“Perché c’è il male?”, “Perché c’è la sofferenza?”.
L’angoscia esperita in prima persona ci strappa dal torpore quotidiano, da quell’oblio così radicale da scorrere inavvertito nella nostra vita e ci induce alla domanda.
Guadalcanal, teatro di battaglia tra americani e giapponesi è terra dove una condizione di vita estrema porta l’uomo a chiedersi ad affrontare la questione del proprio esserci.
La domanda sul senso dell’esistenza s’incarna negli uomini e spinge ogni uomo in un suo percorso in cui il destino individuale si compie. Il film assume così i toni di un’opera corale dove il canto a più voci trasmette e rimanda amplificandola la questione di fondo.
La telecamera si sofferma ad ogni istante ed ogni istante è un incontro estetico ed estatico con l’esistenza, è stupore di fronte all’esserci di noi stessi e del mondo. E dietro la telecamera, una voce narrante, è il soggetto che non si diluisce mai in ciò che ha di fronte ma vive quello stupore in prima persona e s’interroga.
“Da dove viene questo grande male? Perché c’è?”.
La domanda sul dolore diventa domanda sull’esistenza e questa si differenzia, produce esiti diversi nella relazione con l’esistenza.
Il soldato Bell affida il proprio destino ad un amore mistificante con cui crede di riscattare il delirio che vive. Il comandante Tall che già da tempo ha preso le distanze dalla realtà che vive e l’illusione della carriera diventa il baluardo grazie al quale può non udire le grida di dolore. Perché occorre farsi sordi al dolore degli altri per anestetizzare il proprio.
“Occorre costruirsi una posizione che sia solo propria e li resistere alla morte finché possibile” dice il sergente Welsh che forse è la figura più tormentata ed alterna momenti di scettica distanza, ad altri in cui sembra fiutare un significato (una scintilla) nel non senso dilagante. “Non esiste un altro mondo… viviamo in un mondo che si sta spostando verso l’inferno il più velocemente possibile…un uomo non può che chiudere gli occhi , non vedere nulla e badare a sé stesso”. Però non ha la forza di vivere fino in fondo secondo la sua lucida constatazione del mondo e se ne costruisce un altro fittizio solo per sè in cui crede di potersi salvare.
Ma la sua relazione con ciò che è segna profondamente il suo modo di esserci nel mondo e a momenti di autentico abbandono succederanno attimi di odio per chi, come Witt, non sente il suo odio e “ha visto cose che lui non vedrà mai”. E nello stesso tempo gli dice “credi ancora in quella bellissima luce? Per me sei come un mago” – lasciando trapelare una nostalgia che solo alla fine del film diventerà preghiera:
“Se non t’incontrerò in questa vita che almeno senta la tua mancanza…uno sguardo dei tuoi occhi e la mia vita sarà tua.”
Ed infine Witt che all’inizio del film aveva incontrato l’esistenza nella meraviglia del mare in una relazione ingenua e profondamente unificante col mondo, la natura, gli abitanti. L’armonia sembrava ancora risiedere in quell’angolo di mondo e vivere nelle voci dei canti tribali.
“Io ho incontrato un Altro Mondo” dice al sergente Welsh. Ma questa sua divina certezza , “la sua bellissima luce” resterà attonita di fronte alla costernazione in cui viene gettato dalla guerra. Il senso di perplessità con cui si apre il film “ Cosè questa grande guerra stipata nel cuore della natura? Perché la natura lotta contro sé stessa?” si radicalizza:“Da dove viene questo grande male? Chi ci sta derubando della vita, facendosi beffa di noi…la nostra rovina aiuta l’erba a crescere, il sole a splendere. Non esiste un altro mondo, esiste solo questo grande sasso.”
Un soldato sulla collina coperta di cadaveri urla al vento “Chi decide chi vive e chi muore? E’ tutto inutile! Perchè loro sono tutti morti ed io posso stare qui in piedi e non mi succede niente, perché!?”
