Intervento di Amy Cohen alla giornata dedicata a Francisco Varela.
Traduzione a cura del Centro Studi ASIA
Bologna, 1 Luglio 2006.
Francisco è in ospedale e osserva attentamente lo schermo dell’ecografia, dove il suo fegato appena trapiantato appare come una massa instabile di forme indecifrabili in sfumature di grigio.
Egli scrive: “Mentre scruto dentro di me (ma quale me?) il fegato di un’altra persona, l’intervento medico esplode in una stanza degli specchi. A questo punto il momento critico del trapianto può essere ricondotto a sentimenti estremi: al fatto di aver ricevuto ‘un dono’ (da qualche luogo, dalla ‘vita’ o da ‘dio’), oppure alla semplicità dei medici determinati a livello della loro abilità tecnica. In mezzo a questi due si colloca l’evento vissuto, che va elaborato in modo diverso, secondo altri parametri.”
Il trapianto fu ciò che potremmo chiamare una “esperienza limite”, in Francese, “une expérience-limite”, un’esperienza-soglia o estrema. Francisco ovviamente si era preparato a questo. Durante il lungo anno in cui era in lista d’attesa per il trapianto di fegato, era come se i suoi giorni fossero quasi letteralmente numerati, poiché il suo nome procedeva molto lentamente verso la cima della lista. Quindi, nell’attesa, raccoglieva informazioni mediche precise sulla sua condizione e sulle procedure a cui stava per sottoporsi. Vedeva ciascuno degli infiniti esami medici che avrebbe dovuto sopportare sotto le mani dei dottori o delle loro attrezzature come una pratica, una pratica di rinuncia, di cessione, di lasciar andare, di arrendersi alle procedure mediche. Ma ciò che alla fine apprese fu che questo non avrebbe potuto veramente prepararlo a ciò che stava per succedere, poiché la radicalità di questa esperienza estrema avrebbe rappresentato una sfida fondamentale alla sua capacità di essere cosciente di ciò che gli stava accadendo. In casi come questo, di esperienza limite o di esperienza soglia, la coscienza è a rischio di dissoluzione. L’esperienza dell’esperienza, per così dire, può prender forma o emergere solo dopo il fatto, in una eco che la riflette, la raddoppia. Il linguaggio ci colloca a una certa distanza.
Francisco scrive: “Mentre scruto dentro di me (ma quale me?) il fegato di un’altra persona, l’intervento medico esplode in una stanza degli specchi.” Questo è già un distaccarsi, un rinviare, un descrivere la sorpresa, un tentativo per noi, suoi lettori, di interpretarne l’immediatezza, di approcciare con le parole l’ in-consapevolezza. Si tratta di una discesa, un’immersione in uno spazio dove il corpo diventa puro oggetto, espropriato, sequestrato dagli interventi medici necessari. Quanto alla mente, essa viene annullata dagli effetti dell’anestesia e dai farmaci somministrati per evitare il rigetto del nuovo organo. In un inesorabile movimento parallelo il corpo diventa un corpo-oggetto, in termini fenomenologici “Körper”, e la soggettività, il sentire di essere un soggetto, con un corpo che è “il mio” o “me stesso”, si dissolve fino al punto di dileguarsi, e si estingue. Queste esperienze estreme sono come verifiche dei limiti della coscienza. Come una prova generale prima del momento della “mia” morte, l’esperienza del trapianto (una volta deciso di sottoporvisi) compatta o combina la certezza dell’inevitabile con la imprevedibilità di ciò che è radicalmente inconcepibile. E’ un’esperienza ai limiti dell’esperienza stessa, una traccia di morte avvolta dentro le pieghe della vita.
Hans Jonas, il filosofo della scienza, ha parlato di questa immanenza del non-essere al cuore dell’essere dell’organismo come di un essere all’origine del significato enfatico della vita, che per continuare deve continuare ad affermare se stessa. (Egli dice: con questo duplice aspetto del metabolismo -il suo potere e il suo aver bisogno- il non-essere è apparso nel mondo come un’alternativa incorporata nell’essere stesso; e perciò l’essere stesso innanzitutto assume un senso enfatico: intrinsecamente qualificato dalla minaccia del suo negativo, deve affermare se stesso, e l’esistenza affermata è un’esistenza che ci riguarda.)
