Renzo Piano è ospite dell’edizione 2009 del Cersaie di Bologna, fiera di prim’ordine per i materiali da rivestimento e il titolo della conferenza è “fare architettura”. La scelta è avvenuta in modo naturale, perché il fare per Renzo Piano è l’inizio del lavoro dell’architetto; sono il fare e l’esperienza del costruire che permettono di maturare nel tempo una “visione” dell’architettura, alla quale si perviene dopo anni di domande e tentativi concreti.
Parla “a braccio” ed è ironico quando dice di essere venuto per far vendere ceramica, ma sottolineando fin da subito l’aspetto concreto del proprio lavoro afferma: “sono qui per parlare di architettura […] e l’architettura è fatta di materiali”.
Per Piano il mestiere di architetto è un mestiere avventuroso, una sfida per l’ingegno. L’architettura è un’arte di frontiera, un’arte di rapina, “corsara” come lui la definisce, perché trae ispirazione da ciò che incontra, rimanendo contaminata e arricchita dalla realtà. In questa visione avventurosa del proprio lavoro racconta dell’inevitabilità di correre rischi e di fare errori. L’architetto-corsaro corre e scopre il mondo, e questo è il consiglio che dà ai giovani che vogliono intraprendere questo mestiere, purché siano anche pronti a tornare alle proprie origini.
Ma se l’architettura comincia dal fare, dalla forza della necessità, si trasforma poi in arte del celebrare, del rappresentare, “e solo quando la capacità di rispondere a un bisogno reale riesce a coincidere con la capacità di rispondere ai desideri, alle allusioni, ai sogni, è lì che l’architettura diventa straordinaria”. Così, l’antica arte di produrre ripari si slancia oltre il mero aspetto dell’utilità, nel tentativo di rappresentare e alludere a qualcosa di più, facendo della necessità un mezzo di espressione e celebrazione.
La premessa che dedica alla sua visione dell’architettura ci mostra la complessità di questo mestiere, fatto di ascolto della gente e dei luoghi, di riflessione, di rischio e avventura, e da qui partiamo per visitare alcune tra le più importanti opere realizzate nella sua carriera, sparse in tutto il mondo, secondo un percorso che attraverso gli esempi sviluppa i temi fondamentali del suo lavoro.
La storia di Renzo Piano comincia molto presto, quando da bambino accompagnava il padre costruttore nei cantieri della riedificazione successiva alla seconda guerra mondiale e veniva a contatto con quello che lui stesso definisce “il miracolo del costruire”. Nell’infanzia passata a Genova, che tanto lo ha influenzato con i suoi porti e le sue navi, hanno messo le radici quelle impressioni che qualche anno dopo si sarebbero concretizzate nella prima grande realizzazione, il Centre Pompidou di Parigi, questa “strana nave che si è ritrovata in mezzo al Marais”, come lui la definisce. Aveva trentatré anni quando insieme al collega Richard Rogers vince il concorso per Beaubourg, un’opera controversa che all’epoca suscitò tante polemiche, ma che ormai è entrata nel cuore degli abitanti: “gli edifici, quelli che contano, non entrano per forza subito nei riti, nella ritualità, nell’accettazione, negli affetti. Hanno bisogno di guadagnarseli gli affetti!”. L’audacia del progetto apparve solo a lavori ultimati, e ironicamente afferma che “non bisogna proprio spiegare tutto, perché sennò ti fermano!”, alludendo all’astuzia del disegno che serve a dare un’anteprima accettabile dell’opera. In questa triplice veste di costruttore, sognatore e umanista progetta Beaubourg provocatoriamente con l’aspetto di una fabbrica trasparente, per contestare l’immagine consueta e intimidente del luogo per la cultura fatto di pietra.
Questo lato sociale del suo lavoro riemerge in un intervento successivo, la sistemazione del centro storico di Otranto dei primi anni Ottanta, occasione in cui gli abitanti parteciparono attivamente alle decisioni: “un bravo architetto deve saper ascoltare, e quando a parlare non è una persona ma sono tante è ancora più difficile, perché quelli che hanno meno da dire sono quelli che parlano di più”.
Tornando al tema della trasparenza e dell’apertura, Piano mostra le immagini dell’edificio destinato alla Menil Collection a Houston, in cui le opere d’arte sono immerse nella luce naturale grazie ad un sofisticato sistema di elementi di copertura che diffondono la luce all’interno degli ambienti. Questo lavoro segna il momento in cui la luce e la trasparenza diventano fondamentali nel suo futuro lavoro.
Nella baia di Osaka, in Giappone, nei primi anni ‘90 realizza l’aeroporto di Kansai, allora il più grande del mondo. Ora la dimensione è quella del viaggio e l’aeroporto, lungo due chilometri, è come un grande aliante leggerissimo e appoggiato sulla terra. La struttura sorge su un’isola artificiale e al momento del primo sopralluogo non vi era che mare aperto. Piano passò una giornata intera ancorando la barca nel punto in cui sarebbe sorta l’isola ed il suo aeroporto solo per ascoltare il luogo, perché come lui dice “i luoghi parlano, i luoghi hanno storie”, e solo mettendosi pazientemente in relazione con essi ci possono guidare nel progetto.
