Volume 1 della Collana “Ai principi dell’esperienza” centro Studi ASIA 2003
1. Il primo fatto: il fatto semplice
La natura di quel che si scopre attraverso la meditazione non è tale da permetterne una comprensione esauriente tramite il solo approccio oggettivo e razionale.
Anche quando la “cosa” viene indicata con estrema precisione, posta davanti agli occhi in modo tale che non vi sia che quella, scattano dei “tic filosofici” legati all’impostazione del processo di conoscenza tipico della mente occidentale. Questi condizionano il nostro prendere atto ed il nostro fare esperienza rendendo molto arduo cogliere a fondo ciò che viene indicato.
La cosa che vorrei proporvi e, se fosse mai possibile, trasmettervi, è estremamente semplice, è alla base di ogni altra cosa. Ma “semplice” non significa “facile”, essa è anzi difficile da essere intesa, assimilata, compresa.
La prima volta che una persona intuisce ciò di cui sto parlando, di cui le sto parlando, si illumina.
“Illuminazione” è una parola impegnativa in Occidente. Di solito la si associa a luoghi lontani, Giappone, India, Corea, Nepal, Tibet, ad altre genti, quasi a un mito… Pronunciata in Occidente suscita diffidenza.
In realtà l’illuminazione è un evento della coscienza; se voi in questo momento potete dire di essere coscienti, avete anche tutti i requisiti per illuminarvi. Ovviamente, a costituire una “illuminazione” non basta un barlume di esperienza “metafisica”.
L’illuminazione è un fatto, una profonda ed improvvisa intuizione che marchia a fuoco la nostra anima. Però, come un bicchier d’acqua di per sé non ha valore, ma se avete sete può salvarvi addirittura la vita, così l’intuizione relativa alla verità può risultare in sé non determinante, ma può salvarvi se la state cercando, se vi manca più di ogni altra cosa. Indurre un’esperienza interiore non è in fin dei conti difficile, bisogna però vedere cosa ve ne fate in seguito, se risponde a una vostra domanda, a un vostro problema.
Le nozioni-guida sono estremamente semplici, come tutto nella meditazione, e il problema serio è proprio quest’estrema semplicità a cui non siamo abituati la quale ha però ha una portata abissale.
Di quali semplicità parlo?
Ciascuno di voi può appoggiare le dita sul foglio, sfregare un po’ e… sentire.
La prima semplicità è che facciamo esperienza, sentiamo.
“È scontato”, direte voi: ecco, non siete abbastanza semplici! Il sentire è un fatto e non è scontato per niente.
Provate per un istante a confrontare il sentire con l’assenza di sentire: niente sentire. Cos’è più semplice?
“Niente sentire” è più semplice. E invece c’è “sentire”, noi sentiamo. Forse a questo punto vi sta nascendo un barlume di perplessità e mi concedo di assumere che qualcuno di voi stia constatando di non aver mai pensato che l’assenza di sentire potesse essere più semplice del sentire. Ma invece che l’assenza del sentire c’è sentire e, a questo punto, ci sono questo mio corpo e questa mia mente che cominciano ad entrare in perplessità. È vero, il sentire è più complesso, è una gratuità, è un ingombro, è in più rispetto a niente, a niente sentire e a niente di niente.
Ma allora anche queste mie gambe, queste mie parole, questi miei pensieri, il mio starmi accorgendo di questo, sono in più rispetto al niente di tutto questo.
È vero: niente è più semplice di qualche cosa. Questa è la semplicità originaria: un contrasto, una differenza netta tra niente e qualcosa.
Questo “qualcosa” riempitelo di quel che volete, dai vostri piedi ai vostri pensieri, all’universo intero: è comunque qualcosa, è diverso da niente.
Sicuramente sta succedendo qualcosa, invece che no.
Probabilmente fino ad oggi l’abbiamo dato per scontato, tutti lo danno per scontato. Se fermaste qualcuno per strada e gli chiedeste: “Scusi signore, lei esiste?”, quasi certamente penserà ad una presa in giro, ad uno scherzo, perché esistere è considerato un fatto ovvio. Ma forse in seguito, nella tranquillità di casa sua, realizzerà che non è una domanda banale; non è banale per niente.
2. Essere – nulla. Il divario incolmabile e l’illuminazione
Perché esistere si mostri come un fatto non banale, dobbiamo provare a porci nel divario incolmabile.
Divario incolmabile tra niente e qualcosa. Qualsiasi cosa sia, qualcosa è il contrario di niente. Niente – qualcosa: in mezzo un divario incolmabile.
Cosa vuol dire “divario incolmabile”?
Vuol dire che in mezzo non ci possono essere un’origine, una ragione, un significato, un senso, una destinazione, un fine di quel che esiste.
Innanzitutto non può esserci una causa. Perché? Una causa, essendo, sarebbe già sbilanciata dalla parte del qualche cosa: una qualsiasi causa – il motore immobile, Dio, il vuoto quantistico – sarebbe invece che no, riproponendo l’assenza di una causa per l’essere della “Causa”…
Tra il niente di tutto e il qualche cosa il divario è incolmabile.
Questo spalanca l’abisso. Kant, nella Critica della ragion pura, ha scritto una mezza pagina vertiginosa su questo:
“La necessità incondizionata, che noi richiediamo così urgentemente come sostegno ultimo di tutte le cose, è il vero abisso della ragione umana. Persino l’eternità – per quanto terribilmente sublime possa risultare, nella descrizione di Haller – è ben lungi dal recare all’animo una simile impressione di vertigine. L’eternità, infatti, misura soltanto la durata delle cose, ma non le sostiene. Non ci si può trattenere dal pensare (ma tale pensiero è altresì intollerabile) che un ente, da noi rappresentato come il supremo fra tutti gli enti possibili, debba dire a se stesso: io esisto dell’eternità e per l’eternità, al di fuori di me non esiste nulla, se non ciò che è qualcosa solo mediante la mia volontà, ma donde sono sorto io allora? A questo punto tutto sprofonda sotto di noi, e tanto la massima perfezione quanto la minima ondeggiano senza appoggio, semplicemente di fronte alla ragione speculativa, alla quale non costa nulla far scomparire senza il minimo ostacolo tanto l’una, quanto l’altra.” 1
Ma, dopo aver scritto questa mezza pagina, egli stesso si è ritratto terrorizzato, come presagendo che se avesse osato inoltrarsi in quell’orrido ne sarebbe stato inghiottito. Meglio restare nei confini della ragione! E infatti non ne mai ha più accennato.
