Neuro-immagini ed esperienza vivente in atto
Intervento di Roberto Ferrari
al Seminario “Neuro-mania come veicolo di conoscenza. Un dibattito sui limiti della neuroriduzione”- Università di Bologna, Gennaio 2013
Il libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (Neuromania. Il cervello non spiega chi siamo, Ed. Il Mulino 2009) è un’occasione preziosa per riflettere sul tema del rapporto tra mente e cervello, partendo da una prospettiva interna alle neuroscienze. Infatti un neuroscienziato e uno psicologo cognitivo si sono dedicati ad evidenziare i filtri e gli assunti che ci possiedono, anche in campo scientifico, quando guardiamo quelle affascinanti immagini di cervelli colorati e pulsanti che sono ormai su ogni articolo specialistico e di conseguenza ampiamente diffuse su giornali e programmi televisivi.
Devo dire che qui oggi ho riscontrato un eccessivo consenso sull’assunto del fisicalismo che prevede l’esistenza della sola materia fisica e ad essa riduce – con diversi gradazioni[1] – la dimensione mentale. Il mio contributo parte da questo assunto e si propone di evidenziare tre punti, che possono essere espressi agevolmente in domande.
1) Esiste un argomento di principio che limiti le pretese del riduzionismo neurologico di riportare ogni evento mentale ad un comportamento cerebrale?
2) Qual è la posta in gioco nell’impresa conoscitiva della neuro-riduzione e quali le conseguenze etiche di questa visione?
3) È possibile un percorso di conoscenza della mente “vissuta” che sia complementare e integrativo a quello delle neuroimmagini?
1) Argomento anti-riduzionista
Lo studio della mente si è caratterizzato negli ultimi anni per un passaggio dal suffisso PSICO- che ha dominato per molti anni la ricerca e le applicazioni sulla mente (psico- analisi, terapia, filosofia, test psico-attitudinali, etc. ) al nuovo suffisso NEURO- (neuro- etica, politica, estetica, teologia, economia, marketing)[2], fino a configurare, come scrivono Legrenzi ed Umiltà, una diffusa neuro-mania che assume le correlazioni neurali tracciate dalle neuroimmagini come “spiegazione” dell’uomo.
Tuttavia c’è molto in comune tra queste impostazioni: sono tutte rappresentazioni teoriche della concreta esperienza in atto. Le impostazioni di tipo psicologico hanno trovato una veste più scientifica nel Funzionalismo, molto seguito negli anni Settanta e Ottanta del novecento, che considerava la mente come il software del cervello, un programma che può realizzarsi anche su supporti diversi. Le prospettive fisicaliste neuro-riduzioniste oggi in auge invece vedono la mente identica al cervello e cercano nessi di spiegazione causale tra il piano neurale e quello mentale. Hanno un ruolo di rilievo anche le teorie fiscaliste non-riduzioniste, che senza rinunciare a una base fisico-neurologica sottolineano l’emergenza da questa di piani diversi di proprietà e leggi[3].
Quale che sia il quadro teorico che i relatori che mi hanno preceduto hanno assunto, in questo dibattito l’evidenza che mi si presenta è l’assoluta primarietà della mia esperienza in atto; ciascuno ora può riscontrarlo in prima persona e non può negarlo. Allora la teoria che appoggio (sia essa psicologica o neurologica) e il mio affermarla, è forse prodotto di funzioni o neuroni, ma prima di tutto è esperienza, è vissuta ora. Non sto parlando del flusso di pensieri e sensazioni che ci attraversa, ma del fatto stesso di star-facendo-esperienza di questi contenuti. Ciascuno può riscontrarlo ora in prima persona, e se cerca di negarlo vivrà l’esperienza della negazione. Allora la teoria che appoggio (sia essa psicologica, neurologica, emergentista) e il mio affermarla, è prodotto di neuroni, oppure è esperienza? E se dico sì o dico no, quella risposta è vissuta/esperita o neuroprodotta? E questa domanda?
Nel bel testo di Legrenzi ed Umiltà, gli Autori non accettano un facile riduzionismo: per essi l’esperienza estetica e il sentire non sono fatti cerebrali ma “vissuti”; il cervello ha un ruolo fondante perché è “un prerequisito” per il sentire, e l’esperienza del sentire determina i giudizi etici o estetici.
In questo senso criticano l’idea di uomo che sia solo “costruzione sociale”[4] come lo si intendeva in modo quasi “politico” negli anni Settanta. Si tratta appunto di una idea astratta, di un giudizio che ha a monte un sentire e un cervello. Piuttosto riportano la natura umana alla base biologica concreta della nostra struttura.
