di Claire Petitmengin (http://claire.petitmengin.free.fr/topic2/jcs-source.pdf)
INT (Groupe des Ecoles de Télécommunications) et CREA (Ecole Polytechnique/CNRS), Paris. E-mail: claire.petitmengin@shs.polytechnique.fr
Pubblicato nel Journal of Consciousness Studies , vol. 14, n° 3 (2007), pp. 54-82
Traduzione a cura di Fabio Negro Centro Studi ASIA
Riassunto
L’obiettivo di questo articolo è quello di studiare una dimensione profondamente ante-riflessa della nostra esperienza soggettiva. Questa dimensione è gestuale e ritmica, ha precise sottomodalità sensoriali transmodali, e sembra giocare un ruolo essenziale nel processo di emergenza di tutto il pensiero e del capire. Nella prima parte dell’articolo, attraverso esempi, tentiamo di attirare l’attenzione del lettore verso questa dimensione nella propria esperienza soggettiva. Nella seconda parte, proviamo a descrivere il processo interiore del divenire consapevoli di essa a spiegarne le difficoltà . Quindi descriviamo le caratteristiche strutturali di questa dimensione, e i differenti tipi di “gesti interiori” che ci permettono di connetterci con essa. Infine, formuliamo un’ipotesi genetica circa il ruolo di questa dimensione nella cognizione, sulla cui base suggeriamo alcuni indirizzi di ricerca nel campo delle neuroscienze, dell’educazione e nel campo esistenziale.
Introduzione
L’obiettivo di questo articolo è quello di esplorare uno strato profondo della nostra esperienza soggettiva, che sembra giocare un ruolo essenziale nell’emergenza di tutto il pensiero e del capire. Nella nostra cultura occidentale questa dimensione è stata riconosciuta ed esplorata solo da un ristretto gruppo di ricercatori, come William James, che l’hanno chiamata frangia [1] della coscienza. Questa dimensione della nostra esperienza può essere considerata “profonda” per molte ragioni. Primo, perché essa è generalmente ante-riflessa [2]: nonostante essa ci accompagni costantemente, sono necessari particolari circostanze e/o un addestramento interiore per divenirne consapevoli. Secondo, perchè lontana dall’essere concettuale e astratta, essa è concreta e incorpata. In ultimo, perché questa dimensione, essendo pre-concettuale, pre-discorsiva, ed essendo prima della separazione in distinte modalità sensoriali, sembra essere situata alla sorgente dei nostri pensieri.
Il nostro metodo è pratico ed empirico: non si tratta di chiederci in senso astratto circa le possibilità di questa dimensione esperienziale, o delle possibilità della sua descrizione, ma di riflettere su ciò che sta alla base dell’esperienza di questa dimensione e dell’esperienza della sua descrizione. Invitiamo il lettore ad avanzare lungo un cammino insicuro, anzichè viaggiare su di una mappa già conosciuta. Il nostro studio conta su: 1) l’analisi di descrizioni in “seconda persona” [3], raccolte attraverso l’uso di interviste che mettono l’intervistato nelle condizioni di divenire consapevole delle proprie esperienze soggettive e di descriverle con precisione [4]; 2) le testimonianze autobiografiche di autori (scrittori, artisti e traduttori), che hanno acquisito conoscenza di questa dimensione dalla loro propria esperienza vissuta; 3) il lavoro di ricercatori che hanno studiato esplicitamente questa dimensione e la sua funzione sia in terapia (Eugene Gendlin), o nello sviluppo del bambino (Daniel Stern); 4) risultati di ricerche che portano una conferma “in terza persona” dell’esistenza di questa dimensione e delle sue caratteristiche.
Nella prima parte dell’articolo, tentiamo di attirare l’attenzione del lettore verso questa dimensione nella propria esperienza soggettiva, usando differenti esempi che ci aiutino a delineare questa dimensione “sentita”. Nella seconda parte, descriviamo il processo interiore del divenire consapevoli di questa dimensione e cercheremo di spiegarne le difficoltà. Poi descriviamo le caratteristiche strutturali di questa dimensione e i differenti tipi di “gesti interiori” che ci permettono di entrare in contatto con essa. In ultimo, formuliamo un’ipotesi genetica circa il ruolo di questa dimensione nella cognizione, sulla cui base suggeriamo alcuni indirizzi di ricerca nel campo delle neuroscienze, dell’educazione e nel campo esistenziale. Dobbiamo sottolineare il fatto che non presentiamo conclusioni, ma una rigorosa documentazione di fatti (una euristica). Si tratta semplicemente di un primo passo nell’esplorazione di un vasto campo di cui, fino ad ora, non c’eravamo ancora dotati dei mezzi per indagarlo.
1. Esempi della dimensione sorgiva
“La brughiera non mi ha mai commosso tanto e quasi ghermito come di recente allorchè ho trovato nella tua cara lettera questi tre rametti. (…) Ma che meraviglia questo profumo. Ho l’impressione che mai la terra, la terra matura, si lasci inspirare con un unico odore; un odore che non è meno intenso di quello del mare; aspro, là dove quasi diviene sapore, e più dolce del miele quando si penserebbe di vederlo cozzare contro i primi toni. Contiene in sé profondità, oscurità, tomba quasi e pure ancora vento, catrame, trementina e tè del Cylon. Scarno e grave come l’odore di un frate implorante, eppure resinoso e vigoroso come incensi preziosi” (Rilke, Lettere su Cézanne, p. 31)
Noi suggeriamo al lettore, mentre legge le seguenti brevi testimonianze, estratti di interviste o suggestioni di esperienze, di dirigere l’attenzione all’interno, verso la sua propria esperienza, allo scopo di percepire questa dimensione dell’esperienza all’interno di sé.
– Iniziamo con l’esperienza d’incontro con un’opera d’arte. Per esempio, immagina di essere in un museo che conosci, di fronte a un dipinto che ti piace molto. Chiudi gli occhi per un po’ di tempo e contempla il dipinto come se fosse di fronte a te, dirigendo contemporaneamente la tua attenzione alla sensazione che questo dipinto genera in te. E’ una sensazione indistinta, diffusa, difficile da descrivere ma ciononostante intensa e specifica (sarebbe molto diversa se tu stessi immaginando un altro dipinto).
La stessa esperienza potrebbe essere ottenuta evocando per esempio un poema, o anche una novella, il cui solo titolo evoca un mondo complesso di fugaci impressioni, che sono sfuocate, ma piene di significato.
– La musica sembra essere una via privilegiata di contatto con questa dimensione della nostra esperienza. Un pezzo musicale o una canzone destano e fanno vibrare una zona di noi stessi che è difficile situare, intima e diffusa, senza limiti precisi. In tali momenti possiamo avere l’impressione, per esempio se siamo stati assorbiti per lungo tempo in un lavoro concettuale, che questa zona sia intorpidita, della cui esistenza ci siamo dimenticati. Ma qualsiasi tonalità prevalga (esplosiva, nostalgica etc.), rinnovare il contatto con questa dimensione ci da una sorta di sicurezza, una sensazione di essere unificati, di essere un tutto.
– Possiamo trovare questa dimensione anche nella primissima fase dell’inaspettata emergenza di un ricordo. Talvolta, la memoria emerge lentamente, e prende una precisa forma: la consueta infinitesimale fase della sua emergenza si stabilizza per alcuni istanti, talvolta anche per alcune ore, e ci lascia del tempo per dirigere la nostra attenzione verso questa strana esperienza, così sottilmente descritta da Proust in La strada di Swann. Prima di essere in grado di riconoscere un ricordo e nominarlo, prima dell’emergenza di un’immagine, di suoni ed emozioni che siano precisi e identificabili, veniamo sopraffatti da una sensazione che non appartiene a uno specifico registro sensoriale, ma che è tuttavia specifica e intensa, piena di fisicità e di densità vissuta [5]. Come Gusdorf ha scritto (1950, p.193), “il valore spesso ci viene dato prima della rappresentazione”.
– L’impressione interiore, globale e complessa che sentiamo in presenza di un’altra persona, o semplicemente quando pensiamo a questa persona, appartiene alla stessa dimensione della nostra esperienza. E’ spesso più facile divenire consapevoli di questa fine impressione quando incontriamo la persona per la prima volta, o quando non possiamo vederla ma solo sentire la sua presenza, per esempio durante una passeggiata notturna. La voce di una persona, sia che la vediamo o no, evoca pure una particolare “sensazione significativa” [6].
– Come molti psicoterapeuti hanno evidenziato, è a questo livello che la terapia viene attuata. Infatti un paziente può capire il suo problema concettualmente in alcune ore, ed essere capace di spiegarlo, senza essere, allo stesso tempo, liberato da esso. La liberazione avviene durante un processo d’esperienza, che è generalmente molto più lungo, e consiste nel divenire consapevoli della “sensazione significativa” del problema, allo scopo di trasformarla gradualmente. La dimensione sentita del problema gradualmente diverrà rilassata, espansa e diluita. Si tratta di un processo di comprensione e di trasformazione quasi-corporea, che assomiglia più a un’opera di distillazione interna, piuttosto che a un arrangiamento di concetti. L’espressione linguistica gioca un ruolo molto importante in questo processo, ma solo nella misura in cui essa contribuisce a questa alchimia, a questa profonda trasformazione del materiale concreto della nostra esperienza. E’ interessante notare che anche molte tecniche di meditazione operano, con mezzi differenti, su questo materiale concreto: il loro unico stato obiettivo per trasformarlo in un modo sempre più profondo e più radicale [7].
– Quando iniziamo a distinguere questa dimensione della nostra esperienza, subito notiamo che essa ci accompagna costantemente. Per esempio, se tu dovessi riassumere proprio adesso in due frasi le tre pagine che hai appena letto, sicuramente avresti bisogno di accedere alla “sensazione significativa” corrispondente alla tua comprensione di queste pagine. Non si tratta solo di una sensazione di approvazione, o di disapprovazione e disagio, ma una impressione globale, allo stesso tempo indistinta, diffusa, e specifica. Potrebbe essere descritta come una sorta di panorama interiore, o come un particolare sapore. E se non hai alcuna sensazione significativa, non sei in grado di dire alcunché di significativo o di coerente. Questo è, per esempio, il caso di un oratore che ha “perso il filo del discorso” di ciò che voleva dire: egli non riesce più a continuare a parlare. Egli tenta di recuperare il filo dirigendo la sua attenzione all’interno di sé, verso la sensazione di ciò che voleva dire, così che le parole possano sorgere di nuovo.