Quando la mente realizza il divario incolmabile, e perciò l’infondatezza dell’essente, quando veniamo colpiti, percossi dall’irruzione della consapevolezza di questo, restiamo senza fiato e la ragione vacilla. Il “colpo” è di quelli da cui non ci si riprende. È definitivo, ultimo.
Questa è la presa di coscienza preliminare, il tessuto base dell’illuminazione, fonte del problema e premessa della soluzione.
Quel che risulta poco comprensibile all’occidentale è che non basta l’informazione di questo per prenderne coscienza: se fosse così non si parlerebbe neanche di illuminazione, sarebbe sufficiente leggere un libro, o dialogare, e tutti, prendendo atto dell’ “informazione” che l’universo esiste, che noi esistiamo, che tutto questo si sta dando invece che no, si illuminerebbero. Conosco diversi intellettuali in grado di scrivere saggi su questo fatto, sulla Grundfrage heideggeriana, ma che non hanno mai vissuto la profonda intuizione di essa o, come viene chiamato nello zen, il satori.
Averne nozione non basta. Non intendo con questo sostenere che l’illuminazione a riguardo l’abbiano avuta solo gli orientali – anzi talvolta gli occidentali sono stati anche più precisi, più incisivi nella descrizione e nella penetrazione di questo fatto (forse la nostra struttura linguistica è capace di renderlo anche meglio di quanto non possano fare lingue come il sanscrito, il cinese o il tibetano) – ma gli orientali tradizionalmente sanno che c’è differenza tra informazione e illuminazione, e che si può sapere in modi diversi. Noi possiamo attingere e manipolare informazioni, alla maniera della nostra “cultura trasportabile” che viaggia per libri e Internet, e organizzare tali informazioni al punto da scrivere libri e tenere conferenze su questo, ma non avere per nulla realizzato ciò a cui tali informazioni si riferiscono.
O potremmo, al contrario, essere incapaci di dire anche solo poche parole su questo fatto, ma averlo vissuto come una deflagrazione profonda nella nostra anima, come il centro di tutta la nostra vita.
L’illuminazione è la presa di coscienza profonda ed irreversibile, in un momento preciso e databile, eccezionalmente intenso, che stiamo esistendo invece che no, invece che niente, che quell’invece connota un divario incolmabile e che il mistero è irriducibile, intrinseco e irrisolvibile.
Noi siamo mistero, e lo saremo per sempre: siamo fatti di prodigio, siamo fatti di miracolo, siamo fatti di qualcosa che non può star succedendo. Voi direte: “Ma no, sta succedendo!”. Appunto, questo è il miracolo. Perché non può star succedendo. Non secondo i criteri di causa, di scaturigine, di origine, di senso, di ragione.
“Se non c’è ragion sufficiente non può star succedendo”, avrebbe detto Leibniz, ma per l’esistenza la ragion sufficiente non ci può essere!
Di qualcosa che accade senza nessi, senza legami di derivazione, di destinazione, diciamo che è “singolare”. Potremmo dire che è prodigioso, che è miracoloso, potremmo dire tante cose, ma ammettiamo almeno che è singolare.
Quel che si sta dando e che cade nella nostra esperienza – il darsi stesso della nostra “esperienza” – è singolare, vale a dire è “senza nessi”, e con ciò intendo che non ha radici, non affonda in un terreno che possa dare ragione della crescita e della vita della pianta perché, a sua volta, il terreno non poggia su niente.
Ma non sto dicendo che il terreno non poggia su niente in quanto vaga nello spazio vuoto dell’universo: lo spazio stesso non poggia su niente, poiché lo spazio stesso non è un niente, anzi – la fisica ce lo spiega bene – è proprio il contrario di niente, è la potenzialità del tutto. Lo spazio è, invece che niente.
E di nuovo questo “invece”, questo divario, è incolmabile. Tutto quanto accade è singolare; è – scusate la parola che può richiamare immagini sgradevoli – un’escrescenza. Cresce, escresce, senza possibile ragione. È una presenza misteriosa, irriducibilmente, irrimediabilmente, intrinsecamente misteriosa.
E noi siamo questo. Quel che sentite adesso, le vostre gambe, le vostre braccia, la vostra pelle, questo spazio mentale che vi abita, tutto questo è irrimediabile, irriducibile, irrisolvibile mistero. Sta succedendo adesso e questo è il fatto.
3. La sapienza ordinatrice e la pratica per l’illuminazione
Questo mistero è abitato da una sapienza, noi siamo abitati da una sapienza.
A questo punto potreste ribattere che sto facendo rientrare dalla finestra il Dio che, con l’infondatezza dell’essere, ho buttato fuori dalla porta!
Infatti, se avete ben compreso il divario incolmabile, avrete anche capito che in questa situazione non c’è posto per il Dio della nostra tradizione. Non dico che Dio non abbia alcun posto, ma non come Creatore, ragione, origine di tutto quel che c’è, perché Dio stesso sarebbe diverso da niente, ed essendo diverso da niente ancora patirebbe di questo divario incolmabile.
Quello di causa fondante è solo un modo di intendere Dio. Gli uomini lo hanno inteso anche in un’altra maniera, ad esempio come sapienza ordinatrice, come ciò che è al servizio di questa realtà per portare alla consapevolezza di cui ho appena detto.
In questo senso Dio è la sapienza, è ciò che in voi già sa tutto ciò che ho appena detto.
Gli orientali dicono che questa è la Natura di Risveglio o Natura di Buddha che è in noi. Come la si coglie? Come ci si risveglia?