Oggi mi piacerebbe tornare al pensiero di Francisco per richiamare le relazioni che possiamo rinvenire in esso fra questi parametri “altri” necessari per rendere conto dell’esperienza vissuta, dei limiti alla e della esperienza e la questione dell’etica. In Ethical Know-how, le conferenze che tenne qui in Italia, delimita il territorio per quella che lui chiama etica “vissuta” o “immediata” ( nel senso di presenza a-, o non mediata), che parte dalla nozione di pratica; un’etica pratica o pragmatica basata sui modelli della “enaction” e sulla filosofia buddista. Poco più di dieci anni dopo, nell’articolo che ho appena citato, Intimate Distances, dove riflette sul suo trapianto di fegato, parla in prima persona di questa esperienza critica che fu il culmine di anni di malattia cronica. Uso qui “critica” per evocare il duplice significato che Francisco sviluppa nel suo articolo: quello di crisi, di punto di svolta, e quello di trasformazione di questa crisi in un progetto per un’ etica esperienziale o vivente, un’etica dell’esperienza vissuta.
Per Francisco questo progetto richiede un domandare critico da parte del soggetto a proposito dei suoi reali fondamenti come soggetto, come essere vivente. Il pensiero di Francisco sui sistemi viventi, dall’ autopoiesi alla neurofenomenologia, come sapete, è incentrato sulla nozione di vincoli e questi vincoli producono “passaggi generativi”. In merito a quali potrebbero essere i parametri per rendere conto dell’esperienza vissuta, partendo da questi concetti, ovvero i suoi i limiti e i suoi vincoli, vorrei sottolineare come questo pensiero (di Francisco) possa contribuire a ridefinire il soggetto, la nozione stessa di soggetto. Esso ci orienta verso un “soggetto dei limiti”, un soggetto paradossale, che ha una consistenza dovuta alla sua materialità e alla sua storia, e che è tuttavia sempre emergente, un effetto virtuale dei vincoli che lo generano. Questo modo di vedere il soggetto come un oggetto paradossale o “misto” (determinato E contingente), nei termini delle sue determinazioni e della sua contingenza, ha un’implicazione e una validità etiche, e apre un campo di possibilità per riflettere sulla responsabilità umana.
Il “significato enfatico” della vita, che deriva dalla polarità fondamentale tra morte e vita, da questo limite della morte nella vita che conferisce significato all’esistenza, è ciò che spinse Francisco a cercare di aprire la scatola nera che è l’esperienza soggettiva del trapianto. “Delineare” i parametri dell’esperienza vissuta, come Francisco li formula, è cercare una posizione di intransigenza sia nei confronti degli aspetti reali che immaginari dell’esperienza, così come con la sua imprevedibilità.
Tra il sentimentalismo del regalo, l’immaginazione quasi mistica relativa all’identità del donatore dell’organo, e l’abilità tecnica dei medici, la reale e concreta comparsa nel suo addome di un reale e concreto fegato, c’è un’esperienza, ci dice, che ha parametri ”altri”. Uno potrebbe affermare che ogni esperienza che viviamo è anche un’ esperienza di limiti, vincolata dalla nostra personale visione del mondo e prospettiva limitata, dal nostro approccio, che delimita o segna i confini di ogni particolare esperienza.
L’esplorazione dei limiti della comprensione, dell’esperienza, fu una costante nella vita scientifica di Francisco, e in tutto il resto della sua vita. Ma il superamento di un bivio, il passaggio, che il trapianto rappresentò ( insieme con la guerra civile in Cile, molto prima, e, poi, con la scoperta della pratica buddista e con la filosofia), fu uno di quei momenti salienti in cui l’esperienza dei limiti si è radicalmente incisa, modificando il corpo; un evento in cui lui, “io”, “noi”, ci troviamo oltre noi stessi, disgiunti da noi stessi, sulla linea sottile fra soggetto e oggetto, prima e terza persona… e all’estremo limite o soglia di entrambi.
“L’esperienza vissuta, dice Francisco, parlando del suo trapianto di fegato, deve essere delineata diversamente, con altri parametri” .
Il linguaggio e i suoi modi di dire motivano, declinano e “configurano” tutta la attività di concettualizzazione e descrizione. Il linguaggio è una mediazione limitante e, come insistono i lettori di scritti scientifici come Evelyn Fox Keller e Susan Oyama, la metafora è un mediatore particolarmente forte e a volte ambiguo, poiché è raro che siamo totalmente consapevoli di tutte le sfumature della dimensione metaforica dei nostri concetti.1 Con gli strumenti del linguaggio la concettualizzazione struttura o configura la nostra esperienza della realtà. Veicolate dai loro concetti, la scienza e la tecnologia forgiano nuove prospettive, e pertanto fabbricano nuovi corpi: non è che il linguaggio “costruisca” i nostri corpi, ma che il nostro approccio al corpo è limitato dai nostri concetti e dal nostro “stile” scientifico, dal nostro modo di “disegnare” gli esperimenti.
