“…il Ki non è contenibile poiché nessuna di queste azioni è il Ki, ma ognuna di esse lo manifesta nel modo peculiare di una personalità. L’Aikido parte dal presupposto che la mente muova il corpo, ma il Ki è una modalità di espressione più originaria che riguarda entrambi.”

Il Ki-Aikido è una creazione del M° Tohei, uno dei principali allievi del fondatore dell’Aikido, Ueshiba Morihei. Esso consiste nella pratica dell’unificazione mente-corpo e parte dal presupposto che i due aspetti che costituiscono un individuo siano profondamente compenetrati. Il corpo che è la parte visibile riflette molto bene gli stati mentali e costituisce la base operativa per influire su questi. L’intento della ricerca è far riscoprire ai praticanti uno stato ordinato e sapiente a cui riferirsi in ogni momento della pratica e della vita. In Oriente tale stato è chiamato “l’occhio del ciclone”, cioè lo stato di massima calma nel turbinare della tempesta. Per chi si avvicina all’Aikido, è importante conoscere i princìpi elaborati e sistematizzati dal Maestro Tohei che fanno di quest’arte marziale un’autentica via di consapevolezza. Essi sono qui esposti e trattati secondo l’insegnamento del Maestro Franco Bertossa.

– Concentrarsi sul punto nel basso addome
– Essere rilassati
– Tenere il “peso sotto”
– Inviare Ki

L’esposizione di ogni princìpio non pretende di essere esauriente poiché ogni aspetto può, a sua volta, essere scomposto e indagato sempre più profondamente.
In questa breve analisi si dà per scontato che ogni praticante sappia cosa s’intenda per attenzione, intuizione, relazione, espansione, volume, intensità almeno nella condivisa accezione dei termini. Quanto profondi siano invece i significati connessi ad ogni modalità di espressione menzionata si svela solo col tempo e all’interno di una pratica.
L’esplorazione dei princìpi avviene a diversi livelli: dai più immediati che riguardano la loro prima sperimentazione, ai più profondi che riguardano la conversione di corpo e mente a modelli totalmente nuovi. Difficile è “affidarsi” al punto, al rilassamento, al Ki e alla gravità rispettandoli e accettando che esistano a prescindere dal nostro intervento. Ancora più difficile è abbandonare la ricerca dell’efficacia a favore di uno stato non concluso. Problematico è non contrastare l’azione, ma accoglierla e dirigerla sapientemente nel rispetto dell’avversario.

I princìpi sono sempre presenti e durante gli anni di pratica vederne le varie sfaccettature, curarne la precisa relazione, ascoltarne le sottili variazioni costituiscono la base per lo studio dell’Aikido. Far sì che siano sempre presenti in modo armonico ed equilibrato, in stasi e in movimento, richiede un lungo lavoro sul corpo e sulla mente. L’approfondimento dei princìpi non si esaurisce mai, pensare di poter mettere un punto segna inevitabilmente la fine dell’apprendimento: la pratica diventa sterile e le potenzialità che ogni princìpio cela rimangono inespresse. Di solito coloro che non sono interessati alla ricerca dopo qualche tempo abbandonano i tatami.
Durante gli anni è necessario riconoscere che la pratica diventa più impegnativa: ai risultati immediati ed appariscenti si sostituisce un lavoro più sottile e non immediatamente visibile. I grandi ed ampi movimenti lasciano il posto a coordinazioni sempre più essenziali. La zona individuata nel basso ventre come sede del “punto” diventa più precisa e infinitamente piccola. Il rilassamento muscolare, la cui percezione è immediata per un princìpiante, lascia il posto ad un lavoro più locale su piccole tensioni che ancora impediscono il fluire del Ki. La relazione con “l’altro” nell’espressione della tecnica, che nei primi impatti è semplice contrasto e quindi risposta preconcetta, diventa un affascinante lavoro sul primo contatto: quando nasce il contrasto?
L’esplorazione costante dell’esperienza diventa il sostegno della pratica; il fascino della ricerca aiuta i praticanti a superare i momenti di frustrazione e quei periodi in cui non si vede più sviluppo. Gli schemi antichi sono troppo interiorizzati e riconosciuti; la loro sostituzione appare impresa ardua. Ogni movimento, anche il più piccolo, è specchio impietoso dello stato mentale con cui si interagisce col mondo e con cui si affrontano gli eventi della vita. Sono le “risposte vincenti” che ognuno ha elaborato per vivere meglio. Ma si vive veramente meglio quando la modalità di interazione è sempre uguale anche se le occasioni sono diverse? E’ necessario entrare sempre nelle situazioni nell’unico modo che si conosce ad esempio contrastando, scappando, subendo o rimanendo inebetiti?
L’Aikido educa a ricondurre ogni atteggiamento del corpo e della mente ad una domanda, ad un essere aperti sul mondo e ad uno stato iniziale di non sapere; insegna a fluire con gli eventi, che nessuno sceglie e che ognuno si trova ad affrontare.