Semplicissimo, e qui comincia la pratica.
I buddhisti parlano di “upaya”, cioè di “mezzo idoneo” per trasmettere, per suscitare consapevolezza, illuminazione. I maestri, nel corso dei secoli, dei millenni, hanno impiegato diverse maniere per raggiungere questo obiettivo. Alcune difficilissime, addirittura eroiche, altre più semplici; alcune fanno perno sul nucleo della coscienza, altre ricorrono a strani giochi con le energie vitali, altre, come per esempio nel sistema dei koan zen, puntano l’attenzione su un indovinello irrazionale come, ad esempio, “qual è il suono di una sola mano?” Se provaste a dare risposte razionali, non sareste nella via giusta e in Giappone prendereste perfino delle bastonate dai maestri.
Sebbene la ragione non sia il modo adeguato è possibile pervenire ad una profonda soluzione a questo.
Se realizzate il suono di una mano, se lo intuite profondamente, allora vi illuminate e vi viene data la conferma, Inka, il riconoscimento che avete raggiunto l’illuminazione.
La soluzione è molto prossima a quella semplicità originaria di cui dicevo prima. Però bisogna dire che non tutti i mezzi sono adatti a tutte le persone, ed è per questo che ne sono stati elaborati tanti. Io sostengo – con gli orientali, e tra di loro i buddhisti in particolare hanno una fede profonda nella nostra “natura di illuminazione” – che la coscienza, il fatto d’essere senzienti, comporti anche di potersi prima o poi illuminare. Non tutti gli esseri senzienti, però, maturano contemporaneamente il bisogno impellente di illuminazione e solamente prendere coscienza di questa possibilità non equivale ad una vitale domanda a riguardo.
Lampi di illuminazione possono verificarsi anche accidentalmente. Molti bambini vivono eventi di questa natura, che però, non corrispondendo ad un bisogno lucido, consapevole, ad una specifica domanda di verità, restano solo episodi che non si sanno integrare nella propria vita.
Se invece in noi matura, con l’età, una domanda di senso sul nostro esser qui, allora un evento dello stesso genere non va perso come un lampo fugace, ma diventa un evento di risveglio, o quantomeno la prima scintilla di esso, la prima fiamma che può svilupparsi fino all’illuminazione completa, vale a dire alla soluzione del problema esistenziale.
4. Il problema da risolvere
Soluzione al problema esistenziale non significa che troviamo la risposta al perché dell’essere: la risposta non c’è, il divario è e resta incolmabile. Ciò che troviamo è la soluzione al problema della nostra relazione col nostro esistere.
Il vero problema è infatti la relazione con la nostra esistenza.
Io esisto e non c’è ragione, non c’è destinazione, fine ultimo. Questo è un problema perché ci ritroviamo gettati nel non senso totale e ne siamo turbati. Non si può negare, il solo esistere non ci basta, lo scorrere del tempo in sé non ha senso. Come disse Pascal:
“Nulla è tanto insopportabile per l’uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione”.2
Molti possono pensare che il solo esistere non sia un problema. Io dico semplicemente che non ne hanno ancora la consapevolezza, ma la vita prima o poi getta in situazioni di prova. Innanzitutto non nasciamo col libretto di “istruzioni per il senso della vita” allegato, poi essa ci rapina di affetti, ci toglie le sicurezze, ci getta sovente nello sconcerto e ci lascia in una solitudine cosmica, là dove nessuno risponde. Camus scrisse “io grido la mia domanda all’universo, ma esso tace”.
Prima o poi una persona arriva a chiedersi: “Ma cosa sto qui a fare? Che senso ha tutto questo?”.
È affiorato il problema, che in ultima analisi vuol dire: “Perché esisto (soffrendo) invece che non esistere?”.
Allora si cercano svariate soluzioni: molti pensano di annullarsi, di uccidersi, alcuni dicono che meglio sarebbe stato non essere mai nati, altri si rifugiano nelle sensazioni. Quest’ultimo è il credo contemporaneo, per cui si identifica il senso dell’esistenza con le sensazioni gratificanti che l’esistenza ci può dare. Così taluni ripiegano sull’alcool, sulle droghe, sul lavoro esasperato e su tutto ciò che può dare una sensazione intensa, che faccia da sostitutivo al vero problema, cioè all’angoscia per il fatto di essere qui senza un possibile senso.
Il problema c’è.
Il buddhismo parte dalla consapevolezza che c’è un problema già nel fatto stesso della coscienza di essere vivi, di esistere. È a questo che si cerca una soluzione, e non una risposta. Quest’ultima infatti non ci può essere, noi non sapremo mai perché esistiamo, non lo sa nessuno né lo potrà sapere.
Esiste la soluzione? Questa è la domanda del Buddha, il quale, per fortuna l’ha trovata.
Come vi si perviene? L’illuminazione è il momento principe, il più importante.
Ma bisogna partire dalla piena consapevolezza – che vuol dire una lucidità senza schermi, senza obnubilamenti – circa il fatto che ci siamo, che esistiamo, che sta succedendo qualcosa e questo qualcosa è intriso di sofferenza, di smarrimento, di mancanza di direzione.
C’è anche chi ha delle forti convinzioni e pensa che la vita abbia un senso, ma la differenza tra una convinzione e una certezza è grande. La convinzione ha necessità di essere nutrita, la certezza parla da sola.
L’illuminazione è una certezza a cui poter ritornare sempre, è incrollabile, non ha bisogno di essere messa alla prova; ma se anche lo si fa la sua natura è tale da rafforzarsi grazie alla critica a cui la si sottopone. Il dubbio la conferma.
Ho detto prima che portiamo in noi “la voce della verità”. Quel che sta accadendo, ma ancor più il fatto che sta accadendo, è misterioso, eppure in questo risiede e si dispiega una sapienza. L’unica cosa che questa sapienza non sa è perché c’è, ma per il resto, di istante in istante, essa si prende cura di noi e ci porta verso la piena consapevolezza del problema e ai presupposti per la soluzione.