O come dirà Welsh: “Non importa quanto sei addestrato, quanto stai attento, perché solo questione di fortuna se vieni ucciso o no. Se ti trovi nel posto sbagliato nel momento sbagliato è finita.”
Il non senso è ovunque e non risparmia nessuno anche chi sembrava abitato da una certezza incrollabile. La realtà sembra tradire la sua scintilla interiore, ma la posizione di Witt non è arroccata su un assoluto fondante, rimane aperta, esposta alla vita per quanto tragica essa sia. Là dove il mondo ha totalmente perso il suo senso, il suo stato di dubbio s’intensifica forse presentendo che è solo dove tutto finisce che qualcosa può ricominciare.
Un cadavere marrone ormai indistinto nella terra con cui si confonde, emerge a ricordargli il destino ultimo di tutti noi e come uno specchio irrevocabile quanto inappellabile gli dice “Sei retto, gentile, la tua fiducia si basa su questo, sei aiutato da tutti…. lo sono stato anch’io. Credi forse che le tue sofferenze saranno minori perché amavi il bene e la verità?”
Il dialogo-monologo di Witt con la natura diventa incessante. Gli alberi diventano presenze interrogate e a loro volta interroganti, su cui la macchina da presa si ferma come rapita da quel misterioso richiamo. “Un uomo guardò l’uccello morente e pensò che la vita non fosse che dolore senza risposta – ma è la morte che ha l’ultima parola, ride di lui – un altro uomo vede lo stesso uccello e sente la gloria, sente nascere la gioia eterna dentro di se”.
Ma nel momento estremo in cui la sua vita se ne sta’ per andare, in un atto supremo di oblio e di memoria scorrono le sue immagini più significative e in quel momento sancito da un cono di luce, le due possibilità intraviste nell’uccello morente forse non si escludono e la domanda senza risposta sembra diventare gloria divina. L’intensificazione della domanda è penetrazione del mistero e ne scaturisce quel sacro senso di abbandono che è proprio della contemplazione dell’impossibile che è.
“Il Buio da la luce, il conflitto da l’amore. Sono i frutti di una sola mente, sono i tratti di uno stesso volto” davanti al quale l’essere si stupisce di esserci.
Il mare che è all’inizio del film è lo stesso mare che è posto in chiusura ci rimanda a quel Deserto Interiore in cui annega e risorge l’umano domandarsi e da cui una preghiera ormai impersonale invoca “Oh anima mia fa che io sia in Te adesso, guarda attraverso i miei occhi, guarda le cose che hai creato, tutto risplende”.
In questo film dello stupore regna ovunque una assenza, un senso di esilio. Perché in questo bordo del mondo tutto deborda e il senso di vuoto evoca l’eccedente presenza ingiustificata.
L’essere è debordante nelle sue manifestazioni di presenza e di assenza: dalle urla strazianti al silenzio straniato, dal turbinio delle vicende all’immobilità del cielo. E su tutto il supremo mistero della luce che filtra tra i rami frondosi o si posa sulle tende di pizzo lievemente scostate della finestra in penombra, che si riversa sul mare spumeggiante o si posa sul cartellino così assurdamente legato al piede del soldato morto. E da quegli squarci di luce s’insinua il senza tempo che è come uno sguardo sospeso sull’accadere.
Questo cinema non solo ci ha regalato arte come fatto estetico, come incontro estetico, ma anche arte filosofica capace di stupirsi e di interrogarsi di fronte a ciò che vede pur sapendo che il destino ultimo della domanda fondamentale sull’essere “perché ci sono io?” resterà sempre inevasa e proprio per questo così tremendamente densa di fascino inesauribile.
Per chi come Malick, nella consapevolezza della tragedia come dell’estasi ha la forza ed il coraggio non umano di tenersi e tenerci sublimemente sospesi, di gettarsi e gettarci nel cuore aperto del mistero, va il nostro più profondo inchino.