Ma forse è proprio quando non troviamo le parole, che diveniamo più consapevoli della corrispondente sensazione significativa. Per esempio, alcuni minuti fa, stavo cercando la parola “distillare”. Di essa avevo un senso interiore e globale, molto difficile da descrivere, e allo stesso tempo molto preciso, perché quando una parola con un significato nascosto mi veniva in mente (“fermenta”), immediatamente la rigettavo [8].
– Troviamo questa dimensione anche nel processo di emergenza di un’idea, per esempio nella ricerca scientifica: molto spesso una nuova idea, prima di prendere una forma precisa e comunicabile, si mostra inizialmente sulla superficie della coscienza come una indistinta e diffusa sensazione, un presentimento, o una direzione del pensiero, una linea interiore di forza che silentemente guida la ricerca, come osservò una volta Einstein:
“Per tutti questi anni c’è stata una sensazione di direzionalità, di star conducendo dritto verso qualcosa di concreto. E’ naturalmente difficile esprimere in parole questa sensazione. Ma c’è l’avevo in una sorta di sovraimmagine, e in un certo modo, visivamente.” [9]
Nota che questa “sensazione di direzionalità” non è statica e fissa, ma si trasforma nel tempo come risultato di incontri, discussioni e letture del ricercatore. Si tratta del materiale vissuto (sebbene spesso ante-riflesso) del suo lavoro. Per Arnold, un astrofisico, si tratta di una “sensazione di penetrazione” della stessa natura di ciò che è usato come criterio interno per valutare la rilevanza di una nuova idea che sta emergendo:
“Non si tratta di una sensazione di coerenza, ma di una sensazione di penetrazione: l’impressione che il soggetto sta per essere raggiunto, che l’idea è giusta nel senso che… è difficile descrivere, ma c’è questa impressione di andare oltre. (…) Una sensazione di profondità e immensità, che c’era qualcosa, un nuovo campo, che si stava aprendo, che trascendeva la domanda che mi stavo facendo, che stavo incontrando qualcosa di notevolmente più vasto.” [10]
Stranamente, gli autori che si sono riferiti direttamente a questa dimensione, che l’hanno nominata e hanno tentato di descriverla, sono pochi. Nella storia del pensiero occidentale probabilmente è William James colui che identificò questa dimensione con grande precisione. Egli ha attirato la nostra attenzione, in molte occasioni, verso l’istante in cui, prima della comparsa e dello sviluppo, un pensiero si sta allestendo, ancora inarticolato, senza una determinata forma sensoriale, in quello che egli ha nominato “frangia” della coscienza. “Si può ammettere che un buon terzo della nostra vita psichica consiste di queste rapide intuizioni prospettiche e premonitorie, di schemi di pensiero non ancora articolati. (…) Insomma, quello su cui mi preme richiamare l’attenzione è la reintegrazione del vago al suo posto.” (James, 1890, pp. 254-255)
Recentemente, questa dimensione inarticolata è stata anche identificata dai neurobiologi che hanno studiato le origini corporee del pensiero e delle emozioni, come Francisco Varela (1991) e Antonio Damasio (1999). Il secondo chiama queste sensazioni transeunti (che egli considera come l’origine della coscienza di sé) “sentimenti di fondo”, perché nonostante talvolta essi siano intensi, non sono solitamente presenti in primo piano nella mente.
Tra i psicoterapeuti che hanno incontrato questa dimensione e lavorato su di essa, pochi ne hanno dato una rigorosa descrizione fenomenologia [11]. Comunque, il lavoro pionieristico di Eugene Gendlin è la prova che è possibile creare concetti e parole per riferirci a questa dimensione, e studiare i differenti tipi di relazioni funzionali esistenti tra una sensazione significativa e la sua simbolizzazione [12]. Nello stesso spirito, vorremmo mostrare in questo articolo che nonostante sia indistinta e diffusa, questa dimensione possiede caratteristiche strutturali differenti, e che ne otteniamo l’accesso attraverso l’uso di specifici gesti interiori, che possono essere descritti precisamente.
2. Come si diviene consapevoli della dimensione sorgiva?
La dimensione esperienziale, che va dall’incontro con un’opera d’arte all’emergenza di un’idea astratta, sembra esser alla base di molti processi cognitivi. Ma per la maggior parte del tempo, non ne abbiamo coscienza riflessa. Particolari circostanze, come la mediazione di specifiche tecniche intervistiche [13], e/o una speciale preparazione [14], sono necessarie per divenire consapevoli di essa. I principali “gesti interiori” [15] che dobbiamo eseguire sono i seguenti.
Stabilizzare l’attenzione
Per prima cosa dobbiamo imparare a stabilizzare la nostra attenzione. Così come è difficile focalizzare la propria attenzione per più di alcuni secondi su un oggetto esterno stabile, ancora più difficile è concentrarsi su un oggetto interno in movimento, con contorni indefiniti, come per esempio una sensazione significativa.
Rivolgere l’attenzione dal “che cosa” al “come”
Dobbiamo anche distogliere la nostra attenzione dal contenuto d’esperienza, il “che cosa”, che abitualmente l’assorbe completamente verso i modi di apparizione di questo contenuto, “il come”. Per esempio, mentre sto scrivendo queste righe, io sono completamente assorbita dal contenuto delle idee che voglio esprimere, ma ho molta poca consapevolezza dei processi interni che mi permettono di raggiungere questo obiettivo. Per guadagnare questa consapevolezza, devo ri-dirigere la mia attenzione.
Inizialmente divento consapevole del contatto delle mia dita con la penna, delle tensioni nella schiena, e poi di una rapida successione di immagini, giudizi e confronti e sottili emozioni, etc., che costituiscono la mia attività dello scrivere, e che abitualmente rimangono nascoste perché la mia attenzione è assorbita dal contenuto dello scritto. E allo stesso tempo mi rendo conto che alcuni istanti prima non ero consapevole del mio modo di scrivere, che una parte significativa della mia attività mi stava sfuggendo. Ero consapevole di star scrivendo, ma in primo grado, “in azione” (come Piaget ha scritto (1974)), in un modo “non-riflesso” o “ante-riflesso” (per usare il vocabolario di Husserl (1913), più tardi adottato da Sartre (1936 e 1938) e da Ricoeur (1949)). [16]
Discendere attraverso i differenti strati dell’esperienza
L’esplorazione della dimensione ante-riflessa della nostra esperienza rivela “differenti strati”, e la consapevolezza di ogni strato successivo diviene progressivamente più difficile. La dimensione sentita che stiamo esplorando è uno strato ante-riflesso molto profondo, che per la maggior parte del tempo è nascosto dagli strati superiori (discorsivo, sensoriale ed emozionale). Per esempio, alla presenza di un’altra persona, la percezione visiva che abbiamo della sua espressione facciale, dei suoi movimenti, lo scambio verbale da essa stimolato, lo stato emozionale da essa generato in noi, e così via, occupano la nostra attenzione, stendendo un velo sulla più diffusa sensazione che esperiamo in sua presenza, la quale è piuttosto specifica (molto differente da una persona a un’altra). Similmente, quando contempliamo un paesaggio, il fascino per lo spettacolo visivo maschera una sensazione più sottile. O ritornando all’esperienza della scrittura, il livello discorsivo ricopre il “filo” pre-discorsivo che seguo nello scrivere. Curiosamente, la parte più immediata della nostra esperienza, più vicina a noi stessi, e la più intima, è anche la più difficile da raggiungere.
Adottare uno specifico “atteggiamento d’attenzione”
Per divenire consapevoli di questa profonda dimensione, è necessario un tipo speciale di “atteggiamento d’attenzione” che differisce dal modo abituale di attenzione per quanto riguarda il suo scopo che è l’assenza di una modalità sensoriale definita e per il suo carattere ricettivo.
Questo modo di attenzione non è connesso a uno specifico registro sensoriale. Una citazione da James lo rende più chiaro:
“Supponiamo che tre persone ci dicano in successione: ‘Aspetta!’ ‘Ascolta!’ ‘Guarda!’ La nostra coscienza è messa in tre atteggiamenti di attesa del tutto diversi, sebbene in alcuno di questi tre casi non ci sia di fronte ad essa alcun oggetto definito. Tolti i diversi atteggiamenti corporei in atto, tolte pure le immagini che si riflettono nelle tre parole, che naturalmente sono diverse, probabilmente nessuno negherà l’esistenza di una residua affezione consapevole, un senso di direzione da cui è in procinto di formarsi una impressione, sebbene non ci sia ancora alcuna impressione positiva. Frattanto per gli stati psichici in questione non abbiamo altri nomi che ascolta, guarda, e aspetta.” (James, 1890, p. 251)
– Il processo del divenire consapevoli della dimensione sorgiva richiede inoltre un “atteggiamento di aspettativa” specifico ma non determinato sensorialmente, nè uditivamente, nè visivamente, nè in modo tattile.
Molti degli intervistati hanno descritto questa apertura d’attenzione come se fosse legata a uno spostamento o slittamento della zona che normalmente viene percepita come il centro dell’attenzione, dalla testa al corpo.
– Diversamente dall’attenzione focalizzata, che è concentrata su un contenuto particolare, questo modo d’attenzione è panoramico, periferico, “fluttuante”, “olistico”, “laterale” (questi sono gli aggettivi che più comunemente vengono usati per descriverlo). Questa attenzione diffusa è comunque molto fine, e sensibile alle più sottili discontinuità.
– Questa modalità d’attenzione è descritta anche come uno stato ricettivo, ma non-volontario: non si tratta di allungarsi verso la dimensione sorgiva per afferrarla e fissarla, ma di rendersi disponibili verso di essa, di accoglierla, di esserne impregnati, o di sintonizzarsi con essa. Piuttosto è come quando si guarda un’immagine in tre dimensioni: per permettere che essa appaia in tutta la sua profondità e trasparenza, niente deve essere forzato; semplicemente bisogna mettersi nella giusta posizione di ricettività e poi aspettare. Uno degli intervistati descrive questa attenzione ricettiva con queste parole:
“Improvvisamente, ho sentito ciò che in quel momento c’era da vedere. Non nel senso di lanciare il tuo sguardo fisso verso qualcosa, di manipolarla, di tenerla stretta, ma realmente lasciare che la cosa lasci il suo segno in te stessa. Tu sei completamente passiva, e lasci che la tonalità, il panorama, venga verso di te. Non devi cercarla, devi lasciare che si raccolga. Tu sei la, e l’accogli. E hai l’impressione che la tonalità o il panorama si stampi dentro di te” (Monique)
Quando iniziamo a divenire consapevoli della dimensione sorgiva della nostra esperienza e sappiamo come sintonizzare la nostra attenzione su questa lunghezza d’onda, realizziamo che essa è sempre presente e che possiamo direzionare la nostra attenzione verso di essa in ogni momento. La identifichiamo sempre più rapidamente in tutti i campi della nostra esistenza. Per essere più precisi, identifichiamo molte differenti variazioni di questa dimensione, che tuttavia ha delle caratteristiche comuni.