Nel contempo gli Autori criticano l’eccesso di neuro-riduzionismo che chiamano neuro-mania: essa rende credibili le più ardite ipotesi semplicemente riproponendole con spiegazioni circolari, ovvero false spiegazioni che solo ri-descrivono il fenomeno dal punto di vista neurale, ma che non aggiungono nulla. Anzi a volte possono mistificare[5].
Condividendo appieno questa critica, vorrei inserire una domanda: è il cervello il produttore del sentire e della nostre credenze, compresa la credenza nelle neuro-immagini, oppure, lo stesso cervello potrebbe essere esso stesso costruzione, una non-spiegazione che solo descrive i fatti in una rappresentazione coerente si cui, prima di tutto, stiamo facendo esperienza?
Vorrei insinuare che il cervello potrebbe essere solo una costruzione, utile ma non vera. Una costruzione prodotta non dai pregiudizi “borghesi” o “proletari” ma da pregiudizi epistemologici. La teoria della conoscenza scientifica dichiara – circolarmente – di essere il frutto di una neurobiologia, mentre la neurobiologia è evidentemente il prodotto di quella stessa neuro-epistemologia… In questa costruzione circolare siamo rimandati di rappresentazione (neuro-immagine) in rappresentazione (teoria epistemologica scientifica) fino a perdere di vista il fatto primo: che in noi, quando affermiamo tutto questo, il dato fenomenologico ed esistenziale iniziale è che ne stiamo facendo esperienza diretta e crediamo – o dubitiamo – relativamente alla teoria e a noi stessi!
Quell’esperienza e quel “crederci” è spiegabile e descrivibile? E’ correlabile alla base nervosa? Se lo fosse, l’atto esperito di ridurre e di credere alla riduzione, resterebbe come un irriducibile atto primo. Un atto che di principio non si può catturare in una registrazione cerebrale[6]. In questo senso possiamo porre come argomento contro il riduzionismo la sua incapacità di render conto dell’esperienza, non in quanto contenuto o “flusso di coscienza” ma in quanto atto primo fenomenologico sempre a monte di ogni misurazione e descrizione.
Occorre precisare che questa non è una posizione dualista cartesiana in cui da una parte sta il mondo dei fatti e dall’altra quello dell’atto mentale: c’è solo esperienza in atto, che genera l’impressione di mente e di mondo e di seguito li sostanzia in res stabili e riconoscibili. All’inizio viviamo solo l’impatto esperito nella forma dell’accorgerci di una realtà, non importa se di natura mentale o materiale. E del crederci.
Allo stesso modo, riguardo al sentire ed alle basi neurali delle emozioni, Legrenzi e Umiltà parlano di una “grammatica universale delle emozioni”[7] che ha le sue condizioni di possibilità nei neuroni specchio, nell’amigdala e in altre strutture limbiche.
Possiamo invece ipotizzare – ma sarebbe meglio ascoltarla nel nostro vissuto – una grammatica fenomenologica del sentire partecipato e coinvolto, intrinseco al fatto di far esperienza.
Un sentire da ascoltare prima che sia raffreddato attraverso il riconoscimento nelle diverse emozioni, prima che sia trasformato nel dialogo interno intorno ad esse. Riconoscere e parlare sopra al sentire sono modi di normalizzarlo, di determinarlo e di racchiuderlo in termini psicologici o neurologici[8]. Ad esempio, ora, in questo dibattito ci preme sostenere i nostri punti di vista, discutiamo mentre siamo attraversati da interesse e intensità; o siamo perplessi per queste parole (anche dicendo questo, tuttavia, racchiudiamo il nostro esperire in atto in parole).
L’argomento anti-riduzionista vale anche nel dibattito tra “localizzazionismo neurale” e “meccanismi cerebrali”: il primo afferma che bisogna identificare le aree nel cervello in cui si attivano le funzioni cerebrali, l’altro – sostenuto anche stamattina dal Prof. Umiltà – che bisogna cercare di capire i meccanismi biologici profondi del cervello attraverso tecniche avanzate di indagine (TSC – Transcranic Magnetic Stimulation, DTI – Diffusion Tension Imaging). In questo dibattito sono attivi anche altri indirizzi di ricerca, che propongono come le funzioni mentali siano da ricercare non in “luoghi” del cervello, ma in “tempi” di sincronizzazione e risonanza tra aree cerebrali distanti[9].
