Lo smarrimento esistenziale nei giovani e il “miracolo” dello zen
In Occidente dilaga incontrollabile una malattia che sembra mietere vittime più di ogni altra: il vuoto di senso che prende spesso i sintomi della depressione. Questa viene diagnosticata piuttosto genericamente e trattata con terapie psicologiche o chimiche che raramente sortiscono un effetto duraturo. Questa sofferenza assume caratteristiche di epidemia e credo che coloro che dovrebbero ricercarne le cause e le cure spesso si sentano impotenti e ripieghino verso trattamenti sintomatici.
La depressione è ovviamente termine che include una grande varietà di sintomi, tra cui i più frequenti sono poca voglia di vivere, momenti di panico, insicurezza, smarrimento, mancanza di energie, demotivazione. Ovviamente occorre fare le opportune distinzioni, poiché non tutte le depressioni hanno la stessa causa e talvolta le terapie psicologiche e farmacologiche sono salvifiche, ma è altrettanto importante riconoscere quelle depressioni che non possono essere curate medicalmente o psicologicamente perché derivanti da uno smarrimento esistenziale.
Per la mia esperienza coi giovani che vivono questo triste stato, la causa più profonda di esso che riesca loro di individuare è la mancanza di un senso dell’esistenza.
Essi si chiedono per quale motivo debbano partecipare ad un’esistenza di cui non capiscono nulla; semplicemente non capiscono perché si trovino ad esistere, perché l’esistenza sia proprio così, né a cosa essa sia finalizzata:
“Chi sono, perché esisto, perché dovrei impegnarmi in questa vita, quali sono il senso e l’utilità del vivere? – “
Ma tutto questo spesso non riescono a neppure a dirselo, lo sentono nel profondo delle viscere con effetti cupi e con grande dolore dell’anima. Ho incontrato giovani che avendo già cercato di togliersi la vita, mi dicevano che se non avessero trovato nuove e convincenti ragioni per non farlo, ci avrebbero riprovato.
Con loro grande sorpresa li guardavo intenso e sereno, dicendo di essere lieto per loro, poiché nel fondo del loro dolore era già presente la Cura.
Io so bene cosa significhi vivere senza riuscire a trovare un senso e so che esiste la soluzione a questo tormento attraverso una “medicina per l’anima” a cui le grandi tradizioni orientali danno contributi fondamentali.
La filosofia occidentale sa individuare ed analizzare i problemi con grande lucidità, ma non sa poi curarne le conseguenze, stenta a proporre soluzioni. Sembra che essa diffidi di ogni soluzione, poiché “sarebbe comunque relativa e temporanea”, destinata ad essere superata e contraddetta da teorie successive e quindi sostanzialmente illusoria e falsa.
Il buddismo non si basa su contenuti, ma su strutture e metodi per impostare la ricerca a partire dal proprio sentimento, nella fattispecie doloroso.
La Cura parte dal contatto col Mistero che siamo; mistero che, non affrontato correttamente, può prendere la forma di un incubo, mentre
l’esperienza mi dice che la Cura è della stessa sostanza della malattia.
Ciò che viviamo come terribile non-senso può trasformarsi, come lo zen insegna, in un meraviglioso Non-Senso, in un Oltresenso.
Buddha parte dall’esperienza di dukkha (sofferenza), e ogni epoca, ogni cultura ha i propri dolori. Attualmente il grande dolore deriva dall’aver perso le radici, la tranquillità spirituale che derivava dalla continuità con una tradizione cristiana che pare oramai incapace di affrontare e curare il più grande dei dolori: la perdita di senso, il vuoto di senso. Papa Giovanni Paolo II nella recente enciclica Fides et ratio esorta l’occidentale a riprendere i contatti con la filosofia, ma pare dimenticare la lezione di Heidegger ne l’Introduzione alla metafisica, quella della drammatica entratura del nulla nella filosofia: perché in generale si dà l’essente, perché non nulla? Entratura che, dagli anni ’20, sconvolse le menti più sensibili ed intelligenti. Infatti Heidegger palesava l’impossibilità di un Dio-fondamento e di una teologia in senso classico. Se Dio c’è, ricade nella domanda fondamentale; perciò quale valore, quale sacro, quale teologia dopo la lezione dell’esistenzialismo? che è stato un momento filosofico cruciale, ma che, per i turbamenti che risveglia, resta troppo poco compreso e apprezzato. Forse perché, come ho già detto sopra, la filosofia occidentale sa suscitare problemi con grande lucidità, ma non sa curare il dolore della consapevolezza conseguente.
Il buddismo non ha dogmi, ma basandosi su una possente struttura che gli permette di adattarsi con straordinaria efficacia ai problemi esistenziali delle più diverse culture può curare lo smarrimento esistenziale e la depressione dell’occidentale. Può evitarci di morire di vuoto.
– Maestro, qual è il senso ultimo del buddismo?
– Per due soldi ho comprato questo falcetto.
– Non capisco…
– Ma io lo uso pieno di gioia!da D. T. Suzuki, Saggi sul buddhismo zen
Quando diventa chiaro il contesto di meraviglioso prodigio cui apre lo zen, si apre il significato della seguente storia sul Maestro Bankei:
– Maestro Bankei, il mio maestro sa compiere straordinari prodigi: io mi metto su una riva del fiume e reggo un foglio di carta, lui sull’altra traccia segni nell’aria e sul mio foglio appaiono scritte! Quali sono i miracoli che sai fare tu?
– I miei miracoli sono più semplici:
quando ho fame mangio e quando ho sonno dormo.
Questa è la semplice verità dello zen. La coscienza che la conosce non teme depressioni. Ai giovani depressi che vi pervengono ritorna il gusto di vivere.