Qual è il rapporto tra l’esperienza del vuoto d’esistenza intrinseca delle cose (shunyata) e quella della Differenza ontologica heideggeriana?
La vacuità ha diverse sfaccettature. La scuola nagarjuniana di Nalanda, oggi rappresentata dal lignaggio tibetano Gelugpa, quello del Dalai Lama, intende vacuità quale inesistenza di una determinazione, essenza, intrinseca: nessuna cosa ha una sua determinazione, essenza, autonoma (per dirla in Greco: non esistono essenze, idee pure platoniche), ma solo in dipendenza da altri fattori.
Ad esempio: quanti anni ha tuo padre? Uno risponderebbe: 50, 60, e così via. No: tuo padre, in quanto padre, ha la tua età perché prima che nascessi tu non era padre, come tu non eri figlio. Tuo padre, nel suo esser padre, è in co-produzione con te, figlio. Non c’è padre senza figlio, non c’è figlio senza padre.
Praticando radicalmente tale visione su ogni aspetto dell’esperienza, esterna e interiore (i cinque skandha), si può esperire un’improvvisa intuizione: dietro alla realtà apparente e costruita da una mente che non cessa di interpretare alla maniera della coproduzione – strappato il velo illusorio – si coglie la base indeterminabile e misteriosa dell’esistente. Il puro non-nulla, l’altro-da-nulla.
Ma la scuola di Nalanda non ha sviluppato il pensiero a riguardo, contrariamente a Heidegger, che proprio da quella base inizia (in Che cos’è metafisica?).
La scuola nagarjuniana – ripresa in Tibet da Je Tsongkhapa (1357 – 1419) – punta direttamente alla visione della vacuità in quanto inesistenza di determinazioni intrinseche. Se non vi sono essenze intrinseche – nessuna! – allora non vi è nulla a cui potersi attaccare. Una volta fattasi una ragione di questo, si sarebbe liberi dalla sofferenza che, appunto, nasce con l’attaccamento.
Anche l’esperienza della Angst (“angoscia” non psicologica) heideggeriana porta al punto in cui “l’ente nella sua interezza ti sfugge di mano” – stesso stadio della vacuità nagarjuniana, apertosi però per altra via.
Ma la vacuità come vissuta nella Angst porta – dice Heidegger, e io ne convengo – alla grande, fondamentale, domanda stupefatta: perché, a prescindere, vi è essente e non piuttosto niente?
Sull’altro fronte, alla consapevolezza filosofica circa il misterioso esserci in quanto altro-da-nulla, così nitidamente espresso da Heidegger, il Buddhismo Madhyamaka non giunge. Sono però convinto che, esperienzialmente, lungo la via nagarjuniana, si liberi proprio lo stesso sapore (tonalità emotiva, Stimmung) che, in altre circostanze culturali, svela il mistero d’essere – e non nulla.
Basterebbe solo un passettino…
Ho provato a confrontarmi su ciò con estrema precisione con lama tibetani altamente qualificati, ma no, l’essere, quell’essere che intendiamo come Differenza rispetto a nulla, non lo colgono.
In ciò la grandezza di Heidegger.