3. Caratteristiche strutturali della dimensione sorgiva
Non dobbiamo confondere una sensazione significativa con lo “sfondo” (“orizzonte”, “margine”) di una percezione: quando focalizziamo la nostra attenzione su di un dato oggetto, distinguiamo allo stesso tempo in una maniera vaga lo sfondo – forme indistinte e tonalità – su cui esso poggia. E’ sufficiente dirigere la nostra attenzione su un altro elemento in questo sfondo per riconoscerlo distintamente, anch’esso circondato dal suo proprio sfondo. Al contrario una sensazione significativa rimane vaga anche quando si dirige la propria attenzione su di essa.
3.1 Caratteristiche di scala
– Grado di precisione
Una sensazione significativa è generalmente indistinta e vaga. Ma indistinto e vago non significa fugace. Anche se generalmente associate nella nostra esperienza visiva – la percezione di un oggetto che attraversa velocemente il nostro campo visivo è spesso vaga – queste due caratteristiche (l’indistinzione e la fugacità) sono dissociate nel caso della sensazione significativa: questa può durare per un lungo periodo senza perdere il suo carattere di vaghezza (Mangan, 2001, p.27).
– Grado di intensità
Anche se vaga, una sensazione significativa può essere molto intensa. E anche se queste due caratteristiche sono spesso dissociate nella nostra esperienza, nel caso della sensazione significativa possono essere associate.
– Grado di specificità
Anche se vaga, una sensazione significativa è generalmente specifica, per es. peculiare a una situazione particolare (non è possibile confonderla con un’altra). Come abbiamo già sottolineato, la sensazione significativa che ho di una persona è piuttosto differente da quella di un’altra, e la sensazione significativa quando cerco una parola per esprimere un’idea è pure alquanto differente da un’idea a un’altra:
“Non si è mai chiesto il lettore quale specie di fatto mentale è la sua intenzione di dire qualcosa prima di averla detta? E’ un’intenzione completamente definita, distinta da tutte le altre intenzioni, uno stato di coscienza assolutamente distinto; e tuttavia quanta parte di essa consiste di immagini sensoriali definite, siano parole o cose? Press’a poco nulla!” (James, 1890, p.253)
Comunque, alcune sensazioni significative come i sentimenti di giusto o sbagliato, la sensazione di capire, o il sentimento di familiarità, sembrano meno specifici, in quanto una simile sensazione può ricorrere in un gran numero di circostanze. Il messaggio espresso è ciononostante molto preciso: “incontrato prima”, “poca fa” (Mangan, 2001, p.10). Ulteriori indagini in prima persona ci permetterebbero di verificare se queste sensazioni significative siano realmente generiche, o se costituiscano gruppi di sensazioni significative simili con sottili variazioni da un caso all’altro.
3.2 Modalità sensoriali
L’analisi delle descrizioni che abbiamo raccolto dimostrano che il vocabolario usato per descrivere il “ tessuto” delle sensazioni significative spesso chiama in causa simultaneamente molti registri sensoriali: quello visivo (forma, ombra, vaghezza, etc.), quello cinesico e tattile (vibrazione, pulsazione, pressione, densità, pesantezza, struttura, temperatura, etc.), quello uditivo (eco, risonanza, ritmo, etc.), e anche quello olfattivo o gustativo.
Descrizioni di sensazioni significative molto ben conosciute confermano questo carattere multi-sensoriale. Per esempio, la “sensazione di direzionalità” che portò Einstein alla teoria della relatività sembra essere sia cinesica che visiva. La strategia di composizione di Mozart sembrava mescolare i registri, uditivo, cinesico, visivo e persino quello gustativo (Hocquard, 1958 e Dilts, 1994). Le caratteristiche multisensoriali assieme alle sottili sensazioni interne che il psicoanalista Theodor Reik sente con il suo “terzo orecchio”, talvolta descritte come visive (“ombre psichiche sfumate e sfuggenti”), uditive (“mezzi-toni quasi impercettibili), e tattili e cinesiche (“piccole incoerenze, leggere irregolarità, non visibili ma percettibili al tatto come quando una mano scivola con attenzione e gentilmente su un tessuto”, “minuscole variazioni nascoste”) (Reik, 1948, pp. 289, 183, e 438).
Questa assenza di una specifica modalità sensoriale è stata chiamata “non-sensoriale” poiché “qualsiasi esperienza che avviene in più di una modalità sensoriale è non-sensoriale” (Mangan, 2001, p. 7).
Dal nostro punto di vista questo termine è inappropriato, perché nonostante la percezione in sé non possa essere riferita a uno dei cinque sensi in particolare, essa è sentita nel corpo, e talvolta molto intensamente (Woody, 2001, p. 2). Come possiamo nominare questa caratteristica dell’esperienza? Il termine “sinestesica” (composto dalla simultaneità di sensazioni di modalità diverse) non sembra appropriato al nostro caso, in quanto in una sinestesia [17]: 1) Le modalità sensoriali percepite simultaneamente sono identificate precisamente, 2) ognuna di queste sensazioni è molto precisa (Harrison e Baron-Cohen, 2001), mentre una sensazione significativa è non solo indistinta e vaga, ma non è riferibile a un particolare registro sensoriale. E inoltre essa ha qualcosa di un’immagine o di un suono, poiché le descrizioni fatte con termini presi da questi diversi registri non sembrano essere totalmente incongruenti.
Una precisa osservazione mostra che una sensazione significativa ha precise sottomodalità sensoriali – essenzialmente di forma, intensità, ritmo e movimento – che hanno le caratteristiche comuni di essere “transmodali”, per esempio esse non sono specifiche di un senso particolare, ma possono essere trasposte da un senso a un altro (al contrario per esempio della temperatura e della materia che sono specifiche del senso del tatto, o il volume della musica che è specifico del senso dell’udito). Platone [18] e Aristotele [19] avevano già identificato queste caratteristiche, chiamandole “proprietà comuni”.
Più recentemente, questa dimensione transmodale dell’esperienza è stata messa in evidenza dal lavoro altamente innovativo prodotto da Daniel Stern sull’esperienza soggettiva dei bambini (1985, 1989). Da osservazioni molto dettagliate dell’interazione madre/bambino, completate da interviste “micro-analitiche” con le madri, Stern conclude che il mondo esperito dal bambino non è un mondo di immagini, suoni e sensazioni tattili, ma un mondo di forme, movimenti, intensità e ritmi, in altre parole un mondo di qualità transmodali, che può essere trasposto da una modalità a un’altra, e che egli chiama affetti vitali (distinto da quello categoriale (o discreto), costituito da affetti come la felicità, malinconia, paura, rabbia, nausea, sorpresa, e vergogna) [20].
3.3 Caratteristiche Dinamiche
– Variazioni temporali
Una sensazione significativa può essere estremamente fugace o al contrario possedere una certa persistenza [21], come il sentimento esperito contemplando un dipinto, o che accompagna la lenta emergenza di un ricordo, o la “sensazione di direzionalità” di Einstein, che guidò la sua ricerca per anni.
– Carattere gestuale e ritmico
Una “sensazione significativa”, un “affetto vitale”, non sono fissi e statici, ma hanno un dinamica interna, un sottile “movimento interiore”. Si tratta per esempio della specifica energia che emana da Jean quando si alza dalla sua sedia, o quando mi stringe la mano, sottilmente ma chiaramente differente dal modo con cui Nathalie si alza, o stringe la mano. Si tratta della dinamica specifica che emana dalla forma, dall’inclinazione, dallo spessore e dal ritmo dello scrivere, molto differente da una persona a un’altra. Si tratta della dimensione sottilmente dinamica dell’esperienza (e non affetti categoriali) che il compositore, il coreografo, il poeta o il pittore tenta di esprimere. “Forme di crescita e di attenuazione, di flusso e di collocazione, conflitto e risoluzione, velocità, sospensione, straordinaria eccitazione, calma, sottile attivazione e intervalli sognanti.” Questo è il modo con cui Susan Langer (1953, p. 27) ha descritto questi sottili movimenti, la vera essenza della nostra esperienza (che ella ha chiamato “vita sentita”), secondo lei non accessibile per mezzo dell’introspezione, ma attraverso un lavoro d’arte, che è la diretta riflessione di esso.
E’ importante tracciare una distinzione tra i “micro-movimenti”, trama della dimensione sentita, e i “gesti” che ci permettono di divenirne consapevoli. I “gesti” sono attivi, i micro-movimenti sono passivi. La funzione dei primi è quella di metterci nella disposizione interiore richiesta per divenire consapevoli dell’emergenza passiva dei secondi [22].
Come Stern mostra, quel che viene esperito dal bambino è questo mondo di modificazioni di intensità e di ritmo, sottili e dinamiche: egli non percepisce gli atti come tali, come gli adulti fanno (allungare la mano per prendere il biberon, distendere il tovagliolino), ma gli affetti vitali legati a questi atti (come la madre lo tiene, come prende la bottiglia, piega il tovagliolino, pettina i suoi capelli o i propri). Questi ritmi inoltre permettono la “sincronizzazione affettiva” tra la madre e il bambino [23]. In ogni momento, in una modalità ante-riflessa, la madre e il bambino sincronizzano i loro ritmi interni: per esempio, una madre replica al balbettio del suo bambino con una carezza della stessa intensità e dello stesso ritmo. Questa sincronizzazione ritmica, che permette di mettere in risonanza o di accordare due mondi interiori, è la base della affettività intersoggettiva.
Le ricerche di Stern lo hanno portato alla conclusione che il mondo dinamico e transmodale esperito dal bambino piccolo non corrisponde a uno stadio del suo sviluppo in seguito abbandonato per far posto ad altre modalità di funzionamento. Al contrario, questo strato dell’esperienza rimane attivo per tutta la vita [24], anche se generalmente al di sotto della soglia della consapevolezza. Al di sotto delle percezioni, emozioni, pensieri e azioni esso costituisce la nostra esperienza cosciente, questo strato silente è sempre con noi, è la vera e propria sostanza della nostra esperienza.