Il grande ruolo dell’architettura è anche quello di trasformare i paesi e le loro storie, come è successo a Berlino, dove “il luogo della più terribile intolleranza che la storia dell’umanità moderna abbia mai registrato” è stato ricostruito da cinquemila operai di diverse nazionalità. Il cantiere della Postdamer Platz è l’esempio concreto di come l’architettura sia per Piano un mestiere di avventura non solo in senso metaforico ma reale, e narra che per la grandezza dello scavo e la presenza della falda il centro della città fu trasformato per un anno e mezzo in un grande lago, dove palombari venivano calati dalle navi per preparare le fondazioni dei futuri edifici.
L’antico mestiere dell’architetto è sempre indeciso tra il ruolo di tecnico, scienziato, topografo, geografo, storico, antropologo e umanista. In questa veste molteplice fu pensato il centro culturale intitolato alla memoria di Jean Marie Tjibaou in Nuova Caledonia, destinato a rappresentare una delle tre grandi etnie del pacifico, quella dei Kanaki. Gli edifici del centro culturale sono costruiti in legno, un materiale straordinario perché, oltre ad essere naturale e rinnovabile, fa parte della cultura del luogo. Gli stessi Kanaki si riconoscono pienamente nell’intervento e le strane costruzioni, inserite in un vero e proprio paradiso terrestre, respirano e suonano quando spirano i venti dell’oceano.
In questo viaggio in giro per il mondo torniamo in America, a New York. Nel progetto della Morgan Library il nuovo rispetta l’antico, in un’idea tipicamente europea che vede le città svilupparsi per stratificazioni e successive valorizzazioni delle preesistenze.
La stessa città ospita la sede del New York Times; qui Piano si sofferma a descrivere il sistema di ombreggiamento costituito dai 360.000 listelli di ceramica che con la loro disposizione permettono efficacemente di limitare l’esposizione al sole pur mantenendo la percezione verso l’esterno. L’edificio, costato 800 milioni di dollari, è stato progettato subito dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, ma contrariamente a quanto avrebbe suggerito il delicato momento storico, è stato costruito con un forte senso di apertura e trasparenza verso la città, dando un significativo messaggio di tolleranza.
È facile creare forme nuove, ma è difficile “fare forme nuove che abbiano un senso”, così la California Academy of Sciences, un museo di scienze naturali realizzato a San Francisco, è caratterizzato dalla sua copertura verde che plasticamente ingloba le diverse aree tematiche del museo. L’edificio dedica grande attenzione all’ambiente: la copertura è interamente piantumata con essenze locali che non necessitano di irrigazione, l’acciaio utilizzato per la struttura è riciclato al 95% e per l’isolamento è stato utilizzato il cascame delle industrie di blue jeans. Grazie a questi accorgimenti l’edificio consuma pochissimo, ma soprattutto inventa un’estetica, un linguaggio che è servito a costruire in accordo alla natura un edificio per la natura. In questo caso specifico è di nuovo la necessità a dare forma al costruito, e mai come oggi la necessità è dettata dalla presa di coscienza che l’ambiente in cui viviamo è fragile. Il compito dell’architetto è di conciliare questo aspetto pragmatico con la creazione di un linguaggio che sia insieme poetico e rappresentativo: la chiave poetica insieme a quella scientifica fanno della nostra una cultura umanistica.
Questo viaggio attraverso l’architettura termina in Italia, nella sede di Punta Nave del Renzo Piano Building Workshop dove, in un ambiente fatto di vetro che guarda il mare, studenti da tutto il mondo vengono a fare bottega. Qui non si apprendono ulteriori nozioni, per quello ci sono le università. La bottega serve a capire che l’architettura è un mestiere complesso, in cui i problemi e le soluzioni sono ogni volta diversi. Il lavoro di Renzo Piano è molto eterogeneo, ma non per eclettismo. I luoghi, le persone, i climi cambiano ogni volta, e con essi i risultati del percorso creativo, ma alla base resta il bisogno di sfidare i propri limiti e creare un’architettura fatta di tolleranza, trasparenza e leggerezza. Quando i progetti si ripetono uguali a se stessi nasce l’accademia, l’autocelebrazione, e ironizza affermando che tra gli architetti c’è una diffusa “ansia da prestazione” che li spinge a riproporsi in modo sempre più spettacolare.
Quando gli viene chiesto quanta rabbia c’è nel mestiere dell’architetto, risponde che la rabbia, o meglio la ribellione, è il miglior sistema che ha un giovane per ritrovare se stesso, e citando Marguerite Yourcenar afferma che l’avventura del creare è “sapere guardare nel buio, con coraggio, senza scappare”.