Ognuno dei princìpi elencati può essere trattato separatamente ma nella pratica, l’assunzione di uno implica necessariamente il rispetto degli altri tre. Sono imprescindibilmente correlati: tuttavia si può portare di volta in volta l’attenzione su uno di essi. Ogni affinamento di un aspetto si riversa inevitabilmente sugli altri, arricchendo e approfondendo la globalità e l’armonia del movimento.

TENERE IL PUNTO (concentrare la mente in un punto unico nel basso ventre)

Questo princìpio è mentale e riguarda il percorso dell’attenzione verso un luogo preciso. Dal punto di vista fisico-muscolare, infatti, non esiste un “punto” che si possa individuare materialmente nel basso addome, ma mentalmente si può portare facilmente l’attenzione nella zona delimitata dalle ossa del bacino, dall’osso pubico e dai potenti muscoli addominali. Da subito si percepisce che c’è un luogo, facilmente visualizzabile sotto l’ombelico, in cui l’attenzione riposa volentieri. Il praticante, fin dalle prime lezioni, sperimenta la sensazione di grande stabilità e compattezza fisica e mentale che dà questo semplice spostamento dello sguardo interno. Ci si sente a “casa” senza alcuno sforzo. E’ la prima intuizione di un centro da cui far partire e a cui ricondurre ogni movimento e stato emotivo. Le sensazioni di stabilità e potenza però possono indurre in errore: credere che “tenere il punto” corrisponda ad una situazione di immobilità e di non permeabilità.
Comincia la pratica vera in relazione a se stessi e agli altri. Col tempo i praticanti imparano che questa percezione corrisponde più ad una domanda che ad una risposta: si tiene massimamente il punto quando si è massimamente in uno stato di domanda. Si comincia a sperimentare uno “stare a casa” di qualità diversa, con una permeabilità non connessa a cedimenti, con un’attenzione estesa e con una presenza mentale aperta e fluida. Gli schemi antichi di relazione si incrinano, sono minati nelle fondamenta, ma quanto tempo occorre perché le risposte diano spazio alle domande?
La “frequentazione del punto”, da cui il Ki irradia, dà consistenza al movimento: ogni piccola rotazione o oscillazione del bacino deve trasmettersi senza incontrare ostacoli nel tronco e negli arti; viceversa ogni movimento del tronco e degli arti deve poter essere ricondotto ad un centro sempre più piccolo. Il Ki deve estendersi o essere assorbito senza incontrare tensioni muscolari o emotive, deve percorrere gli stati mentali e fisici senza intoppi.
Cosa vuol dire che il Ki deve viaggiare nel corpo? Come dare ad un princìpiante un riferimento per rendere la cosa sperimentabile?
Un buon veicolo di Ki si può considerare l’attenzione: un’attenzione intensa e precisa indica, ad esempio, una corretta emissione di Ki. Vale la pena a questo punto dire qualcosa in più sulla modalità di interazione col mondo a noi più prossima (ci viaggiamo dentro) e per questo quasi mai indagata (almeno non nella vita ordinaria). L’attenzione è ciò con cui incontriamo tutto, anche noi stessi; la sua natura è molto instabile, ed è difficile imbrigliarla e mantenerla a lungo su qualcosa. I princìpianti, infatti, alla fine delle prime lezioni si sentono esausti mentalmente. L’educazione ad un’attenzione precisa, che possiamo anche chiamare intenzione, fa parte dell’insegnamento dell’Aikido e costituisce negli anni di pratica un campo di studio molto interessante e variegato.
L’attenzione insediandosi nel “punto” dà una diversa percezione dello spazio circostante: si evidenzia un volume sferico attorno al quale si può costruire ogni tipo di coordinazione individuale o in relazione ad altri praticanti. E’ interessante come il volume diventi sempre più evidente e il controllo dello spazio e di tutto ciò in esso contenuto avvenga in base a questa sottile ma evidente percezione. Le tecniche acquistano quell’aspetto armonioso che caratterizza l’Aikido: i praticanti non si confrontano più su linee di forza muscolare ma sul vortice che si crea nel confluire dei volumi. La potenza che ne scaturisce è sorprendente e quella che allo spettatore ignaro appare come una danza, mostra il suo volto marziale. I corpi quasi non si toccano e si comincia a lavorare sulla percezione al primo contatto. La prima interazione si ha quando i praticanti si toccano materialmente o nel prodursi dell’intenzione?
La percezione del punto, come ogni altro aspetto indagato è precisabile all’infinito e comporta una sensibilità molto sottile. Cambia il modo di respirare, di ascoltarsi, di sentirsi e anche i gesti più involontari come camminare o respirare, se fatti riferendosi ad un centro, acquisiscono ordine e diventano fonte di studio inesauribile.