Quindi il primo fatto, indubitabile, è che qualcosa sta accadendo. Voi direte che è ovvio, io dico che è abissale, vertiginoso, da brivido, è il miracolo: qualcosa sta succedendo invece che no, e il divario è incolmabile. Se voi rifletterete su cosa significhi “divario incolmabile”, nel momento in cui lo realizzerete, vi si piegheranno le gambe, avrete i brividi, perché divario incolmabile significa guardare nell’abisso – e voi state guardando nell’abisso – e non vedere su cosa ci si sta poggiando, perché il fondamento non c’è. Strabuzzerete gli occhi e vi chiederete se state sognando, ma non vi potete svegliare, siete già svegli: sta proprio succedendo, esistete!
Dal divario incolmabile originano la meraviglia, lo stupore e, di più, l’incapacitazione, poiché la ragione non sa dove pescare: tutto questo sta succedendo senza una ragione possibile. Ogni cellula del corpo, ogni battito, ogni pulsazione mentale è sgomenta di fronte a questa impossibilità: non può star succedendo, ma sta succedendo, sto succedendo. Cos’è? Non lo sa nessuno.
5. Il secondo fatto: l’esserci della non-cosa
Noi siamo condizionati da tic culturali. Il primo ci costringe a concepire le cose solamente in quanto oggetti. Un oggetto è tale perché cade sotto i miei sensi, in questo senso anche un pensiero è un oggetto mentale di cui facciamo esperienza. È quindi molto difficile insegnare a un occidentale che esiste una non-cosa, un non-oggetto.
Qual è questa non-cosa? È la coscienza.
Il fatto che la coscienza sia una non-cosa, un non-oggetto, non significa, però, che essa sia niente.
Nella nostra esperienza possiamo individuare tre “luoghi”:
-
le cose, gli oggetti;
-
la non-cosa, la coscienza;
-
il niente.
Il niente non c’è per definizione, ma è un imprescindibile termine di contrasto per tutto ciò che è diverso da niente. Per prendere coscienza di esistere abbiamo bisogno di porre l’esistenza in contrasto con ciò che non c’è, il niente. È proprio perché il niente non c’è che noi ci siamo (invece che nulla).
Nell’ambito di ciò che esiste da un lato poniamo gli oggetti, le cose, e dall’altro la non-cosa, ciò che è cosciente delle cose, che non è oggettivabile, afferrabile perché è questa che afferra le cose. Nessuno può vedere i propri occhi per il semplice motivo che sono gli occhi che vedono. Il transitivo ed il riflessivo hanno grammaticalmente sensi differenti e questa diversità si coglie nella transitività delle funzioni percettiva e rappresentazionale della coscienza.
Qui l’occidentale, se non ha un addestramento particolare, un’educazione a proposito, comincia a perdersi. Cercherà di cogliere la propria coscienza come una luce strana che lo abita, una qualche strana energia, ma se coglie una luce non è quella la coscienza, perché quella luce è colta dalla coscienza.
La coscienza non è una cosa, ma neppure è niente, dal momento che siete coscienti, la vostra coscienza è in atto e sta accadendo adesso.
A questo livello potete avere ancora dei dubbi, ma è possibile, anzi necessario, essere guidati esperienzialmente là dove i dubbi si dissiperanno perché vi calerete nel fatto. La coscienza è un fatto, e in meditazione ci si può calare e riassorbire in esso. E là che bisogna dubitarne per vedere come reagisce.
La coscienza è “sapienza”, è capace di “rendersi conto”. Come è possibile che ci sia qualcosa come il rendersi conto?
Questo è lo splendore del mistero, qui siamo in quel che io chiamo Dio. Originario, semplice, semplicissimo, di una semplicità che sconcerta.
Spendo ancora due parole per mettere in guardia da quei tic culturali da cui, che lo vogliamo o no, che lo sappiamo o no, siamo pesantemente condizionati.
Abbiamo un’idea di noi stessi, e quest’idea è retaggio culturale. L’abbiamo respirata a scuola, nei discorsi con gli amici, nelle riviste, nei libri che abbiamo letto, in televisione, e oggi più che mai si cerca di riportare ed esaurire tutto ciò che sentiamo, ogni sensazione, ogni emozione, ogni sentimento (anche i sentimenti!), a radici e ragioni oggettive, che significa biologiche, fisiche, computazionali.
Io lo nego e affermo che, al contrario, ciò che sentiamo ha un significato precedente le ragioni. Un significato, non tanti. Tutto ciò che noi avvertiamo, che viviamo, che sentiamo, dice la stessa cosa. Dice: “proprio io ci sono!”.
E non solo constata “proprio io esisto”, ma si sorprende: “esisto proprio io !? ”. C’è un senso di meraviglia, di sorpresa, non si è indifferenti a questo, nessuno lo è. Nessuno è indifferente a “proprio io esisto”.
Che ciò succeda con la tonalità emotiva della sorpresa, questo è il significato, la voce che sorge dal divario incolmabile. Quello che ci causa sorpresa è il divario incolmabile, cioè che io stia esistendo non essendo questo possibile: questo non può star succedendo!
Ogni volta c’è un sussulto, ogni volta. Cos’è? Questa è la Voce dell’esistenza, non l’esito di una deduzione. Quel microsussulto può diventare un’esplosione, una deflagrazione, come una bomba termonucleare sotterranea, di quelle che provocano il terremoto a distanza di migliaia di chilometri. Diventa una bruciatura interna che prende tutto il nostro essere. È la sorpresa da cui non ci si riprende più.
Questa è la grande semplicità, che non vuol dire banalità, anzi, la più grande delle semplicità coincide col prodigio, con ciò che non può stare accadendo.
Noi, per tradizione, siamo abituati a prendere in considerazione i miracoli nell’ambito dell’esistenza: se sollevassimo questo libro e togliendo la mano esso restasse sospeso, resteremmo con gli occhi aperti, strabuzzati… per il miracolo!
