Innanzitutto, possiamo esimerci dal porre questa questione? Essa riguarda solo gli insegnanti o riguarda più in generale un certo modo d’intendere la conoscenza e la sua trasmissione? Nell’epoca dell’educazione a distanza e delle intelligenze artificiali, ha ancora significato questa domanda? E se sì, occorre ripensarla oppure siamo certi che le tecniche educative messe a punto dalla pedagogia e della teoria dei sistemi siano uno strumento adeguato alla finalità educativa, e che dunque dipenda solo dalla “buona volontà” dei “formatori” l’esito della loro applicazione?

Noi insegnanti siamo abituati ad affrontare questi problemi solo empiricamente, utilizzando gli strumenti teorici e concettuali delle singole discipline, e non riteniamo di nostra pertinenza la ricerca dei presupposti epistemologici; allora ci chiediamo: la questione educativa è un fatto meramente didattico o è invece un problema di natura filosofica? Insegnare e imparare sono tecniche “oggettive” oppure sono in relazione con le domande filosofiche per eccellenza, “cosa sono?”, “perché ci sono?”?
Già il modo di porre e intendere la domanda sull’educazione e di accogliere la sua necessità sottende un intendimento filosofico di fondo. Proviamo ad esaminarlo.
Si tratta di chiedersi non solo cosa è per noi educare, ma di vedere anche le implicazioni del nostro concetto.

Il soggetto educativo

Chi insegna a chi? Possiamo sviluppare la domanda considerando i suoi elementi costitutivi e assumere la riflessione sul soggetto educativo come preliminare rispetto all’analisi del predicato. Già ponendo la questione in questi termini, cioè con un incipit dal soggetto, si evidenzia un presupposto soggiacente che formuliamo in questo modo: dalla natura dell’intendimento del soggetto deriva necessariamente la natura dell’impostazione educativa ed i suoi modi di attuarsi nei metodi e nei contenuti. Questo presupposto diviene anche argomento dell’analisi.

Innanzitutto prendiamo in esame la concezione più diffusa del soggetto/uomo, la concezione materialista, che identifica l’uomo con la materia. Da ciò deriva che la verità – così come la conoscenza – non abiterà più in interiore homine, perché conoscere il mondo sarà l’equivalente del conoscere se stessi. Ma il fatto che l’uomo, come il mondo, sia indagabile come organismo non costituisce prova sufficiente che l’essenza dell’uomo sia nella materia e quindi nell’oggettualità. Questo modo di concepire la realtà non si cura del fatto che ogni oggetto è visto da me, e che ogni processo conoscitivo è una relazione tra il soggetto conoscente e il suo oggetto. Perciò imparare non è solo acquisizione del mondo fenomenico, ma una modificazione costante del già conosciuto.

“Le cose conosciute sono sostanzialmente in virtù del nostro conoscerle, non sono cose a sé stanti e quindi preesistenti alla cognizione, ma sono di volta in volta l’oggetto creato dalla nostra mente. Perciò tutto quello che conosciamo è in noi come oggetto del nostro conoscere, come qualcosa che noi, in noi stessi, distinguiamo come altro da noi. Tutto è per noi come tutto è da noi”1.

Quando noi ci identifichiamo con la persona che siamo, con una serie di attributi e una data storia, non ci accorgiamo dello slittamento a valle della nostra coscienza: saltiamo di fatto l’atto del nostro accorgerci, che è integrato con ciò di cui ci siamo accorti. In questo modo la nostra attenzione e quindi la concezione di noi stessi si riducono al vissuto, al “davanti” evidente, e omettiamo il nostro atto della coscienza che coglie quel vissuto e che è propriamente soggetto.

“Nessuno se pensa quando dice Io, è quello che pensa di essere, ma si fa quel che pensa di essere con l’atto stesso del pensarsi. L’Io non è appunto una cosa ma un atto2.

L’io non può che affermarsi come soggetto conoscente di questo mondo: se io mi penso come un io empirico, cioè come una personalità coordinante tutte le mie esperienze, anche questo pensiero è davanti al mio accorgermi, che è invece un a priori intenzionato su quel pensiero.

“L’uomo è dunque soggetto e le cose sono l’oggetto suo. L’uomo è autocoscienza che si realizza come coscienza delle cose”.

Ne segue che anche queste stesse riflessioni le facciamo in virtù di quest’analisi che all’interno dell’atto del conoscere distingue l’oggetto dal soggetto.

Questa attività discriminatoria è possibile, secondo Gentile, grazie all’universalità del soggetto o dello “spirito puro”, inteso non come “cosa in sé” kantiana ma come sintesi a priori di una data coscienza di qualche cosa. La mia possibilità di discriminare e di intenzionarmi su qualche cosa avviene grazie alla compresenza di un atto unitario in grado di percepire la distinzione tra soggetto e oggetto.