ESSERE RILASSATI
Il primo grosso ostacolo da superare è l’idea che il rilassamento corrisponda ad una situazione muscolare allentata e flaccida. Tutti i praticanti all’inizio si muovono tra i due estremi della contrazione muscolare, espressione di potenza fisica, e il repentino allentamento d’ogni tensione che è molto simile ad uno svuotamento di ogni energia vitale. Difficilmente si riconosce uno stato di rilassamento che, ad una potenza muscolare minima, associ una presenza “piena” in ogni parte del corpo.
Nel Dojo (luogo della pratica, della Via) la pratica quotidiana insegna il rilassamento attraverso esercizi fisici e mentali molto mirati, che coinvolgono tutto il corpo e che permettono ai praticanti di riscoprire le coordinazioni più semplici ed essenziali. I princìpianti appaiono molto sconcertati quando si accorgono che i talloni hanno un movimento autonomo rispetto al resto del piede, che un gomito può allentarsi completamente e che il bacino ha potenzialità di movimento sconosciute. Per la prima volta fanno esperienza del proprio corpo in un modo nuovo e a volte stupefacente. Queste prime percezioni segnano l’entrata nella pratica, ma vanno affinate e integrate in movimenti più globali.
Il vero rilassamento comporta un lungo studio che implica sensibilità profonda delle catene muscolari, del respiro e dei gesti. Con un paziente lavoro su ogni parte del corpo i praticanti imparano a rilassare le fasce muscolari lunghe e superficiali fino ad interessare quelle più profonde, la cui sensibilizzazione avviene nel corso degli anni. Ogni piccola tensione o contrattura dei muscoli impedisce il fluire del Ki, privilegiando i movimenti conosciuti da sempre a coordinazioni più semplici ma sconosciute. Suona alquanto strano rispondere ad un attacco o ad una presa in uno stato rilassato che, anziché contrastare, riceva l’azione e la rilanci su un piano diverso. L’attaccante chi prenderà, se non sente opposizione? Togliendo il riferimento preciso dato da un irrigidimento, l’avversario rimane alquanto sconcertato, e non ha più tempo per riorganizzarsi e concludere l’azione.
Il rilassamento implica anche un assetto simmetrico dello scheletro ed una percezione sottile della colonna vertebrale come asse centrale di tutta la struttura ossea. Se la postura è corretta ed ogni aggiustamento si dispiega su tutte le ossa, i muscoli hanno una solida base su cui espandersi e adagiarsi. L’attenzione portata in ogni singola parte del corpo lavora in profondità e dà come esito un movimento ed una relazione sempre più puliti, sempre più sapientemente sciolti e pervasi di una nuova consapevolezza. I muscoli si possono allentare o cedere senza perdere pienezza e consistenza, assolvendo alla funzione di veicolare il Ki all’interno e all’esterno del corpo. Il respiro pervade anche piccole zone poco frequentate e si percepisce come tutto il corpo ‘si’ respiri e partecipi completamente ad ogni fase.