“Questo mondo globale soggettivo frutto di una organizzazione emergente è e rimane il campo fondamentale della soggettività umana. Esso opera al di fuori della consapevolezza, come una matrice esperienziale da cui sorgono pensieri, forme percepite, atti identificabili e sentimenti verbalizzati. Esso, inoltre, è all’origine delle valutazioni affettive che noi diamo degli eventi che si producono. E infine, costituisce il serbatoio da cui scaturisce ogni esperienza creativa”. (Stern, 1987, p. 82)
Persino il pensiero astratto sembra essere ancorato a questa dimensione transmodale e dinamica. Come abbiamo visto, un’idea spesso emerge con una direzionalità, una forza, un ritmo, un tema, come un movimento interiore che diviene sempre più preciso. Anche quando l’idea è stata formalizzata, questo movimento interiore esiste ancora, è proprio li che quest’idea trova significato e contenuto. Lise (un epistemologo) descrive nel seguente modo il movimento essenziale associato all’idea che è in sviluppo:
“Questa idea, se vuoi… ha la consistenza, la tessitura, il movimento di una apertura . Ho notato che spesso mi ritrovo a fare questo gesto (dispiega le dita) per esprimere la mia idea, perché è proprio così, è qualcosa di simile. Questo significa: c’è qualcosa che pfff… che si sta dispiegando, che si sta aprendo.”
Tale descrizione è una conferma in “prima persona” dell’ipotesi della base corporea del pensiero astratto, ipotesi formulata indipendentemente ma in un modo molto simile da Lakoff e Johnson, e più di mezzo secolo fa, dall’antropologo francese Marcel Jousse [25]. Secondo questa ipotesi, le nostre idee astratte (persino quelle tanto essenziali come quelle di soggetto, tempo e causalità) sono nient’altro che la trasposizione metaforica di gesti concreti, e acquistano significato solo attraverso i gesti che stanno alla base di esse. “Quelle che tu chiami ‘idee astratte’ sono semplici trasposizioni di gesti in parole di cui hai dimenticato le radici. (…) Noi pensiamo attraverso ogni fibra del nostro corpo” (Jousse, 1938). Per Lakoff e Johnson, questi gesti concreti sono schemi sensori-motori transmodali legati alla struttura del nostro corpo: per esempio, lo schema origine-percorso-meta, equilibrio, interno-esterno, immagine-sfondo, contenitore-contenuto, centro-periferia… Per Jousse, questi gesti sono i movimenti, per esempio il ritmo dell’universo, che noi incorporiamo, e in seguito rimettiamo in scena lungo la nostra vita: il volo di un uccello, la corsa di un animale, il movimento del fogliame, della luce e dell’acqua… movimenti di una diversità infinita, che spesso sono molto sottili e a mala pena percepibili. Per Jousse, così come per Lakoff e Johnson, è proprio in questi gesti, pre-discorsivi, strutture incorpate della nostra esperienza, che troviamo significato: non solo linguistico, ma significato in un senso più ampio [26].
Infine, aggiungiamo i gesti co-verbali, che spesso accompagnano l’espressione verbale, una sorta di finestra aperta su questa dimensione gestuale transmodale. I gesti di equilibrio, i gesti ritmici, di espansione, circolari, del fluire, del tagliare, dello zampillare, dell’avvitare, del movimento nel o fuori del piano etc. sono la diretta espressione di gesti interni che stanno alla base delle idee di chi parla. Un gran numero di osservazioni in “terza persona” confermano questa ipotesi. Per esempio, le osservazioni che i gesti precedono la verbalizzazione del referente (Calbris, 2001), e che più elaborato e complesso è il messaggio verbale, più intensa è l’attività gestuale che lo accompagna (Rimè, 1984 e McNeil, 1992), confermano che i gesti co-verbali sono la diretta espressione di un significato gestuale pre-discorsivo. Il fatto che i gesti avvengano persino quando l’ascoltatore non li possa vedere (Rimé, 1984 e Iverson & Golden-Meadow, 1998) mostra che la loro funzione non è quella di trasmettere informazione a un interlocutore, ma che essi sono legati a un processo interno di accesso al significato. Il fatto che anche i ciechi compiano dei gesti (Iverson & Golden-Meadow, 1998) conferma che i gesti co-verbali non sono frutto dell’imitazione di gesti esterni, ma l’espressione di atti interni. Inoltre tutto questo conferma che questa esperienza interna non è visiva, ma sorge da una esperienza transmodale più profonda, più fondamentale, a cui le persone cieche hanno accesso
3.4 Caratteristiche “Spaziali”
– Perdita del confine interno/esterno
Una sensazione significativa ha un precisa locazione all’interno del corpo (petto, stomaco, testa). Ma la maggior parte delle volte, la transmodalità dell’esperienza è accompagnata da una certa permeabilità del confine normalmente sentito tra gli spazi interni ed esterni. Talvolta abbiamo questo tipo di esperienza quando contempliamo un dipinto: esso genera in noi un mondo di impressioni fugaci di intensità, contrasto e risonanza che non sono nè oggettive, nè soggettive. Questa esperienza avviene anche quando si ascolta della musica:
“Sento la musica in uno spazio che non è nè lo spazio corporeo nè extra-corporeo, una qualità differente di spazio. Non c’è separazione tra ciò che è all’esterno di me e ciò che all’interno.” (Gérôme)
Tale sensazione di permeabilità tra il mondo interno ed esterno, che sembra essere legato a una sorta di sintonizzazione ritmica tra di essi, accade anche nelle nostre relazioni interpersonali. Per esempio, essa è stata descritta da molti psicoterapeuti come una caratteristica di alcuni momenti privilegiati durante la cura terapeutica:
“E’ come se fossi espanso non solo nella persona, ma nel volume dell’aria che c’è nella stanza. (…) Si ha l’impressione di aver creato un’unità tra il paziente, sé e lo spazio in cui ci troviamo.” (Alain, psicoterapeuta)
“E’ come se d’un tratto stessimo respirando assieme. Come se, a un certo momento, ritmicamente, fossimo una sola e unica persona.” (Silvie, psicanalista)
Questa sensazione di permeabilità e sincronizzazione può essere sentita anche a contatto con la natura:
“In tali momenti, non ci sono più barriere tra me e le cose. E’ come se non avessi più la pelle. Per esempio, quel pioppo lassù, è come se qualcosa si irradiasse da esso, un fremito, una luce diffusa, un suono dimesso e delicato, che viene dritto verso di me e mi tocca in un modo indescrivibile. Ogni cosa diviene incredibilmente toccante. E’ come se lo spazio tra le cose divenisse più denso, più luminoso, più vibrante, e come se non ci fosse nient’altro che questo spazio.” (Lara)
Menzioniamo ancora la testimonianza di Marcel Jousse, secondo il quale il nostro corpo, come uno “specchio flessibile e vivido” (1933) [27], riverbera con il ritmo delle cose animate e inanimate del mondo:
“Posso sentire molto bene in me stesso, nel mio tronco, il fiume scorrere, o il pioppo stagliato verso il cielo, o il pioppo oscillare, seduto sulle panchine del Sarthe, mentre il vento soffia imperioso. (…) A dire la verità, non posso vedere il pioppo elevarsi in alto. Non posso vedere il fiume scorrere. Sento il fiume scorrere in me. Sento il pioppo che se ne sta là eretto.” (Jousse.1938)
– Trasformazione del sentimento di indentità
Tale sensazione di permeabilità è spesso accompagnata da una trasformazione del sentimento di identità individuale: il sentimento di essere un “sé” distinto che diviene più “leggero” e che svanisce. Esperti praticanti di meditazione samatha-vipasyana descrivono tale istante di non differenziazione alla soglia di una percezione: l’emergenza della quale è caratterizzata da un istante iniziale, molto rapido e normalmente ante-riflesso, in cui il mondo interno e quello esterno, il soggetto e l’oggetto, sono ancora indistinti. Questo istante può essere facilmente riconosciuto quando si è sorpresi, o quando ci si sta per svegliare, o quando si è molto rilassati, per esempio quando si sta passeggiando nel bosco. Sopraggiunge un suono, e per un istante, tu non sai chi sei, dove ti trovi, non sai perfino che quello è un suono.
Questa perdita o anche scomparsa del sentimento dell’identità individuale, è evidente nelle descrizioni che abbiamo collezionato (Petitmengin, 1999 e 2001) dell’emergenza inaspettata di un’idea, che comunemente chiamiamo avere un’intuizione (la soluzione di un problema, un’idea scientifica, un’introspezione terapeutica, un’intuizione creativa). Tutte queste descrizioni menzionano una sensazione di assenza di controllo: “Mi è accaduto”, “Non dipende da me”, “Mi è stato dato”, “Sgorga da me” … In questi istanti, il “senso di essere un agente”, per es. “il senso di essere l’unico a generare una certa idea nel mio flusso di coscienza” (Gallagher, 2000, p.15) è alterato. Questo sembra essere confermato da un’analisi delle strutture linguistiche usate per descrivere l’esperienza. Infatti, la forma attiva è spesso rimpiazzata da una forma più passiva. La persona, descrivendo la sua esperienza, non dice “Ho un’idea, vedo un’immagine”, ma “mi sta venendo un’idea, mi sta apparendo un’immagine”. Il “senso di possesso”, per es. anche la sensazione che questa idea è la mia idea, sembra essere alterato, come conferma l’assenza in molte descrizioni del pronome personale “Io”. La persona non dice “un’idea sta venendo a me, un’immagine appare a me”, ma: “c’è un’idea, c’è un’immagine”. L’esperienza non viene sentita come immediatamente propria, come la mia esperienza, non è sentita come personale. Allo stesso tempo, l’idea, o la sensazione, emergono in uno spazio che non è nè soggettivo nè oggettivo.
Queste esperienze, in cui la sensazione di essere un “Io” distinto è assente, sembrano molto prossime a quella che James chiamava “esperienza pura” o “sciousness”, cioè coscienza senza coscienza di un sé, che secondo lui era non solo una realtà, ma la realtà prima (James, 1890, 1904 e 1905) [28].