Ma il vero miracolo sta già succedendo: stiamo esistendo adesso, adesso, adesso, senza ragione, senza causa, il divario è incolmabile. Tutto ciò che noi sentiamo, che esperiamo, la nostra vita, i nostri sentimenti, le nostre emozioni, va riportato a questa miracolosa semplicità originaria: si dà qualcosa invece che niente. E dal divario incolmabile deriva un’implicazione abissale. Proprio perché il divario è incolmabile c’è un’implicazione abissale.
6. La soluzione buddhista al problema: la vacuità
Ma questa non è ancora la soluzione, è solo l’amplificazione della questione. Risvegliandosi alla consapevolezza del miracolo qualcuno entra in uno stato di estasi, di euforia paradisiaca, altri lo sentono come orrore puro, lo vivono sotto una luce angosciosa.
Buddha direbbe – e questa è la sua grandezza – che né l’uno, né l’altro stato sono leciti.
La soluzione non è l’euforia, e ovviamente non è l’angoscia, perché quella, semmai, è il problema.
La soluzione, direbbe lui, è nella vacuità ed essa ci riporta a quel divario incolmabile.
Per poter continuare, lo dichiaro, talvolta dovrò contraddirmi, e non perché io voglia farlo, ma perché la natura di ciò che dirò, essendo il nostro linguaggio descrittivo, lo renderà inevitabile, anche se per coloro che le ‘intendono’ queste contraddizioni sono delizia.
Vi sono interi sermoni del Buddha sotto forma di contraddizione, ad esempio Il sutra del diamante ed il Il sutra del cuore, il Mahaprajnaparamita hridaya Sutra, ossia Il discorso sul cuore della sapienza che è andata aldilà. Queste contraddizioni rappresentano per i buddhisti la verità più alta.
La soluzione va cercata proprio là dove nasce il problema, in quel divario incolmabile, in quel “non può esserci ragione” che ha in sé il germe del problema, ma anche la potenza di “vacuizzare”, di risolvere.
Cosa vuol dire? Vuol dire che quando noi fronteggiamo un fatto essente senza ragione, non lo possiamo comprendere in modo assoluto e ultimo, ma solo relativo. Non lo possiamo classificare, non possiamo attribuirgli una qualità, una lettura, un riconoscimento, perché questo ci è possibile solo in rapporto ad altre cose che si comportano più o meno alla stessa maniera. Ma ciascuna di queste, a sua volta, assume significato solo in rapporto a qualcos’altro.
Ma “la cosa” prodigiosa in sé, che sta accadendo ora, è senza nessi, senza causa, senza un significato ultimo, è in sé singolare, ultima, senza rapporto col resto. E in sé è “Niente”, non nel senso che non c’è, ma che non è niente di qualificabile in senso assoluto. Non può esserlo.
Questo è il tema più profondo, che necessita di una pratica costante e che qui non posso che accennare in poche parole.
Alla vacuità si perviene solamente dopo – precedentemente non avrebbe senso – aver vissuto la piena esplosione del “suono di una sola mano”. Dopo aver risolto il primo koan acquista senso addentrarsi e cercare i termini della soluzione del ‘problema-esistenza’. Prima non ha significato o, quantomeno, non può avere efficacia. Senza radici, senza nessi, dicono i buddhisti, nessuna cosa può avere un’essenza ultima, assoluta, autocertificante: è vuota.
Questo vale per questo libro, che chiamo “libro” ma che è anche un non-libro, e vale per queste stesse parole che stanno dicendo e che non possono star dicendo niente. Questo vale per i nostri sentimenti, per le nostre emozioni che ci creano problemi ma non possono essere problemi in senso assoluto.
Quel che mi interessa è tornare al fatto in modo che voi possiate quantomeno averne un assaggio.
Parlavamo prima di mezzi idonei, upaya. La tradizione indiana è ricchissima di introspezione. Quanto noi siamo stati fini ed efficienti nell’elaborazione della visione oggettiva di scienza e tecnica, così loro si sono dedicati – per molto più tempo, oltretutto – all’introspezione, cioè alla coscienza che studia se stessa, dhyana; ovviamente non con il metodo oggettivo galileiano, perché loro sanno benissimo che la coscienza non è un oggetto.
7. La struttura dell’esperienza cosciente: il luogo sorgente
Abbiamo distinto: qualche cosa; la non-cosa; il niente.
Il niente non è niente, cioè nessuna delle cose, e neppure la non-cosa, ma ci serve come termine di contrasto per tutto il resto. Anche la non-cosa, la coscienza, che non può essere afferrata perché è l’afferrante, può risaltare proprio perché non è niente, non è un niente. È una non-cosa, ma è diversa da niente, se ne può affermare il fatto d’essere.
Nella nostra esperienza abbiamo bisogno di questi tre termini di riferimento.
Noi conosciamo, facciamo esperienza delle cose, degli oggetti: questo naso, questa emozione, questo ricordo… Anche un ricordo, infatti, è un ‘oggetto’: se penso a dov’ero l’estate scorsa ecco che mi affiorano delle immagini che possono essere definite oggetti mentali.
Ovviamente dovremmo prendere in considerazione anche gli atti, le operazioni e le funzioni mentali, ma dovremmo inoltrarci in dettagli che non è possibile esaurire qui.
Restiamo sugli oggetti. Tutti gli oggetti si dispiegano. È la res extensa di cui parlava Cartesio, o, secondo gli Indiani, akasha, lo spazio del dispiegarsi dell’esperienza. Noi facciamo esperienza cosciente degli oggetti; abbiamo esperienza degli oggetti mentali, ma questo spazio che si dispiega, lo spazio mentale, lo spazio di esperienza, ha una sorgente, vale a dire che non è uguale dappertutto.
Come il mio spazio percettivo, per esempio quello visivo, nasce a partire dai miei occhi e poi si dispiega intorno (basta che io mi copra gli occhi per tapparlo tutto), così all’interno di noi c’è un luogo originario, un vedere che non è quello della vista.