Tuttavia il secondo approccio o il terzo – indubbiamente utilissimi per studiare lesioni funzionali o anatomiche – in nessun modo rappresentano un superamento del primo approccio per spiegare chi siamo per le seguenti ragioni:
– non sono spiegazioni causali, ma solo correlazioni lineari o non-lineari tra diverse variabili che descrivono circolarmente il fenomeno neurale senza sfiorare l’esperienza mentale;
– ancora una volta, questo dibattito, quello ora in corso, è innanzitutto un’esperienza attuale e immediata, non un dato esterno oggettivo, al di fuori di me. Quando mi domando se sia meglio cercare localizzazioni o meccanismi, viene prima il domandare! O no? (per dirla come nella scuola filosofica di A.S.I.A.).
2) La posta in gioco e le conseguenze etiche
Gli autori di “Neuro-mania” si pongono coraggiosamente la domanda su qual è in realtà la posta in gioco in questo dibattito tra i suffissi PSICO- e NEURO-[10].
E’ solo l’avvicendarsi di mode culturali sostenute dai media?[11] O l’avanzare di politiche culturali che privilegiano sempre più un approccio cognitivista e riduzionista?
È un fatto che chi fa ricerca debba seguire un paradigma riduzionista se vuole avere le maggiori possibilità di pubblicare, di ricevere citazioni e elevati impact factor e quindi fondi, se vuole elevare il ranking di laboratori e Università[12]. Certamente sono elementi presenti e da non sottovalutare.
In realtà la posta in gioco è ancora maggiore ed è una nuova “narrazione” dell’uomo, non solo per curarlo, ma anche per gestirlo[13] nei passaggi più delicati della sua esistenza.
I temi più spinosi, oggi senza governance, sono tutti caratterizzati dal bisogno di un’idea forte di uomo. Sono i temi della bioetica (nascita, cura, dolore, morte, malattia mentale, etc.); la questione su cosa sia benessere-salute-felicità e le relative politiche sociali; il problema del malessere e il disagio esistenziale; l’idea di performance, sia essa sociale o sportiva. E via dicendo.
Questa idea di uomo è venuta a mancare perché sono troppo deboli le passate narrazioni del mondo e dell’uomo. Sono cadute le visioni ideologiche e anche quelle psicologiche, e sono rimaste solo le neuroscienze a fornirci come certezza concreta un “corpo neurale”[14]. La struttura neurale aspira così a diventare la “vera” natura dell’uomo e a guidare il suo comportamento personale e sociale. La tecnica medica in particolare ci spinge a adottare la narrazione delle neuroscienze fino a una “visione” che fornisce la chiave di volta epistemica della verità e del valore.
Come nel 1800 la frenologia e il mesmerismo[15] persero terreno ed efficacia, è oggi la psicologia a ritrovarsi sconfitta. La neuro-medicina sembra vincitrice per diverse ragioni:
– le neuroscienze e le neuroimmagini hanno un potere normalizzante, danno spiegazioni causali o almeno correlazioni cui riconosciamo valore deterministico nei comportamenti e nelle attività mentali.
– le neuroscienze penetrano con basi forti e oggettive nel campo del vissuto individuale, lo colonizzano e rispondono alle domande su cosa è la mente, come funziona, a cosa serve questo e quel meccanismo[16]. Permettono di modificare la mente, di curarla, forse di replicarla. Il potere delle neuroscienze dà sollievo, toglie dall’incertezza; nel contempo ci domina.
Le conseguenze nel campo della conoscenza sono rilevanti. Come ben evidenziano Legrenzi ed Umiltà, avanza una forma di neuro-positivismo: avendo trovato nel cervello l’ “essenza” della mente sembra di poterla estendere a ogni campo (etica, estetica, politica, teologia, economia).
Per queste estensioni mancano le basi scientifiche rigorose perché non è possibile individuare leggi-ponte che ci permettano di ridurre i contenuti psichici (io, psiche, paura, soddisfazione, credenza) a identiche leggi fisiche[17].
Ma soprattutto non possiamo ridurre tutto al cervello in base all’argomento sopra introdotto: se anche riuscissimo a ridurlo, non sarà mai possibile ridurre l’atto immediato di “ridurre” che esperiamo.
Anche le conseguenze etiche sono assai rilevanti; diventa sempre più difficile tracciare un confine tra il corpo neurale sede di sensazioni, stati d’animo, pensieri e performance, e l’esperienza vissuta. L’esperienza intesa come il vivere contenuti psichici, ma soprattutto come l’irriducibile atto iniziale dell’esperienza che si accorge dei contenuti e di sé.
Se il confine cade e ci appiattiamo sul solo corpo neurale, come determinare se la pillola che assume un depresso angosciato o uno sportivo, è un farmaco o una droga?[18]
Il rischio è quello di restare solo con la descrizione neurale di nascita, morte, dolore, cura, malattia mentale, perdendo i livelli multidimensionali dell’esperienza vissuta. E l’evidenza che essa ha un’origine, un atto iniziale e non scavalcabile: “accorgersi”, “domandare”, “credere”, “dubitare”.