Nella sua descrizione del trapianto Francisco sviluppa questa idea della trasformazione del corpo attraverso strumenti della tecnica: le tecniche di visualizzazione (come l’ecografia o lo scanner) generano confusione rispetto alla nozione di un corpo definito, con limiti definiti fra interno ed esterno.
Vedere dentro al tuo corpo è sia una rivelazione e una violazione della sua intimità; ed è una visione accattivante. Il fascino dell’immagine visiva, che chiamiamo in francese “la capture imaginaire”, ci legittima in una consapevolezza certa, in una ferma convinzione che noi possiamo intendere o fra-intendere un’ etica basata sul realismo scientifico. Egli continua la sua descrizione del corpo-oggetto, il corpo che è trasformato da attenzioni mediche, nella sua discussione delle cure per il rigetto del trapianto. La scelta della farmacologia usata per prevenire il rigetto segue un modello di funzionamento del sistema immunitario basato sulla metafora del corpo come una fortezza, che deve difendersi dagli aggressori estranei, provenienti dall’interno e dall’esterno. Nel suo primo lavoro sui modelli del sistema immunitario, dove sostituisce il modello “militare” del sistema immunitario con quello cognitivo, ovvero il sistema immunitario come un sistema di cognizione, in questo testo più personale, Francisco sostituisce le immagini militari di attacco e difesa con le nozioni di tempismo, accoglienza e ospitalità come condizioni per la riconfigurazione del corpo nel processo di accettazione dell’intrusione di un estraneo.
Ciò che Francisco intraprende qui, solo come tentativo, poichè, dice di sè, è come un cartografo senza mappe che delimitino il territorio, è esplorare ciò che egli chiama la “doppia qualità” del sentire l’esistenza, lo spazio in gioco durante questa estrema esperienza, la dinamica (che essa crea) fra il corpo vissuto o soggettivo e il corpo funzionale o oggettivo.
Ora, Francisco preferiva sempre riferirsi all’esperienza quotidiana nel suo riflettere a proposito del soggetto della coscienza o dell’esperienza. Ma sentiva una certa urgenza di prendere in considerazione la sua straordinaria esperienza del trapianto. Per lui fu un esperienza che lo portò alle principali domande sull’etica della medicina e della tecnologia, su cui aveva già riflettuto, ma che era rimasta per gran parte astratta. Proprio il subire l’esperienza lo rese assolutamente certo dell’imperativo etico di trovare i modi per esaminare l’esperienza vissuta, al fine di sviluppare una scienza più umana su base esperienziale. Più precisamente egli fece esperienza concreta della sua intuizione del sè come soggetto non-sostanziato, non-localizzabile, che origina dalle dinamiche fra quelli che egli chiama i poli somatico ed esperienziale.
In una specie di auto-analisi neurofenomenologica, egli prova a specificare questa “doppia qualità” del sentire l’esistenza, qualcosa di simile a ciò che potrebbe essere “l’interfaccia virtuale” fra il corpo vissuto, o Leib, e il corpo-oggetto, o Korper , nella cornice di questa insolita esperienza.
L’esperienza estrema della perdita di coerenza soggettiva nel movimento oscillatorio fra l’appropriarsi e l’essere espropriato del corpo vissuto, questa sfida all’esperienza abituale del sè costituito in un corpo intatto, apre un campo di pratica dell’esperienza del corpo vissuto che ha una sua specifica temporalità. Perciò, la temporalità stessa, egli scrive, è l’intrusione, i tempi dell’approccio, il lento muoversi di ciò che arriva da una certa distanza e si avvicina, per gradi. L’intrusione è inseparabile dall’accoglienza; entrambe sono legate dalla loro intrinseca temporalità, che l’intervento medico viola alla radice. Non è il fegato, ma la strategia del “team” medico a costituire l’intrusione, poichè le tecnologie applicate al corpo non sono sincronizzate con la temporalità dell’accoglienza, che è la nostra condizione di base. Il paradosso dell’alterità è un paradosso della distribuzione dei tempi dell’ospitalità. Il tempo del corpo vissuto ha il suo regime: siamo in un ritmo; la specifica cadenza o passo del corpo vissuto è quello della progressività, un movimento misurato, graduale, caratteristico delle pratiche trasformative, come Francisco le vedeva (es: respirare, stendersi, il ritmo nel camminare), una cadenza che è la condizione della possibilità per l’accoglienza dell’altro, necessaria per quello che lui chiama la “tolleranza del corpo”. La pratica del corpo vissuto ha anche una propria estensione, spazio, o ambito: “L’esperienza, scrive