È il punto (0,0,0) dello spazio cartesiano, ed è spazio percettivo, cosciente. È il mahabindu del tantrismo, il drashtar dello yoga di Patanjali…
C’è il vedere della vista, che dipende dagli occhi, e c’è un vedere che non dipende dagli occhi ed è un fatto di cui fare esperienza.
Potete averne un breve assaggio mettendo le mani davanti agli occhi in modo da impedire anche alla minima luce di filtrare.
Tempo fa mia figlia, che allora aveva sette o otto anni, mi chiese: “Papà, cos’è Buddha?”. Ovviamente non potevo entrare nei termini della vacuità, ma le dissi di sedersi un attimo e di mettere le mani sopra gli occhi, poi le ho chiesto: “Cosa vedi adesso?”. E lei: “Vedo buio”. “Chi vede il buio?”.
Ha tolto le mani, mi ha guardato molto intensamente e mi ha detto: “Ho capito!”, poi si è alzata ed è corsa via a giocare con sua sorella. È stato un dialogo zen molto pulito, esemplare! Ma non se l’è più dimenticato e ogni tanto mi fa qualche domanda sull’ “occhio della mente”.
Ricordo che ne parlai al biologo cognitivista Francisco Varela e anch’egli ne fu veramente impressionato.
Se provate a chiudere gli occhi, vedete buio.
Da dove proviene quello sguardo?
Quando c’è luce ci immedesimiamo con quel che vediamo. Se proviamo a stare per un po’ col buio che vediamo davanti a noi chiudendo gli occhi, dobbiamo dire che c’è, senza ombra di dubbio, uno stare guardando quel buio. A monte potete cogliere la differenza tra quel buio e una sorta di “spazio” cosciente sospeso su quel buio. I Tibetani lo chiamano Ösel, Chiara Luce.
Se in questa piccola esperienza doveste collocarvi da qualche parte, riconoscervi in “qualcosa”, potreste riconoscervi, identificarvi in qualcos’altro che non sia quello spazio sospeso, cosciente, affacciato sul buio, quello star guardando che non è qualcosa, ma la non-cosa che vede tutte le cose?
Con maggior precisione: a monte di quel buio, dietro, c’è un luogo scaturigine, una sorta di apertura, di varco, attraverso il quale passa un guardare. Un guardare speciale, non solo visivo, ma intriso di sapere, di coscienza.
Lo si può negare?
Sarebbe come negare di esistere.
La sera, prima di addormentarsi ci si può riassorbire in questo buio, e a guardarlo ci sarete voi. Poi, tutto si dissolverà e dormirete. La coscienza ritornerà veramente alla dimensione della non-cosa senza qualificazioni.
Questo è un fatto: là, dietro al buio, all’inizio, c’è uno sguardo, silenzioso, indubitabile.
Cos’è? Chi è? Da quanto c’è? Perché c’è?
Qual è il suo senso? Per quale ragione c’è?
Tutto questo è oscuro.
Lo yoga e il buddhismo tantrico ne hanno fatto il perno della loro tradizione.
Vi ho menzionato tutti i fatti da tenere in considerazione e ora avete tutti gli elementi, che in ciascuno di voi risuoneranno in modo diverso a seconda delle vostre storie, delle vostre domande, delle vostre sensibilità, per intraprendere la ricerca.
Lo strumento della ricerca è la meditazione, nella quale si viene guidati al fatto originario, a questa apertura dalla quale una non-cosa sta guardando.
Non abbiate la presunzione di sapere cos’è. Non dite “è una parte antica del cervello o una funzione di esso”. Siate più semplici. Mia figlia mi ha detto: “Io mi servo delle mie cellule per esistere. Io non sono le mie braccia, il mio corpo, perché queste cellule mi fanno esistere. Così non sono neanche il cervello, perché anche quello è formato di cellule che mi fanno esistere. Allora io chi sono?”.
Questa è la sua domanda. Qual è la vostra?
8. Alcune indicazioni per la meditazione
In meditazione si cerca di risalire lungo la provenienza dello sguardo. Esso non è nessuna immagine, non ha nessun colore, nessun sapore, nessuna forma. Ma sta guardando. Guarda tutte le immagini, coglie tutti i sapori, percepisce le forme…
Abbiamo menzionato tre luoghi:
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le cose, cioè le immagini, le sensazioni, i suoni che abbiamo evocato
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la non-cosa, ossia ciò che si affaccia sulle cose
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il “niente”, che funge da termine di contrasto per tutto.
Questa coscienza sta-accadendo-invece-che-no. Sarebbe ben più semplice niente. Invece no. C’è questa apertura, uno sguardo proveniente da…?
Da qui.
Proviene da qui: io sono questo sguardo.
Proprio io sono questo sguardo, questo sguardo invece che niente.
Coincidere con se stessi in modo così originario e consapevole può produrre intensità. Questa intensità cerca sfogo e ci chiama dalle viscere…diventa emozione. Possono emergere reazioni di sorpresa, di stupore. Sentiamo che ne va di noi.
Lo sguardo aperto, affacciato, sul buio lo si può “toccare” con precisione restando nel denso di se stessi.
Questa è la direzione della meditazione, e quel che vi si trova è un fatto.
Se vi sembra scontato e normale, allora finirà nella memoria, nell’archivio come mille altre informazioni…
L’illuminazione dipende dall’intuizione delle implicazioni di quel fatto. E prima che con la ragione le implicazioni si avvertono con le viscere, con un bruciore nel cuore, con brividi. Talvolta con qualcosa che assomiglia ad uno spavento, talvolta ad un’ondata d’amore…
Queste sono le forze della vita, ma non ancora la consapevolezza di ciò che ha suscitato queste forze.
Non si può sognare di esistere, non si può sognare il sognatore, sarebbe solo una conferma di stare esistendo. E questo sta accadendo adesso.
Un fatto, questo fatto, questa densità, nel momento in cui si afferma sta anche negando il niente. È vero che sono, non è vero che non sono. Il contrasto si pone sempre…
Noi siamo, io sono – invece che non essere.
