Lo sconfinamento nel “ritrovarsi-ad-essere” dello stesso creato
Il passo mirabile che non cessa di ammaliarmi.
KANT, Critica della Ragion Pura:
“La necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile quale ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero abisso della ragione umana.”
COME lo comprendo io:
— Abbiamo assolutamente bisogno di pervenire a ciò che, necessariamente e incondizionatamente, giustifica e sostiene l’esistenza; ciò di cui non è possibile pensare che, a sua volta, possa essere senza sostegno e giustificazione. Ma questo punto si rivela essere il vero abisso della ragione umana.
Occorre ricordare che Kant prende le mosse dalla domanda: “Cosa posso sapere?” —
KANT:
“L’eternità stessa, con tutta la sublimità terribile con cui possa pure essere dipinta da uno Haller (Alberto von Haller, 1708-1777, autore della Origine del male, 1734), è lungi dal produrre sull’animo quest’impressione vertiginosa; infatti l’eternità si limita a misurare la DURATA delle cose, ma non le sostiene.”
COME lo comprendo io:
— Qui, ad esempio, è ridimensionato Emanuele Severino il quale non si pone la questione del sostegno, fondamento, ragione, dei suoi eterni.
L’eternità non giustifica (e neppure dona senso a) quel che è, ma solo lo misura.
KANT:
“Non si può evitare il pensiero, ma neanche sostenerlo, che un ente, che noi ci rappresentiamo come il sommo di tutti i possibili enti, dica in certo qual modo a se stesso:
Io sono dall’eternità per l’eternità; fuori di me non è nulla se non ciò che è qualcosa meramente per mia volontà; ma donde sono io allora?”
COME lo comprendo io:
— Questo è il vero momento di illuminazione.
Sebbene non esplicitato, il nulla fa la sua vertiginosa irruzione.
Il sommo ente, pensato come creatore di ogni (altra) cosa, non può dal punto di vista della logica creazionale, esser creato da altro proprio perché è lui stesso il sommo ente, il creatore.
Il significato del “creare” trova il suo limite e si sconfina nel “ritrovarsi-ad-essere” dello stesso creatore, significato essenzialmente diverso dal semplice “essere”, esposto a molta più ambiguità.
Il sommo ente, creatore di ogni altro ente, “si-ritrova-ad-essere” grazie allo svelamento della gratuità, infondatezza e ingiustificabilità, del suo esserci.
Quel “Donde sono io allora?!” è uno stupore – un satori – non una domanda.
Dobbiamo immaginare il cuore di Kant trafitto da una improvvisa folgorazione intuitiva, la mente paralizzata nell’incapacitazione e ogni parola mozzata in gola. —
KANT:
“Qui tutto si sprofonda sotto di noi, e la massima come la minima perfezione pende nel vuoto senza sostegno innanzi alla ragione speculativa alla quale non costa nulla di far disparire l’una come l’altra senza il più piccolo impedimento.”.
COME lo comprendo io:
— Guardarsi alle spalle e non trovare nulla che giustifichi e fondi la propria esistenza significa “ritrovarsi-ad-essere”.
Heidegger conierà l’espressione “esser gettati” nell’essere – però gettati da nessun altro.
Il miracolo di nessun Dio.
E sta accadendo proprio ora.
——
L’abissale iperbole di Kant minaccia anche ogni valore.
La conciliazione tra l’assurdo del “ritrovarsi ad esistere”, ossia dell'”essere gettati nell’esistenza” senza possibile perché, e i valori della spiritualità e della religiosità, è un ulteriore abisso della ragione umana.
Sta di fatto che il mero ritrovarsi ad esserci non è cieco e ottuso, ma, tanto per iniziare, vuole la verità su se stesso – come fa ora.
E il volere la verità rappresenta il suo bene – dunque è etico.
In secondo luogo, la massimamente lucida visione del ritrovarsi ad esserci rilascia una misteriosa forza in virtù della quale cessa la paura e matura una profonda fiducia in una “sapienza”.
Abbandono.
Può darsi che si soffra ancora per la gettatezza, ma non si è più pavidi in ciò.
Infine, tale lucida visione è intrisa di una tenera compassione per chi non vede e ancora vive nella insicurezza dell’oscurità.
Ciò è vero.
La compassione non è certo prerogativa del Buddhismo, ma la lucida consapevolezza della sua infondata sorgente sì.
Infondata e proprio perciò divina.
Ma di una divinità senza dèi.