Francisco, è anche e allo stesso tempo permeata di alterità, con un aspetto trascendente, cioè, sempre già decentrato rispetto all’individualità dell’organismo. Questo resiste al modo abituale di vedere la mente e la coscienza come fossero dentro alla testa/cervello, invece che inseparabilmente avviluppate all’esperienza degli altri, come se l’esperienza di un trapianto di fegato fosse un fatto personale.” Il decentramento del soggetto, ciò che Francisco chiama anche “la natura estensibile della senzienza”, disloca la coscienza dalla cornice della sua localizzazione nel cervello e la considera come un insieme di processi di diffusione fra sistemi mutuamente integrati, quali il sistema nervoso centrale, il corpo, e l’ambiente. C’è ovviamente un limite imposto dalla durata della vita di un individuo, o dell’”Io”, ma il soggetto, a causa del suo “radicale essere incorporato”, va oltre la sua individualità, il suo ego, la sua nascita e forse, la sua mortalità. 3
Così, e per concludere, Francisco scoprì che questo corpo vissuto, che è simultaneamente incorporato e decentrato, è pieno di paradossi. Ma naturalmente per lui, come per quelli di voi che ora lo comprendono, il lavoro più fruttuoso e creativo origina dai paradossi, da impasses apparenti, che lo costringevano, come spesso diceva, a “sospendere la domanda, sedersi e solo osservarla!”. Anche l’etica non parte da ciò che sappiamo, ma laddove noi riconosciamo e apprendiamo i limiti del nostro capire. Anche se un’etica non può derivare esclusivamente dalla nostra natura, si può immaginare una forma di etica naturale, fragile e contraddittoria, che potrebbe essere forgiata per, o forse da, o a partire con, questo soggetto del corpo vissuto, un soggetto che ha un esistenza singolare, o come Francisco direbbe, un singolare modo di “sentire l’esistenza”, e cioè , allo stesso tempo, contingente e non-assoluto. Il forgiare quest’ etica deve basarsi su una metodologia pragmatica per un esame critico dei parametri dell’esperienza vissuta. Il soggetto che è limitato e delimitato costitutivamente dalla sua natura incorpata e decentrata è, quindi, anche limitato dall’orizzonte della consapevolezza che gli è possibile avere di se stesso e dell’altro. Questi limiti impongono un certo grado di opacità del soggetto: un’ opacità a se stesso e all’ ambiente o mondo co-emergente. E’ qui, dove i limiti di intellegibilità sono definiti dall’interno della reale costituzione dello stesso soggetto conoscente, per mezzo della decostruzione dell’illusione di una coerenza centralizzata e sovrana sia della mia “propria”soggettività che del mondo “oggettivo”, è qui che la dimensione etica del nostro essere appare coestensiva con la nostra base corporea e con il nostro “sé” in quanto virtuale, in quanto potenzialità che costantemente deve essere in risposta a qualcosa. Vale a dire che, per il nostro stesso essere in quanto soggetti , noi siamo costretti alla responsabilità.
Leggi l’intervento di Pier Luigi Luisi: “Autopoiesi come principio fondamentale del vivente”
1. Il loro “potere” metaforico è proporzionale alla repressione della loro “metaforicità”.
2. La mia vita nella sua contingenza riflette la storia della tecnica, la crescente conoscenza del corpo umano, che non sa niente del corpo vissuto che può e che ne deriverà. La tecnologia, come sempre, si pone come la mediazione che rivela che le nostre vite sono collegate. Le contingenze della vita che si accumulano nella storia delle tecnologie del corpo, dagli antibiotici, alle droghe fatte su misura, all’ingegneria genetica. A maggior ragione adesso che la contingenza della vita , sempre sulla soglia della riflessione sul destino dell’umanità, acquista una velocità che urta anche contro la nostra abilità di concepire, assimilare, lavorare attraverso i risultati.
3. Oyama che cerca di trascendere l’opposizione fra sviluppo biologia dello sviluppo e biologia evolutiva presenta una versione di questo superamento, sorpasso, andare oltre. ( L’approccio costruttivista della teoria dello sviluppo) offre un modo di parlare della complessa continuità e variabilità transgenerazionale, della stabilità e del cambiamento sia nelle specie che negli individui, permettendoci di conoscere la comlessità e la contingenza dei processi osservati nell’ontogenesi, un modo di pensare in temini evolutivi senza consegnarci a un dualismo nel quale lo sviluppo contingente è in contrapposizione alla natura predeterminata geneticamente. Non abbiamo bisogno del programma genetico per avere una prospettiva evolutiva.