Nel descrivere questa dimensione dell’esperienza in cui le distinzioni interno/esterno, soggetto/oggetto vengono perse o addirittura sono assenti, non possiamo continuare a parlare di esperienza “soggettiva”, di atti “interiori”, o di sensazioni “corporee”. Perfino l’aggettivo “profondo” deve essere usato con precauzione, perché esso fa pensare all’esistenza di un’entità delimitata, distinta (un sé o un corpo) costituita di differenti strati o livelli. Come D. Galin fa notare, nel dominio dell’esperienza soggettiva, e specialmente in quello dell’esperienza di “frangia”, “il linguaggio metaforico spesso porta a connotazioni non volute, che possono indurre in errore” (Galin, 1994, p. 381). Ancora una volta, manchiamo del vocabolario. Ma nulla ci trattiene dal coniare nuove parole.
– Spazio sentito
Sensazioni differenti, con la loro propria estensione e temporalità, si possono sovrapporre nella nostra esperienza. Sensazioni fugaci perciò vengono percepite nel fondo di uno “spazio” o “panorama” più stabile e intimo, che possiamo chiamare “spazio sentito”. La qualità di questo spazio sentito, la sua atmosfera, struttura, estensione, profondità, densità, e luminosità, cambiano col passare del tempo. In certi giorni, in certi periodi della nostra vita, esso appare aperto, vasto, fluido, leggero, profondo, luminoso. E in altri giorni, o altri periodi, esso può essere contratto, pesante, appiattito, stinto, secco o vuoto.
Ecco qua le descrizioni di tre spazi sentiti in modo molto differente:
“in tutto il tempo futuro (…) circolava trasparente e freddo nell’animo suo, dov’esso conservava la sua tristezza, ma senza causargli tormenti troppo acuti. Ma quell’avvenire interiore, quel fiume incolore e libero, ecco che un’unica parola di Odette lo raggiungeva, nel profondo dell’essere di Swann, e come un pezzo di ghiaccio, lo immobilizzava, ne solidificava la fluidità, lo raggelava tutt’intero; e Swann s’era sentito all’improvviso colmo d’una massa immensa e infrangibile che gravava sulle pareti interiori del suo spirito fino a spezzarlo. ” (Proust, La strada di Swann, p. 376)
“Durante tutto questo periodo (di lutto), il mio spazio interno era ridotto, nel centro del torace, a un filo di sofferenza che al più piccolo movimento s’intensificava.” (Joëlle)
“Egli evocò la memoria dell’ora, in quest’altro giardino del sud (Capri), dove c’era, fuori e dentro di lui e accordava le due parti, un canto d’uccello che, in qualche modo, non si spezzava al confine del corpo e riuniva entrambe le parti in un unico ininterrotto spazio dove rimaneva, misteriosamente protetto, solo un unico spazio, della più pura e più profonda consapevolezza. In quel momento, chiuse gli occhi in modo da non essere disturbato, in una esperienza di tal genere, dal contorno del suo corpo; e da tutti i lati un senso di infinità si riversò dentro di lui, in un modo così familiare che pensò di poter sentire le stelle, arrivate nel frattempo, posarsi dolcemente sul suo petto” (Rilke, 1966)
4. Atti interni per accedere alla dimensione sorgiva
Come abbiamo visto nella sezione 2 certi atti ci permettono di divenire consapevoli della dimensione sorgiva della nostra esperienza, che normalmente è ante-riflessa. Ma la micro-descrizione di processi cognitivi anche molto ordinari, come il processo dell’espressione verbale, mostra che siamo in grado di effettuare, momento dopo momento, ma normalmente in un modo ante-riflesso, atti interiori molto precisi per entrare in contatto con la dimensione significativa della nostra esperienza e lavorare con essa. Prendiamo in considerazione alcuni esempi.
4.1 Il processo dell’emergenza e della maturazione di un’idea
Un’idea (una nuova idea scientifica, un’intuizione artistica, la soluzione a un problema personale o professionale) talvolta arriva alla coscienza tutto a un tratto in una forma precisa e completa. Ma spesso essa si presenta dapprima alla superficie della coscienza come una sensazione indistinta e vaga, come una sorta di orientamento del pensiero. Questa sensazione significativa non sta ad indicare che qualcos’altro, un pensiero, è in procinto di emergere, ma il pensiero si dispiega da essa, è un affinamento di essa. Altri atti distinti possono bloccare il processo di maturazione di un’idea, o accompagnarlo fino al suo completo sviluppo. Il primo atto consiste immediatamente nel tentare di classificare l’idea nascente all’interno di una categoria nota, di interpretarla e di tradurla in parole, con l’effetto di bloccarne lo sviluppo e di fissarla.
Il secondo possibile atto consiste nel rimanere in contatto con l’oscura ed elusiva sensazione significativa, il germe dell’idea e lasciare che divenga gradualmente più precisa, da se stessa, senza forzarla, lasciando che il tempo compia il suo lavoro. E pazientemente lasciando che essa maturi e si dischiuda nel profondo di sè stessi. Come Roland, un astrofisico, dice: “Si tratta di un modo di contemplazione del proprio, personale, sviluppo di quest’idea.” (da Petitmengin-Peugeot 1999, p.72)
Alcuni dei soggetti intervistati descrive un sottile criterio interiore che permette loro di verificare che il processo di maturazione sia giunto al suo termine, ed eventualmente, se sia pronto per essere espresso.
4.2 Il processo di espressione [29]
Attraverso l’intero processo espressivo, sia esso verbale, scritto, pittorico o musicale, è la dimensione del sentire che agisce come filo conduttore. Sono stati identificati quattro atti principali con cui ci relazioniamo ad esso [30].
4.2.1 Entrare in contatto con la sensazione significativa
Il primo atto consiste nell’entrare in contatto con la sensazione significativa che deve essere espressa. Questo atto è essenziale nel processo dell’espressione verbale, anche se spesso è nascosto dalla spontaneità e dalla rapidità dell’espressione. Per esempio, per raccontare una storia, è essenziale che il narratore ritrovi in se stesso il “panorama” della storia, più precisamente non solo l’atmosfera complessiva della storia, ma le “tappe” che costituiscono i suoi punti di articolazione, le sensazione significative che lo guidano attraverso tutta la storia. Per descrivere un’idea astratta, l’oratore o lo scrittore deve riscoprire, dietro la parola che egli ha usato maggiormente per riferirsi alla sua idea, “quello” che egli vuole dire, ma che non è ancora stata detto, questo momento specifico, questa cosa vivente e vibrante che è la sua idea.
Questo venire in contatto con la dimensione non-verbale si mostra particolarmente bene nel processo della traduzione. Un’osservazione attenta di questo processo mostra che, lontano dall’essere un’operazione di trasposizione di due linguaggi (consistente nel trovare in un lingua le parole e le strutture grammaticali corrispondenti a quelle dell’altra lingua), esso si dispiega in tre stadi: ascoltare o leggere il discorso originale – de-verbalizzare le unità di significato – esprimere queste unità in un nuovo discorso. Un buon traduttore non traduce parole, ma “compie un giro lungo” attraverso il significato non verbale che soggiace ad esse. “Se vuoi farti capire – ha detto Canuta Seleskovitch, il direttore dell’Ecole Supérieure d’Interprètes et de Traducteurs de Paris – prendi come punto di partenza l’idea che hai in mente e non l’altro linguaggio (Seleskovitch e Lederer, 2001, p. 73).
Quando le parole si appoggiano solo sulla memoria verbale, senza contatto con il loro significato gestuale e profondo, sono vuote, disincarnate. Una gamma di criteri soggettivi (che di solito sono ante-riflessi) permettono all’oratore o allo scrittore di verificare se è sintonizzato con la dimensione sentita della sua esperienza. Una “posizione di parola incarnata” [31] (Vermersch, 1994) può addirittura essere riconosciuta attraverso una gamma di criteri oggettivi, come la direzione degli occhi, la presenza di atti co-verbali, di specifici indicatori contestuali (luogo e tempo), l’uso del tempo presente, ecc.
Anche nelle arti visive, è essenziale il “giro lungo” attraverso la sensazione significativa. Per esempio, si tratta di uno stato interiore, un’atmosfera particolare, che Anna-Maria, una pittrice che abbiamo intervistato, tenta di trasporre sulla tela usando la forma, lo spazio e il colore. Lungo tutto il suo lavoro, sfrutta le sottili variazioni di questo sentire, al quale essa rimane attenta acutamente istante dopo istante, come un riferimento interno per apprezzare la qualità della sua pittura.
Questa testimonianza conferma le analisi di Merleau-Ponty del lavoro del pittore moderno, attraverso l’esempio di Cézanne. Per Cézanne, dipingere un paesaggio non consiste nel tentativo di riprodurre il più accuratamente possibile ciò che si presenta alla propria visione, grazie ad abilità pittoriche che permettono di generare l’illusione della profondità, del volume, e delle differenti forme di luminosità e tessitura, ma di suggerire l’esperienza primordiale, transmodale del suo incontro con il paesaggio. Egli tenta di “farci vedere come il paesaggio ci tocca. (…) Il pittore rielabora e converte precisamente in un oggetto visibile ciò che senza di lui rimarrebbe chiuso nella vita separata di ogni coscienza: la vibrazione di ciò che appare, la culla delle cose.” (Merleau-Ponty, 1948 p.33) “Quello che tento di tradurre per voi – diceva Cézanne – è più misterioso, è intrappolato nelle radici dell’essere, alla sorgente impalpabile delle sensazioni” (Gasquet, 2002, p. 242). Prima di dipingere un paesaggio, egli lo contemplava a lungo, immobile, con gli occhi dilatati. Egli si faceva impregnare da esso, “germinava” con esso, tentando di afferrare la sua costituzione “come un organismo nascente” (Merleau-Ponty, 1948, p. 32), di cogliere i suoi movimenti essenziali, che egli chiamava il suo “tema”. Quindi si tratta di questo tema che egli tentava di tradurre sull’immobile tela.
4.2.2. Trasporre la sensazione significativa
La sensazione transmodale iniziale è quindi trasposta in una forma specifica – visuale, verbale o musicale. È la sua transmodalità (le “proprietà comuni” che la caratterizzano) che sembra rendere possibile questo. Per esempio Cézanne sfruttava la transmodalità di forme e contrasti di intensità per trasporre sulla tele il tema, la linea di forza, il ritmo peculiare del paesaggio. Secondo Walt Disney, l’animazione non consiste nel copiare il più precisamente possibile l’aspetto visivo esterno di un personaggio, ma afferrarne la personalità, l’essenza, e poi sfruttare la transmodalità del movimento per trasporre questo “affetto vitale” come cartone animato (Dilts. 1994).
