la piccola popolazione su decisioni condivise. L’interesse per mantenere equilibrata l’isola è quindi distribuito in ciascuno, in un’autentica “ecologia in prima persona”.
Questo è uno stile bottom up, di armonizzazione “dal basso” delle reti ecologiche: una ecologia in prima persona che nasce dal singolo o da gruppi omogenei di persone, dalla loro diretta osservazione e intuizione della natura interdipendente e instabile dei fenomeni. Nel mondo odierno questo stile di espressione della interdipendenza si ritrova in soluzioni decentrate e flessibili, che richiedono risorse limitate e la cui ricchezza più grande non sta nei prodotti, ma nel modo in cui esprimono la dipendenza reciproca di ogni fenomeno locale da tutti gli altri. Gli esempi sono variegati: la produzione di energia “in casa” e il riciclo; il consumo consapevole; piccole comunità globali iper-specializzate unite dalla Rete, per le quali è chiaro che ogni gesto ed ogni evento sul pianeta sono interconnessi come la loro comunicazione; la possibilità di integrazione di dati ambientali da monitoraggi, GPS, Googlemap, social network, cellulari e grafica computerizzata per evidenziare la natura interconnessa della vita di tutti.
L’interconnessione mediante quella “ecologia del sapere” che è il web è l’elemento chiave che favorisce azioni distribuite e non-gerarchiche. Le “catene alimentari dell’energia” possono essere integrate grazie a migliori “catene alimentari di informazioni”: sono nati siti web dove chiunque può calcolare facilmente il metabolismo energetico e la produzione di CO2 delle sue attività, e studiare come ridurlo. Giovani ricercatori e movimenti di contadini come “Terra Madre”, riscoprono il senso profondo delle tradizioni agricole locali e sviluppano tecnologie sobrie, durevoli, riciclabili: impiantano cicli di produzione simili alla foresta fruttifera di Tikopia, rispettando la complessità e diversità delle relazioni di base per favorire un auto-mantenimento del sistema.
Questo stile ha buone possibilità di funzionare in piccole comunità fortemente connesse (anche se non sempre, come insegna l’Isola di Pasqua). Ma talvolta la complessità di vaste popolazioni e territori richiedono altri stili d’espressione dell’interdipendenza. Infatti le connessioni non si distribuiscono più solo in modo egualitario[3], ma tendono a concentrarsi in un hub (connettore) maggiore che – invece di intrattenere relazioni forti con pochi elementi – vanno a integrare un numero enorme di relazioni deboli con tantissimi elementi della rete. Essi forniscono la complementare azione top-down capace di dare istruzioni al sistema. Un buon esempio di hub di interdipendenza è stato lo Shogunato giapponese nel XVIII secolo, quando mise in atto quella che probabilmente è la prima riforma ecologica della storia.
Anche il Giappone è stato per un periodo storico un’isola oceanica solitaria: nel Seicento il potere politico decise che l’arcipelago giapponese si chiudesse al mondo, e questo isolamento proseguì per oltre 250 anni. Durante il primo periodo di isolamento l’assenza di guerre e la buona produzione agricola produssero una rapida esplosione demografica, e di conseguenza a un enorme bisogno di legname per costruire case e scaldarsi: in soli 100 anni tutte le foreste del Giappone furono abbattute e il suolo subì una forte erosione a causa delle continue inondazioni. Ne seguì il crollo della produzione agricola, che portò a carestie di massa e migrazioni forzate.
A partire dal 1720, il potere centralizzato dello Shogun affrontò l’emergenza inizialmente in stile “Isola di Pasqua”, cercando altre risorse da sfruttare: aumentò la cattura di pesce e di mammiferi marini, la caccia della selvaggina nell’isola settentrionale di Hokkaido. Ma non potendo espandersi oltre dovette anche attivare la propria “saggezza sistemica” e intraprese un’energica azione di riforme interne, utilizzando milioni di funzionari, soldati, operai. Lo Shogunato fece partire – per la prima volta sul pianeta – un grande progetto di riforestazione, con leggi severe ed ispettori meticolosi. Grazie al suolo giovane e al clima favorevole le foreste ripresero spazio, mentre il consumo di legno veniva regolato in ogni dettaglio riducendo anche quello per la costruzione delle case grazie a ingegnose soluzioni architettoniche. L’agricoltura ripartì dopo forti limitazioni delle coltivazioni di foraggio per cavalli e buoi, poco utili in tempo di pace e con tanta forza lavoro umana a disposizione. Con una politica di controllo delle nascite incredibilmente efficace per quei tempi, lo Shogunato mantenne stabile la popolazione a 27 milioni di abitanti per i successivi 100 anni. Il lascito di quel periodo dura ancor oggi: il Giappone ha il 70% del territorio forestato, una delle percentuali maggiori del mondo (l’Italia ne ha il 35 %; il Brasile circa il 55%).
L’attitudine del popolo giapponese di porre la collettività prima dell’individuo – che nasce da profonde radici filosofiche e religiose, e talvolta implica periodi di forte nazionalismo[4] – ha permesso che queste norme calate dall’alto diventassero una sensibilità distribuita, capace di agire anche dal basso. Quindi iniziative bottom-up, con soluzioni distribuite che nascono spontaneamente dalla intuizione e sensibilità della prima persona, sono complementari a progetti razionali top-down decisi in terza persona dagli hub – connettori dotati di visione d’insieme.
Sono modalità complementari che in società complesse si rinforzano e vicenda, e che nascono da una chiara comprensione della rete di interdipendenze in gioco.
Forse per affrontare la questione non si può prescindere da un approccio di questo tipo per un semplice motivo: la vita stessa è fondata sul principio di interdipendenza, come vedremo nel prossimo capitolo con alcuni esempi tratti dalla microbiologia e dall’entomologia.
Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/1: perchè facciamo scelte eco-ambientali rovinose?
Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/3: esiste davvero l’essenza di un fenomeno vivente?
Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/4: perchè non crediamo ai dati sulla crisi ambienta?
Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/6: come riusciamo a “distrarci” dal problema ambientale?
Leggi il capitolo “Ecologia e finitezza”/7: da dove ripartire per uscire dall’emergenza ambientale?
[*] Lavoro presentato al convegno “Ecology in the first person”, 6 April 2010, École Polytechnique Paris CREA/CNRS, “Co-interdependency in Oceanic Islands and lived experience of finiteness”.