Consideriamo ora la concezione “spirituale” dell’uomo e vediamo come l’errore del materialismo non sia superato dal fatto di aggiungere – alla considerazione dell’uomo come materia – un’anima o un “io puro” trascendentale.

In proposito, Gentile individuava nelle due filosofie o intuizioni dell’uomo una matrice comune oggettivante: da una parte quella materialista, che non riconosce altra realtà che quella oggettiva e che quindi non può accogliere come conoscenza che il rispecchiamento statico delle cose stesse; dall’altra quella spirituale, che riconosce la realtà dello spirito e vede la realtà come un processo di spiritualizzazione. Questi orientamenti infatti, nonostante l’apparente diversità, nei risultati convergono; anche la filosofia platonica contiene secondo Gentile alcuni caratteri del materialismo. Dice:

“Per Platone la realtà non era materiale, ma ideale, ma come quella materiale era esterna all’anima umana, immobile nella sua eterna verità esemplare (…), così come per ogni buon positivista la realtà vera é la natura sensibile che egli immagina esterna alla psiche a cui si rappresenta. (…) L’autocoscienza (la coscienza che il soggetto ha di sé in quanto soggetto) non può mai cogliere un dato vuoto soggetto, ma deve di necessità attuarsi come autocoscienza di una data coscienza. E’ perciò l’io puro degli idealisti è un’astrazione”3.

Se si assume infatti un astratto principio del conoscere, questo diviene oggetto del mio atto conoscitivo, una rappresentazione di me soggetto.

Scrive ancora Gentile:

“Noi sappiamo che una facoltà spirituale si realizza nell’atto stesso che essa produce producendo se stessa; quando la facoltà si considera come qualcosa di anteriore all’atto in cui si trova realizzata, o si esce dalla realtà o si pone una realtà immaginaria o astratta che è fuori dallo spirito, non è più spirito ma cosa o materia”.

E conclude:

“I sostenitori dell’educazione materiale vedono solo le cose, gli altri solo lo spirito che, distinto dalle cose, é una cosa anch’esso”4.

Educazione come atto

Abbiamo affrontato la problematica del soggetto con la lettura di Gentile. Questo può apparire inattuale in un momento della scuola in cui sembra che tutto il negativo (il “da riformare”) sia da imputare a Gentile, mentre sarebbe intenzione dei riformatori riportare la centralità dell’asse educativo sull’uomo. A noi sembra che queste frequenti critiche, anche se mosse da una volontà positiva di cambiamento, si fondino su un sostanziale fraintendimento dello spirito gentiliano.

I suoi scritti sulla scuola rivelano una lucidissima consapevolezza del pensiero educativo. Purtroppo è successo nel suo, come in altri casi di pensatori geniali, un irrigidimento nell’analisi del suo pensiero, che per lungo tempo è stato applicato in termini normativi e tecnici perdendo di vista – e dunque tradendo – il nucleo fondamentale del suo pensiero pedagogico, che è che l’educazione è un atto.

Cosa significa questo? Che non esiste un’oggettività dell’insegnamento, perché si insegna sempre in prima persona e in una relazione viva in modificazione costante con l’allievo. Non c’è elemento fisso o stabile, ed è questa instabilità di fondo che reca tanta inquietudine agli insegnanti, che ben conoscono l’imprevedibilità di ogni momento nella vita della classe e adottano una serie di misure per far fronte a questo problema che sentono come incombente.

Da questo bisogno spesso inespresso, ma sempre presente, nasce il loro rivolgersi a tecniche per “gestire la classe”, che non è che un tentativo di tenere sotto controllo ciò che per sua natura è fuori controllo, oppure di irrigidire in programmi prestabiliti contenuti che diventano lettera morta, perché inseguono obiettivi (ob-iectum) definiti a priori e funzionali alle autorità che li hanno prefissati, ma spesso non al soggetto dell’apprendimento.

Sono stati fatti molti sforzi per razionalizzare il lavoro scolastico, per renderlo più ordinato e anche verificabile: questo può essere per certi aspetti apprezzabile e utile, ma questi tentativi di assicurare dei “minimi standard d’apprendimento” possono diventare delle gabbie per alunni e insegnanti, che per inseguire il programma perdono di vista il vero soggetto dell’apprendimento, che è l’uomo.

E’ vero che i programmi dovrebbero essere individualizzati, e rappresentare una mediazione fra le priorità stabilite dal Ministero e le necessità individuali dei ragazzi, ma nei fatti ciò che succede è l’accettazione degli “standard” prefissati dall’esterno e poi un loro successivo adattamento all’individuo (si tratta per l’appunto di “individualizzazione”). Gli slogan di questi anni – “l’insegnamento deve essere individualizzato”, “bisogna dare motivazione agli alunni”, ecc. – in realtà tradiscono il fallimento del tecnicismo applicato alla scuola degli ultimi decenni e del suo presupposto, cioè che si educa il soggetto a partire dall’oggetto. Da questo atteggiamento segue infatti la perdita di memoria del significato originario delle parole in-segnare ed e-ducare, che prevedono al loro interno una relazione, un atto dell’uomo per l’uomo a partire dall’uomo.