4.2.3 Confrontare l’espressione con la sensazione significativa
Attraverso l’intero processo, è il confronto con la sensazione significativa che permette di valutare la pertinenza dell’espressione. Per esempio, vuoi esprimere un’idea che è sorta in te, e una frase ti si offre. Ma quando confronti quest’ultima con questa cosa dentro di te non ancora detta, realizzi che non è appropriata, e la rifiuti. No, “questa cosa dentro di te non ancora detta” è più precisa. È proprio questa cosa dentro di te che sa ciò che deve essere detto, e sa che questa frase non la esprime in modo preciso. Parole inadeguate possono addirittura farti perdere questo “qualcosa”, la sensazione significativa della tua idea. Invece di lasciare che parole inadeguate ti facciano perdere contatto con essa, è preferibile pronunciare o scrivere frasi che possono sembrare strane, ma che non dicono nulla, eccetto quello che tu vuoi dire [32].
4.2.4 Trasformazione della sensazione significativa
Cosa accade alla sensazione significativa una volta che le giuste parole per esprimerla sono state trovate? Essa non scompare, lasciando il suo posto alle parole, come se stesse trovando il suo completamento, e reale esistenza in esse. Ma essa diviene più intensa, più precisa. L’espressione non solo la rende più precisa, ma la fa evolvere, permettendoci di scoprire nuovi aspetti di essa. La qualità della situazione, il problema, l’idea o il panorama interiore ad essa associato, vanno incontro a una metamorfosi. Questa trasformazione è particolarmente evidente nel processo terapeutico, in cui è stata studiata e descritta in dettaglio da Gendlin (1962, 1996…). Ma la troviamo anche in altri campi, come in quello filosofico o in quello scientifico: le parole aiutano la sensazione significativa di un’idea, il movimento essenziale al di sotto di quest’ultima, a divenire più precisa e ad essere spiegata.
“E’ a questa sensazione significativa che ritorno per riunificate il mio pensiero quando è disperso. Questa sensazione significativa è molto elusiva. Le parole mi permettono di raggiungere una precisione più grande e una maggiore sottigliezza. Ma cosa diviene più preciso e più raffinato? Proprio questa sensazione significativa al di sotto delle parole.” (Lise, filosofa)
Una volta espressa, la sensazione significativa continua la sua vita sotterranea. Essa costituisce la sostanza fluida e silente in cui le parole acquistano un significato, e senza la quale ci sono solo suoni.
Esprimersi in una modalità vissuta e incarnata, perciò significa venire in contatto con la dimensione dinamica e transmodale della nostra esperienza e rimanere istante dopo istante totalmente attenti alle sue sottili variazioni. E al contrario, capire in questo stesso momento significa entrare in contatto con questa dimensione sorgiva al di sotto dell’espressione, grazie ad atti specifici (simili a quelli di un traduttore quando deverbalizza) che non sono ancora stati studiati a fondo.
5. Ipotesi interpretative e linee di ricerca
La descrizione della dimensione sentita e degli atti che ci consentono di relazionarci ad essa mostra che essa gioca un ruolo essenziale nella nostra attività cognitiva. Da queste descrizioni traiamo le seguenti ipotesi interpretative. Non si tratta di conclusioni ma di ipotesi di lavoro, che sembrano così indispensabili alla scienza della coscienza come alle scienze sperimentali per guidare la ricerca.
– Le descrizioni che abbiamo raccolto dagli adulti sembrano confermare la conclusione di Stern che questo strato transmodale, gestuale e permeabile non corrisponde a uno stadio dello sviluppo del bambino, che egli dovrebbe poi abbandonare per scoprire la “vera realtà” della differenziazione. Ma
che esso è presente al di sotto della nostra esperienza attraverso tutta la nostra esistenza. In che senso questo strato è alla base della nostra esistenza?
– Primo, nel senso che esso è ante-riflesso: come abbiamo visto nella sezione 2, dobbiamo compiere specifici atti interiori per divenirne consapevoli.
Ma anche in un senso dinamico di anteriorità: noi ipotizziamo che il mondo degli oggetti differenziati, delle immagini, delle emozioni e dei concetti in cui la nostra coscienza generalmente si muove, si dispiega da questo strato fluido e indifferenziato. In questa prospettiva, il legame tra queste due dimensioni sarebbe di tipo generativo. Infatti, l’emergenza di una percezione, un ricordo, o un’idea, sembra essere caratterizzato da una fase iniziale in cui i cinque sensi non sono ancora differenziati, lo spazio interno ed esterno non ancora separati, soggetto e oggetto ancora indistinti. Questa fase iniziale sarebbe il punto di partenza del processo di differenziazione, i cui meccanismi non sono ancora ben conosciuti.
Generalmente, solo il risultato della ultime fasi di questo processo appaiono nella nostra coscienza, sotto la forma di un mondo solido e diviso in compartimenti. Ma alcuni gesti interiori ci permettono di penetrare al di sotto della soglia di coscienza e, più questi vengono esercitati, prima sorge la consapevolezza e più in prossimità della sorgente. In questa prospettiva, il ruolo di questi atti non è quello di far emergere un modo particolare ed eccezionale di coscienza, ma di tirare fuori le fasi primarie di un processo piuttosto ordinario, che si ripete di istante in istante [33].
– Ma come nello sviluppo del bambino, queste fasi non sono “primarie”, nel senso che potrebbero essere abbandonate per lasciare il loro posto ad altre modalità di funzionamento (immaginativa, discorsiva o concettuale). La dimensione “sorgiva” rimane costantemente attiva. È proprio in questa dimensione che troviamo significato. È l’ancoraggio a questa dimensione che incorpa i pensieri e le parole e li porta al vissuto. Come scrive Francisco Varela: “Il concreto [34] non è un approccio alle cose: ma consiste nel come arriviamo e come stiamo.” (1995, pp. 11-12)
– La nostra ipotesi è perciò al quanto diversa da quella di Mangan (2001), che riduce “le sensazioni di frangia” a indicatori passivi che avrebbero solo la funzione di indicare, di richiamare un’esperienza più articolata, informativa e significativa (come le barre dei menù dello schermo del computer). Nella nostra visione, la dimensione sentita non indica qualcos’altro, ma è la sorgente in cui si originano esperienze differenziate e acquistano significato [35].
– In questa prospettiva, come si genera la differenziazione (tra interno ed esterno, tra un polo “soggettivo” e un polo “oggettivo”, e tra distinte modalità sensoriali)? Noi ipotizziamo che questa separazione non sia “data”, ma generata e sostenuta momento dopo momento, da una micro-attività ante-riflessa, consistente in atti molto sottili di distinzione, identificazione, riconoscimento, categorizzazione, apprezzamento, ecc. Questi atti sono talmente sottili da non essere generalmente riconosciuti. La maggior parte dei pensatori occidentali li ha ignorati, eccetto James, per il quale il sentimento di sé non è dato, ma generato dalla “palpitante vita interiore” delle sensazioni riverberanti “che accoglie o respinge, si appropria o si disfa, è attirata o respinta, dice di si o di no”. (James, 1890, pp. 286-287)
Nel corso di questo processo, l’emergenza di un oggetto e l’emergenza del “sé” sembrano concomitanti. Più solido e stabile diviene un oggetto, più la “mia” esistenza conferma se stessa. Questa reciproca conferma, che origina in sottili atti iniziali, continua, a livelli più grossolani, per mezzo di meccanismi discorsivi, concettuali ed emozionali [36] che sono più facilmente accessibili alla coscienza. È precisamente questo processo che le tecniche buddiste di vipassana (distinzione, insight) mirano ad osservare: come, istante dopo istante, il polo soggetto e il polo oggetto si differenziano l’uno dall’altro, mentre si costituiscono reciprocamente [37].
Questa ipotesi supporta (da una prospettiva in prima persona) una visione dinamica ed enattiva secondo cui la cognizione, lungi dall’essere la rappresentazione di un mondo pre-costituito, è un processo di co-costruzione dell’ambiente interno ed esterno, del conoscitore e del conosciuto, della mente e del mondo (Varela et al., 1991) [38]
Questa ipotesi solleva le seguenti importanti domande:
– Quanto precisamente vengono amplificati i micro-dinamismi che animano la dimensione sorgiva per dare vita al mondo solido e compartimentato in cui ci muoviamo? Quali sono i meccanismi e le fasi di questo processo?
– Come si sviluppa il pensiero “astratto”? Attraverso quali processi possiamo scollegarci dalla dimensione sorgiva, fino al punto di dimenticarcene?
– La dimensione pre-articolata della nostra esperienza, che per il momento è quasi una terra incognita, ha differenti strati, differenti gradi di differenziazione?
– Fin dove è possibile rintracciare la sorgente del pensiero? Questo strato che stiamo esplorando non potrebbe coprirne degli altri? Si tratta solo di una finestra aperta verso una dimensione più fluida, spaziale e aperta, oppure no?
Ulteriori test di questa ipotesi richiedono una descrizione molto sottile e delicata della micro-dinamica ante-riflessa dell’esperienza vissuta. In linea con l’indicazione di Galin (1994), la progettazione di precisi “protocolli esperienziali” dovrebbe metterci nelle condizioni di identificare i differenti tipi di sensazioni significative, e di descrivere le loro rispettive caratteristiche e funzioni fenomenologiche. Questo lavoro di micro-descrizione richiede la collaborazione di ricercatori e soggetti intervistati esperti nelle tecniche in prima persona per investigare la coscienza. L’acquisizione di tale competenza implica un importante investimento personale. Inoltre presuppone l’abbandono, sia a livello accademico che personale, dei taboo che finora hanno impedito ai ricercatori di riferirsi all’esperienza vissuta.
Queste ipotesi possono inoltre aprire altre vie di ricerca, importanti soprattutto nel campo delle neuroscienze, dell’educazione e nel campo esistenziale.
Una chiave per la neuro-fenomenologia [39]?
Ci sembra che la possibilità di studiare in dettaglio la dimensione transmodale e ritmica dell’esperienza vissuta potrebbe contribuire a ridurre il “gap”, apparentemente incolmabile, che la separa dai processi neurobiologici.