È il divario incolmabile, e questo è l’abisso. O il prodigio. L’impossibilità attuata. Non può star succedendo!
9. Una questione “mostruosamente spaesante”
Il “divario incolmabile” che caratterizza la questione dell’essere ne rende impossibile l’impostazione come problema razionale. Non c’è risposta, non è possibile. Dobbiamo vivere nella prospettiva del mistero eterno e questo ci può gettare in una dimensione “tragica”.
C’è soluzione? Il Buddha ha mostrato una Via per raggiungerla.
Solo grazie a questo noi possiamo permetterci uno sguardo così temerario e ultimo.
Può darsi che qualcosa risuoni in voi solo tra qualche giorno, o tra un anno… a volte succede che qualcuno torni dopo due o tre anni avendo partecipato ad una serata introduttiva di cui ricorda poco o niente quanto a contenuti. Gli è rimasta solo una sensazione e vorrebbe dare consapevolezza a quella voce, a ciò che ha vissuto quella sera.
Quel che vi ho proposto, se ben compreso, è sconvolgente.
Heidegger per la questione dell’essere usa il termine “ungeheuerlich”, che significa “mostruosamente spaesante” a causa di quel divario incolmabile: “che l’essente è e non piuttosto non è”.
L’Occidente ha coscienza di questo. Qualcuno, come Heidegger, ne è stato estremamente consapevole, ma è rimasto anche estremamente isolato. Questa straordinaria lucidità è stata di pochi geni che, per trasmettere questo, non avevano altro che parole, magistrali, ma solo parole e quindi il loro sguardo, la loro luce si è andata perdendo. Oggi si parla di Heidegger senza quasi mai avere consapevolezza che ciò che egli ha scoperto dovrebbe suscitarci sentimenti di “ungeheuerlich”.
Per essere consapevoli dell’esistenza, dare l’informazione non basta, occorre meditare. Occorre realizzare.
L’occidentale sente la questione nello stomaco, magari, come ha detto un mio caro allievo, con la sua colite, la sua insicurezza, la depressione, il suo disagio continuo al quale non sa dare un motivo. Ma quelle sensazioni, io dico, sono la voce di Dio, quel Dio che vi ho proposto come il significato che, attraverso le nostre sensazioni, dice di questo miracolo che sta accadendo ma che non stiamo cogliendo.
Talvolta ci si imbatte in proposte di soluzione a questo dramma veramente grottesche, come il tentativo di ridurre tutto, anche ciò che sentiamo e che chiede significato, a meccanismi di chimica, biochimica, o neuro-qualche cosa.
Ma ciò a cui noi siamo sensibili sono i significati o la mancanza di significati. Anche sentire la mancanza di un significato, infatti, significa qualcosa. Noi ne patiamo, ne patiscono i nostri figli e i nostri genitori.
Tanta sofferenza: questa come ha detto il Buddha, è la nostra condizione.
Se il Buddhismo è più che mai attuale è perché parla della nostra essenza senziente e “paziente”, nel senso che patisce.
In Occidente non siamo ancora stati in grado di farne una cultura condivisa, di tradurre ciò in una domanda consapevole che funga da motore per una ricerca. In realtà l’occidentale sente un profondo, tragico, disagio, ma spesso, anche nei suoi rappresentanti più lucidi, non sa bene cosa fare per risolverlo.
10. Bodhidharma, Huìkě e la nascita dello zen
Vi racconto una storia, una magnifica storia che, devo confessare, ho un po’ interpretato. Potrei proporvene tre o quattro versioni diverse, se volete quella originale, è facile da trovare, ma comunque dovrete darne un’interpretazione alla luce della vostra esperienza.
È la storia di Bodhidharma e Huìkě, ossia l’inizio dello zen in Cina.
Il Buddha ha insegnato qualcosa che non è oggettivo, non vale per tutti, sempre. Buddha insegnava a seconda di chi aveva davanti. Anch’io, quando è possibile, cerco di fare altrettanto, perché so che qualcuno può capire e qualcun altro no, neppure se si sforza.
Realizzare la verità dell’illuminazione non è infatti come l’applicazione di una legge fisica.
Da subito ci sono state diverse interpretazioni del buddhismo. Dopo la morte del Buddha si dice che i suoi principali discepoli si siano riuniti in concilio a Rajghir, nella piana gangetica, per trovare in qualche modo un accordo sul messaggio del Buddha.
Ananda, che era il suo discepolo più stretto, il suo attendente, aveva una memoria prodigiosa, ricordava tutti i discorsi del Maestro, ma non era illuminato, per cui, anche se sapeva tutto a memoria, non ne capiva il senso profondo. Gli altri illuminati (arhat) gli chiesero quindi di affrettarsi a raggiungere l’illuminazione prima di raccontare loro per filo e per segno cosa aveva detto il Buddha. Ananda allora si concentrò in meditazione, ma, sebbene praticasse da oltre vent’anni, gli sembrava di non cavarne niente neanche quella volta, e ad un certo punto, stanco e scoraggiato, si alzò dalla posizione per andare a dormire. Il testo dice che si sedette sul letto, e prima che la sua testa toccasse il cuscino e i suoi piedi finissero di alzarsi verso il giaciglio, egli restò folgorato dall’illuminazione. “Restò senza ulteriori upadana” (afferramenti)” dice il testo, ossia si illuminò in un istante.
Dopo questo prodigioso evento – continua la leggenda – Ananda arrivò all’assemblea degli altri monaci volando su una nuvola. Possiamo immaginare che arrivò con un’aura così piena, così sicuro di sé, che i testi, per rendere l’idea, hanno raccontato che era come se volasse su una nuvola.
Dopo questo suo resoconto, tutti i sutra furono redatti sotto forma quasi metrica per poter essere cantati e memorizzati.
Eppure, anche in una simile circostanza, alla fine della riunione qualcuno andò via dicendo che a lui il Buddha aveva detto un’altra cosa, per cui sarebbe andato per conto suo. Questo per dire che ci sono tanti tipi di buddhismo quante sono le coscienze.
