Nel giorno in cui cent’anni fa nasceva Cesare Pavese, fra i massimi e tutt’ora più amati autori italiani del Novecento, il pensiero vola subito alla sua tragica morte, a quel suicidio di cui tanto si è parlato e scritto, quanto Pavese mai avrebbe voluto; inevitabile ricordare questo grande protagonista della nostra letteratura senza versare altro inchiostro sulla fine di una vita dolorosa, ma anche piena di forza e poesia: la forza di chi vedeva chiaramente – insieme a pochissimi altri, all’epoca – l’infondatezza di ogni soliloquio ideologico, con un’acutezza e una lucidità che non concedevano nulla al pur disperato, comune bisogno di un radicale cambiamento sociale e politico. La poesia di un artista dalla voce onesta, quasi disarmata, nutrita dal pensiero della morte, o meglio: dal pensiero del morire connaturato alla vita, delle ore vissute come fossero gradini mancanti di una scala scesa al buio.
Gli amori infelici e una generica predisposizione alla malinconia sono stati additati di frequente come i veri assassini di Pavese, o almeno come i mandanti di quel gesto che doveva essere “un fatto privato e ritmico”, quasi che nel nostro intimo sia custodita una musica dai battiti inesorabili, da ascoltare fino all’ultimo. Pavese, tuttavia, era ben conscio del fatto che un problema più radicale soggiace ad ogni passione, per quanto travolgente: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte.”. Heidegger avrebbe detto: nel nostro niente. Alla luce poi del fatto che, come forse anche Dante avrebbe sottoscritto, “Amore è desiderio di conoscenza”, si delinea più precisamente la possibilità che la “stanca rinuncia” dell’autore piemontese non sia stata nei confronti di una vita infelice perché sentimentalmente sfortunata, ma verso il baluginio (che la poesia stessa gli offriva, come la Musa all’Esiodo dei Dialoghi con Leucò) di un’esistenza finalmente spoglia della maschera del dolore.
Espressioni della ricerca di una conoscenza forse mai creduta accessibile (se non per brevi istanti) e comunque sempre dolorosamente incompleta, la vita e la morte di Pavese ci offrono allora la possibilità di distinguere fra vita ed esistenza, morte e niente, di coglierne la spesso obliata quanto fondamentale differenza. Differenza che raramente è intesa, quand’anche se ne parli, come necessario presupposto a una riflessione sul cosiddetto “senso di vuoto”, il disagio di chi sente il peso di ritrovarsi ad essere, e che in questo intuisce il proprio niente, appunto, spesso senza nemmeno riuscire a dargli parole – in questo Pavese, con Heidegger e Dante, è stato certo un privilegiato. Ed è forse l’eco di una domanda sull’esistenza che parla attraverso le cose della vita, e non un generale sentimentalismo, a spingere i più giovani estimatori di questo poeta e romanziere a leggere e rileggere le sue opere, e la segreta consapevolezza che “La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi.”.
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