Per esempio, recenti analisi “neuro-dinamiche” del funzionamento cerebrale suggeriscono che l’emergenza di un atto cognitivo sottostà, non all’attivazione di una particolare zona del cervello, ma alla transitoria sincronizzazione dell’oscillante attività di neuroni che si trovano in zone distanti (Varela et al., 2001). Possiamo ricorrere all’analogia dell’orchestra: d’un tratto, gruppi di strumenti distanti iniziano a suonare allo stesso ritmo. Mettere in correlazione le modulazioni di questi ritmi neuro-elettrici con le sottili variazioni dei ritmi interni che stanno alla base della nostra esperienza cosciente, e che sembrano essere situati allo snodo tra il fisico e lo psichico, sembra essere una promettente linea di ricerca. Per esempio tali correlazioni ci hanno portato alla scoperta, sia a un livello fenomenologico che neuronale, di uno specifico stato che precede un attacco epilettico (Martinerie et al., 1998, Le Van Quyen et al., 2001, Petitmengin, 2005 and Petitmengin et al., 2006).
Inoltre, una nuova categoria di neuroni è stata scoperta alcuni anni fa, i “neuroni specchio”, così chiamati per la loro abilità di “rispecchiare” l’attività di qualcun altro, e aventi la rimarchevole caratteristica di essere multi-modali (sia visivi che somatosensitivi, audito-visivi, o olfattivo-visivi) [40]. Ci sembra che una migliore conoscenza “in prima persona” della transmodalità e gestualità della dimensione sorgiva porterebbe a una migliore conoscenza del ruolo di questi neuroni nel complesso processo di co-determinazione sé/altro da sé, porterebbe a un affinamento dei protocollo sperimentali usati per studiare questi neuroni, e dell’interpretazione dei loro risultati.
Il carattere transmodale della sorgente dell’esperienza può inoltre aiutarci a capire alcuni inspiegati fenomeni come il blindsight, le residue capacità visive che alcuni ciechi hanno, senza essere coscienti di queste capacità (Weiskrantz, 1986).
Re-incantare la classe?
Se le nostre idee estraggono il loro significato dalla dimensione preverbale della nostra esperienza, allora non c’è alcuna reale comprensione che non arrivi a tale profondità. Capire un’idea significa accedere alla sensazione significativa che è alla sua sorgente, grazie a specifici gesti.
In questa prospettiva, i nostri metodi di insegnamento sono adeguati? Attualmente l’insegnamento consiste nella maggior parte dei casi nella trasmissione di contenuti concettuali e discorsivi. L’intenzione è quella di fissare un significato, non di iniziare un movimento. Invece della trasmissione di contenuti, quali metodi d’insegnamento possono suscitare gli atti che ci permettono di accedere alla sorgente dell’esperienza che dà coerenza e significato a questi contenuti? Tale approccio d’insegnamento, basato più sull’iniziazione che sulla trasmissione, mettendo in contatto i bambini e gli studenti con gli strati più profondi della loro esperienza, potrebbe generare un rinnovato interesse per la scuola.
Per concludere, lo spazio in cui i pensieri sono nati si trova nel cuore della nostra esperienza umana. È là che le nostre relazioni col mondo si generano, e possono essere di conseguenza trasformate. Se la felicità risiede in una particolare qualità della apertità dello “spazio sentito”, quali gesti interiori libererebbero o renderebbero più fluido questo spazio? Riscoprire il contatto con la dimensione sorgiva della nostra esperienza trasformerebbe in modo considerevole non solo la nostra comprensione della cognizione, ma anche la nostra vita nel mondo.
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare i non citati critici per i loro commenti penetranti circa la prima stesura dell’articolo. Sono inoltre molto grata a Peter Thomas, Shirley Thomas e James Armstrong per avermi aiutata ad esprimere le mie idee in inglese.
Note
1 (aggiunta del traduttore) William James afferma che ogni oggetto del pensiero, sia materiale o mentale, è circondato da un alone di relazioni con altri oggetti, le quali definiscono la “forma” dell’oggetto, pur senza definirlo specificatamente. Questa fascia, chiamata frangia, è ciò che ci permette di riconoscere l’oggetto senza averne un’immagine distinta e viene conosciuta attraverso il sentimento. “La relazione del pensiero con questo argomento o interesse è sentita nella frangia, in particolare la relazione di armonia e disaccordo, di avanzamento o indietreggiamento dell’argomento. Ogni pensiero di cui la qualità di frangia ci fa sentire “a posto”, può essere considerato un pensiero che fa avanzare l’argomento. A condizione che noi solo sentiamo che il suo oggetto ha un posto nello schema di relazioni in cui si trova l’ “argomento”, ciò è sufficiente a fare di esso una porzione rilevante e appropriata del nostro treno di idee […] noi sentiamo che il nostro pensiero è razionale e giusto […] ” (James W. 1890, Principles of Psychology, pp. 161-169)
2 Usiamo il termine “ante-riflessa” per enfatizzare il fatto che questa dimensione non è inconscia, ma solo non ancora cosciente. Più sotto potete trovare i riferimenti agli autori che hanno introdotto questa parola. Un’utile e sintetica presentazione di alcuni concetti presenti in questo articolo la potete trovare in: www.unisa.it/download/70_10802_185598124_dottMolla.ppt
3 Questo metodo (Petitmengin, 2007a) permette la raccolta di dati in “prima persona”, per es. i dati che esprimono il punto di vista del soggetto stesso, nella forma grammaticale “io…”. Ma se questi dati vengono raccolti attraverso un’altra persona (un “tu”), questo metodo viene chiamato metodo in “seconda persona”, con le relative descrizioni in “seconda persona” (Varela & Shear, 1999).
4 Questo lavoro di descrizione è in continuità con (Petitmengin-Peugeot, 1999) e (Petitmengin, 2001), che trattano dell’esperienza vissuta che accompagna l’emergenza di un’intuizione.
5 (Aggiunta del traduttore) ritengo utile chiarire la differenza tra emotion (it. emozione) e feeling (it. sentimento). Con il termine sentimento ci si riferisce all’esperienza privata di un’emozione e con il termine emozione si designa la collezione di risposte, in gran parte osservabili pubblicamente. Nel suo significato più generale la parola feeling denota percezioni collegate al corpo (sensazioni di malessere, di benessere, di dolore, sensazioni tattili) più che un apprezzamento o rifiuto di ciò che è veduto o udito. Per esempio, quando avvertiamo che una persona è “tesa” o “nervosa”, “scoraggiata” o “entusiasta”, etc., abbiamo colto una delle cosiddette emozioni di fondo. E se la interrogassimo probabilmente ci direbbe di sentire tensione o rilassamento, affaticamento o energia, etc., cioè i cosiddetti sentimenti di fondo. La traduzione del termine feeling con sentimento non è felice in quanto ha una connotazione romantico-sentimentale, che in realtà non c’è nel termine inglese, il quale come abbiamo visto, rimanda a una esperienzialità più basilare, corporale. Pertanto feeling viene tradotto a seconda dei contesti con i termini sentire, avvertire, sensazione e sentimento. (modificato da A.R. Damasio, Emozione e Coscienza, p. 410, Adelphi, 2000)
6 Abbiamo mutuato questa espressione da Eugene Gendlin (1962). (Aggiunta del traduttore) “Una sensazione significativa non è un’emozione, ma le due si rassomigliano sotto certi aspetti… La prima e principale differenza fra un’emozione e una sensazione significativa è che un’emozione è riconoscibile. Di solito sappiamo quale emozione stiamo provando. Quando siamo arrabbiati, tristi o allegri non solo lo sentiamo ma sappiamo di che si tratta. Nel caso di una sensazione significativa, invece, diciamo: “Posso sentirlo, proprio lì, ma non so che cos’è”. Una sensazione significativa ha un suo senso preciso, ma di solito è più complessa di quanto sia possibile esprimere con le solite frasi e categorie. Eppure è molto definita in quanto avvertiamo immediatamente che c’è qualcosa che non va. La sensazione significativa sembra obiettare, ritrarsi, oppure reagire restando del tutto inerte o indifferente. Le parole sbagliate provocano un blocco della sensazione significativa… Una sensazione significativa è l’impressione corporea olistica, implicita, di una situazione complessa. Include molti fattori, alcuni dei quali non sono mai stati distinti in precedenza. Fra questi fattori ci sono vari tipi di emozioni… Malgrado la sua complessità, una sensazione significativa contiene anche un punto focale, una specifica esigenza, direzione o tematica. Può ‘riassumersi in’ o ‘sfociare in’ un unico passo in avanti… Un’altra differenza fra un’emozione e una sensazione significativa è che l’emozione è meno attendibile della ragione, laddove una sensazione significativa è più attendibile della ragione. Quando agiamo sull’onda della rabbia, spesso in un secondo momento ce ne pentiamo perché abbiamo reagito solo a una parte della situazione. Quando siamo più calmi, ripensiamo alla situazione nel suo insieme. Ecco perché un’emozione è di solito meno attendibile della ragione. Per contrasto, una sensazione significativa è più attendibile della ragione perché in essa si avverte la presenza di più fattori di quanti siano gestibili a livello razionale. Ciò non significa che a fronte di una sensazione significativa si rinunci alla ragione e a una scelta responsabile. Al contrario, abbiamo sempre bisogno sia della sensazione significativa che della razionalità… Una sensazione significativa avrà una certa qualità corporea, come ad esempio ‘agitata’, ‘pesante’, ‘soffocante’, ‘tremante’, o ‘tesa’. A volte la qualità corporea potrà essere meglio descritta con parole che definiscono anche un’emozione, come ad esempio ‘spaventato’, ‘vergognoso’ o ‘colpevole’. Anche in questo caso essa contiene un insieme complesso di elementi, non solo ciò che l’emozione omonima conterrebbe… Quando una sensazione significativa cambia e si apre possono emergere emozioni accanto a pensieri, percezioni, ricordi o un aspetto del problema visto in termini più olistici. Una sensazione significativa contiene spesso emozioni. Quindi una sensazione significativa non si trova evitando le emozioni o cercando di non provarle. Piuttosto, se c’è già un’emozione, si lascia che la sensazione significativa si formi come qualcosa che può accompagnarsi a un’emozione, sottenderla o circondarla.” Eugene Gendlin
(per un approfondimento vedi: http://www.focusing.it/Letture/ChecosasiintendeperFeltSense.htm )
7 Confronta (Welwood, 2000) per un’analisi del ruolo di questa dimensione in psicoterapia e nel processo di meditazione.
8 L’esperienza dell’avere una parola “sulla punta della lingua” è stata descritta da James in un famoso passaggio (James, 1890, p.252).
