Alla fine degli anni Ottanta l’impetuoso sviluppo economico del Giappone subisce un brusco arresto e i primi a subirne le conseguenze sono proprio gli architetti che si vedono ridurre drasticamente i budget. Un periodo di profonda recessione che per l’architetto Kengo Kuma giunge come un’occasione per recuperare la tradizione giapponese dell’abitare, che rifiuta qualsiasi istanza che mostri indifferenza nei confronti dell’ambiente esterno e critica fermamente ogni manifestazione compiaciuta.
“Mi piacerebbe costruire edifici che invece di imperare sul mondo forniscano occasione di connettere il soggetto al mondo.”
Secondo l’architetto giapponese gli edifici sono strumenti per compiere il passaggio tra il dentro e il fuori e di conseguenza non esiste l’oggetto architettonico e l’architettura misura il proprio valore in relazione con ciò che gli sta attorno. In questo modo l’involucro acquista un valore paradigmatico in quanto partecipa alla costruzione e alla definizione dello spazio.
Dal vetro alla terra cruda, dal legno alla pietra, dal cemento al bambù, dalle reti metalliche all’organza, dall’onice alla plastica. Sono questi i materiali di cui Kuma si serve per realizzare i confini labili ed eterei delle sue architetture secondo il suo motto: “Cancellare l’architettura!”
Verande, lamelle che frammentano la materia, lucernari che riflettono la luce, lastre traslucide e ancor di più la sottrazione di blocchi di pietra all’interno delle pareti; l’ uso della diagonale come direzione che determinando un flusso e un movimento introduce la dimensione temporale nell’architettura; il pannello divisorio verticale in grado di ritirarsi, di chiudersi e di scorrere, che divide ma anche unisce. Il tutto espressione di una volontà di smaterializzazione dell’involucro che si rilflette nell’ “assenza” dell’architettura giapponese che tanto impressionò gli architetti europei del Novecento: “Il vuoto ha in architettura la stessa importanza che ha il silenzio in musica.”
La sua come quella di altri architetti, su tutti Tadao Ando e Carlo Scarpa, è un’architettura che rallentando il respiro e rendendolo più profondo acquieta la mente e apre alla dimensione metafisica del reale, rifuggendo dall’oblio e da quel senso di spaesatezza e indifferenza che colpisce molti degli autori contemporanei.
Profilo: Nato a Kanagawa, Giappone nel 1954. Dopo essersi laureato nel 1979 alla Graduate School of Engineering dell’università di Tokyo frequenta la Columbia University tra il 1985 e il 1986. Tornato in Giappone apre prima lo Spatial Design Studio e nel 1990 il proprio ufficio, Kengo Kuma & Associates.
Bibliografia:
Kengo Kuma, a cura di Marco Casamonti, Motta Architettura, Milano 2007.
Antiobject-The Dissolution and The Disintegration of Architecture, Kengo Kuma, Chikuma Publishing, Tokyo 2000.
Segnali:
http://images.google.it/images?hl=it&q=kengo+kuma (foto)
http://www.iuav.it progetto della Bamboo House, per gli addetti ai lavori (PDF)