TENERE IL PESO SOTTO

Tenere il peso sotto vuol dire porsi in relazione precisa con la gravità. La gravità è un princìpio fisico i cui effetti sono immediatamente percepibili e descrivibili, ma per la sua estrema semplicità è anche difficilmente indagato in prima persona. Il fatto di esservi sempre e completamente immersi rende la gravità così scontata da impedire un percorso di consapevolezza in essa. Nessuno si chiede quali effetti la verticalità abbia sulla postura, né come sia possibile rispettarla, né quali siano le linee del corpo che la esprimono al meglio.
Nel Dojo si parte proprio da una semplice relazione con la gravità. Fin dalle prime lezioni i praticanti sono invitati a sentire il contatto dei piedi con il suolo, a precisare sottilmente la postura della colonna vertebrale, a notare in quali zone del corpo si distribuisce il peso per permettere un migliore equilibrio e ad interagire nelle tecniche rispettando le linee di forza già esistenti. In questo modo ognuno può assaporare come la percezione della gravità muti la consapevolezza del corpo. I piedi, base da cui si costruisce tutta la posizione eretta, cercano il suolo con una sensibilità che riguarda zone sempre più piccole. Il lungo lavoro sulla colonna vertebrale che è precisabile nel tempo, dà come esito una perfetta adesione alla verticalità e una migliore espansione della gabbia toracica, delle spalle e del bacino. La percezione del peso del corpo si distribuisce nei punti più bassi migliorando la sensazione di stabilità e compattezza. Nella posizione in piedi tale percezione si stabilisce naturalmente nel basso addome, come bilanciamento di due forze opposte, la gravità che spinge verso il basso e la resistenza del pavimento che invece spinge verso l’alto. Come si può aiutare un princìpiante ad affinarne la sensibilità? Ancora una volta si ricorre all’attenzione che non solo aiuta a sentire la collocazione fisica dell’equilibrio ma, se portata in ogni parte del corpo, fa scoprire che il “peso sotto” è percepibile nella parte bassa di ogni zona: un braccio o una gamba diventano insollevabili se si rispetta anche mentalmente la direzione della gravità. La solidità del corpo non corrisponde però ad una sensazione di pesantezza o ad un irrigidimento bensì esprime leggerezza e completo rilassamento. Questi aspetti si evidenziano maggiormente nel movimento, dove la percezione della gravità distribuita su tutto il corpo, rende i gesti più compatti e fa sì che qualsiasi spostamento avvenga lungo l’asse della colonna vertebrale, nel rispetto della verticalità.
Durante la pratica non c’è cosa più difficile che cedere consapevolmente alla gravità: gesti ripetuti mille volte, dopo anni, ancora rivelano tensioni che impediscono l’esatta percezione della perpendicolarità col suolo. La cosa è ancora più problematica nelle tecniche dove la direzione deve essere sentita in relazione ad altri praticanti. Nel confronto marziale il rispetto della gravità, come di ogni altro princìpio, implica sempre uno stato di apertura e di ascolto che permetta di seguire l’azione in tutti i momenti: ogni aspettativa di conclusione o di efficacia immediata si riverserà inevitabilmente nel movimento e toglierà respiro, fluidità e armonia alla tecnica. Se si agisce, invece, nel senso di ciò che già accade, il contrasto è evitato e l’attaccante viene coinvolto nell’azione compostamente (ma non meno potentemente) e diretto, senza spinte o strattoni, dolcemente, ma inesorabilmente, verso il suolo.

INVIARE Ki (Il Ki è un’energia universale, capace di infinita espansione e contrazione, che può essere diretta, ma non contenuta, dalla mente – W. Reed “Ki”Mediterranee)