9 Risposta di Einstein allo psicologo Max Wertheimer che lo interrogò “in grande dettaglio circa gli eventi concreti che nei suoi pensieri portarono alla teoria della relatività”. (Citazione da Holton, 1972).
10 Le citazioni senza riferimenti, come questa, sono estratte da interviste che ho ottenuto con il metodo sopra menzionato (Petitmengin, 2007a).
11 Usiamo l’espressione “riduzione fenomenologia” senza riferirci strettamente al retroterra concettuale Husserliano, con il significato generalizzato di “descrizione dell’esperienza vissuta”.
12 Confronta (Gendlin, 1962) e i suoi numerosi articoli consultabili in http://www.focusing.org
13 Una presentazione di queste tecniche, la loro origine, e i criteri di validità delle descrizioni collezionate sono date in (Petitmengin,2007a).
14 Come samatha-vipasyana, una gamma di tecniche di meditazione Buddista che permettono di imparare a stabilizzare la propria attenzione, e quindi di osservare molto precisamente il flusso della propria esperienza soggettiva (confronta per esempio Fallace, 1999 e 2003).
15 Per una dettagliata descrizione degli atti interni che permettono a qualcuno di divenire consapevole della dimensione ante-riflessa della sua esperienza soggettiva in generale (e non specificatamente della “dimensione sorgiva”), il lettore può riferirsi a (Depraz, Varela e Vermersch, 2003).
16 (Aggiunta del traduttore) Alcune discipline come l’architettura o il design si prestano bene all’evidenziazione dell’attività non consapevole di questo strato dell’esperienza. A questo riguardo, cito il “Progetto cosciente”, un laboratorio d’avanguardia, unico nel suo genere, tuttora in corso di sperimentazione, frutto della collaborazione dell’AssociazioneAsia con il Chialab, laboratorio per il design della comunicazione e l’università di Urbino.
“Le componenti essenziali del progettare (to design) possono essere scomposte in: un’intenzione proiettiva (design), un qualcuno che la genera (designer), un sistema di rappresentazione (disegno, idea), una tecnologia che la produca (industria) e un ambiente che possa accogliere il tutto (il mondo).
Il momento iniziale, l’intenzione proiettiva pare intrinseca alla coscienza umana, inalienabile, profondamente legata ai nostri intendimenti esistenziali, mossa dalla continua ricerca della tangibilità di tutto ciò che nel mondo siamo, facciamo e vogliamo fare.
Descritta in questi termini l’azione progettuale è rintracciabile in gran parte dell’attività umana, e di fatto non si può negare che quando scelgo che camicia mettermi la mattina, decido dove andare in vacanza, che cosa mangiare a pranzo non faccio altro che esprimere un’intenzione (cosciente o incosciente) di come voglio essere, di cosa voglio fare, di cosa voglio sentire: esprimo un intendimento (design), lo rappresento nella mia mente (disegno), cerco le tecnologie per attuarlo, ne verifico le reazioni nell’ambiente. Tutto questo viene praticato continuamente senza averne coscienza poiché l’attenzione viene calamitata sugli oggetti (proiezione concreta) distogliendola dal soggetto (proiezione trascendente) (…) Siamo all’inizio di una forte relazione commerciale e culturale tra Oriente e Occidente, possiamo imporre regimi protezionistici, o creare riserve e parchi culturali, assorbire la sola superficialità coreografica e trasformare il tutto in una cultura di massa che appiattisca i diversi atteggiamenti, …
Ma cosa accadrebbe se invece un nuovo sentimento esistenziale maturasse nelle coscienze dei progettisti e trovasse espressione nel design dei prodotti industriali e post-industriali?” (Beppe Chia, Note grezze sul progetto, Sistemi Grafici, Isia, Urbino, http://progettocosciente.blogspot.com/ )
17 Sinestesia: termine che indica quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi. Nella sua forma più blanda è presente in molti di noi, basti pensare a quelle situazioni in cui la presenza di un odore o di un sapore evoca un’altra reazione sensoriale (la vista della frutta che viene percepita anche come sapore). Si presenta anche come effetto dell’assunzione di droghe quali lsd e allucinogeni.
18 Theaetetus 185a-186a.
19 De anima, II, & 418 § 12 e 418 § 18-20.
20 (aggiunta del traduttore) Con il termine affetti categoriali ci si riferisce a una gamma discreta di espressioni affettive ben definite, nettamente distinte e transculturali, ovvero riconoscibili da persone appartenenti a culture diverse. Fu il grande biologo Darwin (1872) a postulare che a ognuno di questi affetti corrispondesse una configurazione facciale distinta e innata e una distinta qualità di sentimento, e che si fossero evoluti come segnali sociali capiti da tutti i membri della specie per aumentare le probabilità di sopravvivenza. A differenza dell’espressività degli affetti categoriali, l’espressività degli affetti vitali viaggia non attraverso segnali facciali, ma in generale attraverso il modo di muoversi del corpo. Si tratta più di qualità globali dell’esperienza legate alla forma, all’intensità e a schemi temporali.
21 E. Norman (2001) propose di distinguere tra “margine fugace” e “margine ghiacciato”.
22 Qui ci scontriamo con la povertà del vocabolario che abbiamo a disposizione per descrivere l’esperienza soggettiva, e a fortiori la sua dimensione sorgiva. In accordo con E. Gendlin, pensiamo che questa difficoltà non sia legata al linguaggio, ma dovuta al fatto che questa dimensione è stata poco esplorata nella nostra cultura. Possiamo arricchire gradualmente il nostro linguaggio con nuove categorie descrittive che ci permettano di riferirci precisamente a questa esperienza.
23 Stern distingue questa sincronizzazione affettiva dalla semplice imitazione, su cui si focalizzano le più recenti ricerche. L’imitazione è legata al comportamento esteriore, laddove la sincronizzazione si riferisce a uno stato interno.
24 Stern sostituisce il modello tradizionale a stadi, sviluppato da Piaget, con un modello stratificato.
25 Johnson e Lakoff sono arrivati a questa conclusione studiando le metafore usate nel linguaggio inglese comune e nel linguaggio filosofico occidentale (Lakoff e Johnson, 1980 e 1999) e (Johnson, 1987 e 1991). Jousse pure si è basato su uno studio delle metafore (in francese), ma anche su uno studio delle radici delle lingue Indo-Europee, l’Ebraico e l’Aramaico, sull’osservazione della gestualizzazione coverbale nelle tradizioni orali, e sull’osservazione del mimetismo animale e nel bambino (Jousse, 1974). Una presentazione comparativa delle idee di Lakoff e Johson e di Jousse potrebbe essere il tema di un’intero articolo separato.
26 Vedi per esempio l’esplorazione dei significati musicali fatta da Johnson (Johnson, 1998).
27 Jousse, corso tenuto all’Ecole d’Anthropologie il 13 febbraio 1933: “La mimologie ou langage des gestes”.
28 Vedi (Bricklin, 2003) per un’analisi dei legami tra il concetto di sciousness in James e il suo empirismo radicale. (Aggiunta del traduttore) “Esperienza pura è il nome che ho dato al flusso immediato della vita che fornisce il materiale per le nostre successive riflessioni con le sue categorie concettuali. Solo i bambini appena nati, o gli uomini in semi- coma a causa del sonno, sotto l’effetto di droghe, delle malattie o dell’ubriachezza, si può ritenere che abbiano un’esperienza pura in senso letterale di un che che non è ancora un cosa definito e tuttavia pronto a essere ogni tipo di cosa” (James W. 1912, Essays in Radical Empiricism, p. 93)
29 Questa sezione s’ispira molto alle descrizioni dettagliate di questo processo raccolte da Gendlin.
30 Bisogna sottolineare il fatto che gli atti interni attraverso cui avviene la descrizione verbale di una sensazione significativa sono sottilmente ma chiaramente differenti da quelli che permettono l’espressione da essa. La descrizione, diversamente dall’espressione, implica la consapevolezza della sensazione significativa, e la deviazione lungo il processo del divenire consapevoli (che descriviamo nella seconda parte di questo articolo). Qui ci limitiamo a descrivere il processo dell’espressione.
31 (aggiunta del traduttore) Con il termine “posizione di parola incarnata” ci si riferisce al fatto che nel momento in cui si esprime, il soggetto è in evocazione del vissuto della situazione passata. Egli si limita a descrivere il proprio vissuto evitando i commenti e i giudizi di conoscenza. Questo dovrebbe essere garanzia di un accesso più diretto al vissuto e meno filtrato da credenze. www.unisa.it/download/70_10802_185598124_dottMolla.ppt
32 Questo processo è descritto in dettaglio da E. Gendlin, per esempio in “Introduction to thinking at the edge” e “Making concepts from experience” http://www.focusing.org
33 Queste ipotesi possono farci capire perché la pratica della meditazione sviluppa sinestesia, come alcuni studi ci hanno mostrato: di fatto, essa non induce sinestesia, ma la consapevolezza di un’esperienza trasmodale che emerge ad ogni istante. Come suggerisce Walsh nella conclusione di un recente articolo: “Lo sviluppo di sinestesia nei meditatori può essere causato, in parte, da una accresciuta sensibilità percettiva a un processo subliminale precedente.” (Walsh, 2005).
34 Tenendo ben presente che l’esperienza concreta non è limitata alla “solida” esperienza corporea e sensoriale di cui siamo generalmente consapevoli.
35 Comunque, non escludiamo il fatto che alcune sensazioni significative possano giocare il ruolo di sottili indicatori interiori o criteri.
36 Come l’incessante dialogo interno, riconosciuto come essenziale nella costituzione del “sé narrativo” (Gallagher, 2000)
37 Un’introduzione a questa prospettiva dinamica nel pensiero buddista indiano e le relative referenze bibliografiche, possono essere trovate in (Petitmengin, 2007b).
38 La questione della rilevanza del punto di vista in prima persona nella teoria dell’enazione, è discusso in (Petitmengin, 2006)
39 L’dea fondamentale del programma neuro-fenomenologico è “di sposare un approccio disciplinato all’esperienza umana (in linea con la tradizione continentale della Fenomenologia) e la moderna neuroscienza cognitiva” (Varela, 1996, p. 330)
40 Per esempio, questi neuroni sono attivati esattamente nello stesso modo quando la persona coinvolta esegue un’azione e quando egli o essa vede qualcun altro eseguire la stessa azione; o da un odore piacevole o spiacevole, e dalla vista di un’altra persona che sta annusando l’odore. Per una sintesi di queste ricerche, vedi (Buccino et al., 2004).
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