Uno di questi buddhismi prese il nome di dhyana, in pali jhana, che in cinese divenne chan’na, ch’an, e poi, in giapponese, zen.
Dall’India, attraverso uno dei patriarchi del lignaggio dhyana, Bodhidharma, questo buddhismo arrivò in Cina, qualche secolo dopo Cristo. In realtà in quel paese il buddhismo era già stato introdotto, e l’imperatore stesso era buddhista.
Ci fu uno scambio straordinario fra l’imperatore e Bodhidharma, in cui il primo chiese quale fosse il principio della sacra dottrina, e Bodhidharma rispose: “Un vuoto, un vuoto abissale, e in esso niente che possa dirsi sacro”.
L’imperatore rimase urtato e replicò: “Ma chi sei tu per parlarmi così?”.
E Bodhidharma: “Non lo so!”.
Questo segnò l’inizio della tradizione chan.
Bodhidharma si ritirò poi in una grotta sulle colline della famosa Shaolin. Si dice che sia rimasto seduto nove anni contro un muro, e che durante questo tempo abbia ricevuto anche delle visite, alle quali però non rispondeva mai.
Un giorno si presentò un uomo. Era un uomo colto, di ottima educazione, quindi possiamo dare per certo che conoscesse le dottrine, il confucianesimo, il taoismo, il buddhismo già presente in Cina, eppure non era soddisfatto. Era, al contrario, profondamente insoddisfatto, agitato, tormentato. Si dice che arrivò d’inverno, con la neve, alla grotta di Bodhidharma. Rispettosamente – dovete pensare alla soggezione che poteva incutere in Cina l’indiano Bodhidharma, con le sue fattezze diverse dai locali, la barba incolta, la pelle scura – da lontano, egli provò a chiamarlo: “Maestro…”. E Bodhidharma non rispose. L’uomo, nonostante fuori ci fosse la neve ed egli tremasse dal freddo, non osava entrare: “Maestro!”. Bodhidharma ancora una volta non rispose.
Non sappiamo quanto tempo abbia passato là fuori. La tradizione insegna che chi ha una grande, impellente domanda lo deve dimostrare, magari restando due o tre giorni sotto la neve.
Questa persona, conosciuta come Huìkě, a un certo punto si scoraggiò e pensò di andare via, ma guardando giù dalla collina, vide il sentiero che aveva percorso per arrivare fin lì, e realizzò che non aveva dove tornare. Non che non avesse una casa, o degli affetti che lo attendevano, era anche benestante, ma non aveva dove tornare perché lui veniva dal non senso.
Se avesse desistito non sarebbe tornato in un senso, le sue viscere gli dicevano che il divario era incolmabile, e allora tanto valeva restare ancora lì. Fermo nel suo proposito di ottenere l’attenzione del maestro, un certo punto prese la spada e si tagliò un braccio, che poi gettò davanti a Bodhidharma. A quel punto, Bodhidharma si girò e gli chiese: “Cosa vuoi?”.
“Maestro, non ho pace” – disse Huìkě.
Dovete immaginarlo senza un braccio, dolente, tremante, affamato, allo stremo:
“Non ho pace…”.
“Dimmi quel che potrebbe darti pace, mostramelo con precisione, e io ti esaudirò”. Rispose Bodhidharma. La promessa è grande, sconcertante. Huìkě si ritira, si stringe il braccio mutilato, è tremante, affamato. Si siede in un angolo della grotta e comincia a scrutare nella propria mente: “Cosa potrebbe darmi pace, quella pace che mi manca? Cosa?”. Da uomo intelligente qual era, cerca, cerca, e gli vengono in mente mille ipotesi, mille pensieri, ricordi, sensazioni. Le teorie le conosce tutte, ma non gli bastano. Deve arrendersi.
Torna da Bodhidharma allo stremo: “Maestro, ho scrutato, ho cercato, ma veramente non so cosa possa darmi pace”.
E Bodhidharma, di rimando: “Ecco, ti ho dato la pace, per sempre”.
Huìkě rimane sconcertato. “Ma come?! Ma cos’è, una presa in giro? Che ha detto? Ha detto di avermi dato la pace… ma cosa vuol dire? Ma che sta succedendo?!”. Affamato, dolente, gli sembra di essere quasi sull’orlo di un’allucinazione. Bodhidharma ha magistralmente aperto un varco nella coscienza di Huìkě che ora si guarda le mani: una c’è, una non c’è. Il contrasto si staglia: essere – nulla. Cos’è più semplice? Qualcosa comincia a sciogliersi. Con stupore scopre la sua mano come se la vedesse per la prima volta. Guarda giù: i sassi, il suolo, poi le pareti della grotta e quel mostro davanti a lui, Bodhidharma. Sente accendersi un bruciore dolcissimo nel petto. Tutto affiora in un modo nuovo, strano e scintillante, in un modo non deducibile. Gli viene incontro sotto una luce mai vista prima, miracolosa. Sta vedendo, finalmente. Si inchina al Maestro e gli sembra di cogliere un sorriso su quelle labbra temibili.
Ogni volta che ripenso a questa storia mi commuovo e so con certezza che non è solo una reazione della complessità della mia biologia.
Bodhidharma ha mostrato cos’è upaya, il cogliere l’occasione, il mezzo adatto.
Egli può apparire crudele, ma se siete Huìkě, se non avete dove tornare, sarete grati, per sempre.
Se invece avete dove tornare, quel che ho detto non vi riguarda.
Note:
1 I. Kant, Critica della ragion pura, Adelphi Edizioni, Milano, 1995, pp. 634-635.
2 B. Pascal, Pensieri e altri scritti, (Fr. 131), a cura di Gennaro Auletta, versione integrale francese condotta sull’edizione Brunschvicg, Mondadori, 1994, p. 165.
Articolo preso dalla collana Ai principi dell’esperienza, Centro Studi ASIA, Bologna, 2003