Il discorso sul Ki è molto complesso poiché implica la traduzione di un aspetto dell’Aikido che è visibile solo attraverso i suoi effetti. La difficoltà di descrizione e quindi di contenibilità ha potenziato l’alone di mistero che circonda il termine Ki, includendolo spesso in una sfera esoterica. Storie ed aneddoti a volte fantasiosi parlano di emissioni di Ki a distanza, di poteri eccezionali o di sparizioni e apparizioni di grandi maestri, dimenticando che il Ki è qualcosa di molto concreto, non contenibile ma sperimentabile. Il Ki è ciò che ci fa vivere, che permea tutto il nostro corpo. Semplici espressioni del Ki sono respirare, camminare, parlare, relazionarsi, guardare, stare in piedi ovvero quegli stati in cui siamo immersi quotidianamente senza grande consapevolezza.
Il Ki non è contenibile poiché nessuna di queste azioni è il “Ki”, ma ognuna di esse lo manifesta nel modo peculiare di una personalità. L’Aikido parte dal presupposto che la mente muova il corpo, ma il Ki è una modalità di espressione più originaria che riguarda entrambi. La pratica quotidiana, partendo dalle interazioni più comuni, compie un percorso a ritroso verso la riscoperta di ciò che profondamente muove ogni individuo. E’ un processo di spoliazione (sia nel senso dell’eccesso che del difetto) e i praticanti si educano a ripulire ogni gesto, ogni occhiata, ogni relazione da quel “di più” che impedisce il rispetto del Ki nel suo aspetto di forza universale o onnipervadente. Da questa breve premessa si capisce come la percezione del Ki costituisca un campo di indagine molto vasto e ne comprenda lo studio a vari livelli. Si intuisce anche il motivo per cui facilmente lo si includa in una sfera esoterica. Nella pratica quotidiana, invece, si parte sempre da ciò di cui si dispone e che, senza toccare i luoghi della fantasia, risulta già oltremodo misterioso. Il vero miracolo è che il Ki si stia dando adesso, proprio attraverso queste parole.
Per un princìpiante l’estensione del Ki all’esterno è facilmente sperimentabile ed è rilevata attraverso semplici test: il corpo diventa immediatamente compatto se, ad esempio, si pensa di inviare Ki in tutte le direzioni ed un braccio diventa impiegabile se si immagina che il Ki non abbia limitazioni fisiche. Soprattutto all’inizio della pratica suoi veicoli privilegiati sono il punto, lo sguardo, le mani: quelle parti del corpo che segnano il confine percepibile tra interno ed esterno e da cui è più semplice visualizzarne l’irradiarsi. Gli anni di pratica insegnano poi che questa relazione non è sempre necessaria. Si può inviare Ki guardando nella direzione opposta; si può continuare a “tenere il punto” anche se l’attenzione è altrove; si possono avere le braccia conserte e riempire lo spazio di presenza. Il lungo lavoro su corpo e mente evidenzia come la qualità di emissione del Ki influisca in modo determinante sulla postura, sul movimento e sulla relazione con se stessi e con gli altri. Ciò che impedisce al Ki di fluire è, nella maggior parte dei casi, uno stato mentale e non un’impossibilità fisica: paura, rabbia, svariati bisogni di potenza, accoglienza, dimostrazione di superiorità si riversano inevitabilmente nel corpo con goffaggini, contratture, opposizioni, irrigidimenti o arretramenti ed evidenziano che il contrasto è cominciato ancor prima del contatto fisico.
Il princìpiante, avendo poca esperienza, spesso confonde Ki con irruenza o eccesso nell’azione non cogliendone l’aspetto più peculiare e meno evidente. Il Ki, infatti, nella sua piena espressione è un’emissione intensa e costante, uno stato di permeabilità assoluta che pervade tutto l’agire senza invadenze o ritrazioni improvvise. E’ assimilabile ad un’alta qualità di attenzione e ad una presenza piena di mente e corpo. Lo studio dei percorsi dell’attenzione aiuta il praticante a notare le differenze qualitative dell’invio di Ki durante tutto l’apprendimento e costituisce un buon riferimento dello stato con cui si entra in relazione con se stessi e con gli altri.
Qual è il ruolo dei praticanti nel confronto? Chi attacca? Chi subisce? Ci sono realmente vinti e vincitori? Sui tatami ognuno mette a disposizione il suo Ki e si educa a rimanere in uno stato di apertura e attenzione che possa aiutare sempre l’altro a imparare e approfondire ciò che si sta provando. Col tempo la sensibilità si affina e nelle interazioni si privilegia il contatto basato sulla sottile percezione del Ki. Nel confronto marziale, in cui è più evidente la possibilità di un contrasto, i praticanti sono invitati a diluire i movimenti, ad intuire le emissioni di Ki prima che inizi l’azione e ad evitare inutili e dannose opposizioni. Ogni attacco deve essere diretto e concluso affidandosi ad una sapienza originaria non visibile ma presente. Se l’attaccante viene accompagnato nel senso dell’invio di Ki o deviato ancor prima che se ne renda conto, emerge una potenza a volte sconcertante e il movimento assume ritmo, eleganza e globalità coinvolgendo due o più praticanti in un confronto che non ha più bisogno di bruschi interventi sul corpo. La linea di confine tra le individualità, che all’inizio sembra molto netta, comincia a sfumare e lascia il posto ad una percezione unitaria in cui i “Ki” personali si travasano continuamente l’uno nell’altro.

L’approfondimento dell’Aikido avviene nel corso degli anni. Uno degli strumenti usati per sensibilizzare i praticanti alla coordinazione mente-corpo è la ripetizione costante dei movimenti in relazione alla ciclicità, al ritmo e allo stallo. Ciò permette di indagare profondamente ogni gesto ed ogni stato mentale per riscoprire, con sorpresa, percorsi non inventati e più semplici.
Una Via di consapevolezza che coinvolge così profondamente mente e corpo è possibile solo all’interno di una pratica e implica una relazione di assoluta fiducia col maestro che è la figura di riferimento del Dojo, il quale cresce intorno al suo insegnamento. Il maestro segue sempre i praticanti, li guida e li sostiene lungo tutto il percorso dell’Aikido, attraverso i passaggi invisibili e i varchi di consapevolezza inaspettati che solo un occhio esperto può intuire.