Il valore educativo

Una domanda che frequentemente ci poniamo come educatori è la domanda sui valori, e cioè: quali valori insegnare a scuola o ai nostri figli? Come insegnarli? La legittimità di questa domanda è resa evidente dalla gravità dei fatti di cronaca, che ogni giorno di più ci dice che questo nostro mondo è in realtà senza valori. Proviamo allora a interrogarci su questo problema rivolgendo la nostra attenzione ad un livello più iniziale, cioè chiedendoci innanzitutto cosa sia valore, e poi se e come “valore” possa riferirsi all’uomo.

Valore, “ciò che vale”: il significato della parola ci rimanda subito ad una transitività; valore è sempre qualcosa per qualcuno, quindi un termine improntato dalla relatività.

Ponendosi il problema dei valori in ambito educativo, già si evidenzia la necessità di una scelta da attuare, di priorità da stabilire. Ci chiediamo: in base a quali criteri potremo attuare la nostra selezione di valori?  Che è come chiedersi: da quale valore stabiliremo i valori? Ci accorgiamo che o la domanda é mal posta o non ha soluzione. Infatti, sorge il problema: può qualcosa di relativo e di estrinseco come un valore essere riferito all’uomo, o l’uomo è il Valore (e allora l’uso di questo termine sarebbe improprio)?

Troviamo conferma della necessità di questa domanda nel problema posto da Heidegger nella Lettera sull’Umanismo. Si chiede: “Si considera l’uomo a livello adeguato proclamando semplicemente i valori dell’uomo?”, che è come chiedersi: i valori sono aggiuntivi rispetto all’uomo? O l’uomo è il Valore? Heidegger sostiene che le concezioni delle tradizioni umanistiche dell’essenza dell’uomo non rendono conto dell’autentica dignità dell’uomo stesso, perché non considerano ad un livello adeguato la humanitas dell’uomo. L’uomo è in sé “valore intrinseco” e gratuito, e la consapevolezza di sé come uomo non inerisce solo le modalità del  suo pensare e del suo agire, ma si esperisce in prima istanza come soggetto di quel pensare e di quell’agire.

“Il pensiero che si pronuncia contro i valori non sostiene che tutto ciò che viene dichiarato come valore – la cultura, l’arte, le scienze, la dignità umana, il mondo, dio – siano senza valore. Si tratta piuttosto di capire che proprio quando si caratterizza qualcosa come valore, ciò che è così valutato viene ammesso come oggetto della stima umana. Ma ciò che qualcosa è nel suo essere non si esaurisce nella sua oggettività”5.

Pensare adeguatamente l’uomo non significa chiedersi quali sono i valori adeguati per valorizzare l’uomo, problema che sorge di necessità nel momento in cui l’uomo non si esperisce più come soggetto, è  quando il soggetto è in crisi nella sua consapevolezza di sé che la scuola, cioè il luogo per eccellenza di crescita del soggetto, è pure in crisi.

Per questo l’insistenza sulla personalizzazione di qualsiasi processo educativo dei vari intenti riformatori viene quasi sempre disattesa da una logica pragmatico-funzionalista che pone come finalità educativa “l’inserimento nel mondo del lavoro”. Ma l’individualismo tanto decantato oggi non può prendersi cura dell’uomo, perché non pensa l’educazione a partire dall’uomo.  Non è a caso che i testi ministeriali e scolastici si riferiscano all’uomo come “risorsa umana” e che il linguaggio scolastico abbia assunto un carattere aziendale: gli insegnanti sono divenuti operatori, i presidi dirigenti, la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento misurate in base a parametri “oggettivi” che dovrebbero  garantire la qualità del “prodotto”, cioè dell’uomo; qualità che naturalmente deve essere “visibile”, altrimenti il “servizio” scolastico non sarà più ritenuto “efficace” e le “competenze” acquisite non “spendibili”…

Wittgenstein sosteneva che “il limite del mio linguaggio è il limite del mio mondo”.  Nel nostro mondo sono cadute in disuso parole come “disciplina”, “maturità”, “imparare”, “docenti”, “educazione”, ed infine “scuola”, che per l’appunto scuola più non è, bensì “agenzia formativa”.

NOTE

1 G. Gentile, Sommario di pedagogia generale, Laterza, Bari 1913, p.15.
2 Ibidem, p. 18.
3 Ibidem, p.16.
4 Ibidem, pp. 45 e 226.
5 M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, Adelphi, Milano 1995, p. 82.