3) Il punto cieco della conoscenza e l’ integrazione metodologica
Lo scienziato e filosofo francese Michel Bitbol, collega e collaboratore dello scomparso Francisco Varela, con il quale il Centro Studi A.S.I.A. conduce da anni una proficua collaborazione, definisce l’esperienza- in-atto come il “punto cieco” del pensiero scientifico[19].
La dimensione a noi più vicina, che più potrebbe affrontare in vivo la questione “chi siamo?” risulta infatti invisibile alla scienza, una delle più straordinarie avventure del pensiero umano.
Questo intervento vuole portare all’attenzione come il “punto cieco” inaccessibile alla scienza sia non-riducibile in modo intrinseco.
Per farlo ha cercato di evidenziare alcune forme di esperienza in atto: accorgersi delle teorie, credere in esse, interessarsi, avversarle, domandare, dubitare, etc.. Questi atti sono le condizioni di possibilità trascendentali di ogni conoscenza-in-atto, non riducibili a una neuroimmagine “conosciuta”.
Ma è problematico realizzare e accettare la primarietà del piano dell’esperienza rispetto a quello scientifico. L’effetto di questo fatto è che non riusciamo dare fiducia a ciò che capiamo attraverso l’esperienza diretta, immediata e situata in un corpo che sente. Difficilmente crediamo a noi stessi, a meno che la nostra comprensione non sia suffragata da dati con un suffisso NEURO- .
Come rimediare a questo? La possibilità è di attivare un’integrazione tra i diversi piani della conoscenza in modo che l’esperienza abbia la stessa forza cogente della sperimentazione scientifica. Ci si può addestrare all’incontro (in prima persona) esperito ed esaminato con i fatti mentali o fisici, secondo metodiche fenomenologiche rigorose e condivise. I risultati vanno discussi e argomentati con uno scambio intersoggettivo (seconda persona) perché l’esperienza sia validata e sottoposta al vaglio della ragione e dell’analisi fin dove sia possibile. Infine i dati fenomenologici possono essere inclusi e confrontati con i dati neurali e con i processi psicologici per formulare un discorso scientifico (in terza persona) accettabile.
Il punto più critico, per iniziare, resta il primo; per esso serve un’educazione introspettiva e fenomenologica – una prassi che attraversi il corpo vissuto – per l’esame dell’esperienza in atto[20]. Questo approccio è coltivato da tradizioni contemplative e meditative cui è possibile attingere in modo non confessionale come proposto dal programma di ricerca della Neurofenomenologia di Francisco Varela[21]. Il Centro Studi A.S.I.A. a cui vanno ricondotte le analisi qui presentate, grazie al continuo stimolo del suo Direttore Franco Bertossa si occupa da anni di approfondire la dimensione mentale “vissuta” per farla dialogare con le scienze la filosofia[22].
Riportare in luce il “punto cieco” dell’esperienza in atto ha conseguenze etiche importanti. Abbiamo visto come, in caso di riduzione degli stati mentali a neuro-comportamenti, dobbiamo affidare alle neuroscienze l’ultima parola su vita, morte, etica o estetica. Tuttavia, se vediamo che abbiamo la possibilità di ricollocarci al centro, all’inizio dell’esperienza in atto, possiamo aprirci alla possibilità di trasformare le nostre vite “dall’interno”.
E non perché diveniamo liberi di decidere, ma perché torniamo ad essere il perno – sospeso ma ineliminabile – di ogni evento mentale, psichico, economico, religioso o artistico. Un perno senza suffisso di determinazione, sia esso psico-, neuro- o meta-.
Note – cliccando sul numero si ritorna sul testo annotato.
[1] Morato, 2011
[2] Nesi, 2010
[3] Ibidem.
[4] Legrenzi e Umiltà, 2009, p. 82.
[5] Ibidem, p. 64.
[6] Bertossa e Ferrari, 2005.
[7] Ibidem, p. 94
[8] Perniola, 2001.
[9] Varela, 2001.
[10] Legrenzi e Umiltà, 2009, p. 11
[11] Ibidem, p. 103
[12] Biasi, 2010.
[13] Nesi, 2010.
[14] Ibidem
[15] Ibidem
[16] Ibidem
[17] Morato, 2011
[18] Legrenzi e Umiltà, 2009, p. 108.
[19] Bitbol, 2001, 2002.
[20] Bertossa e Ferrari, 2006.
[21] Varela et al., 1991. Varela, 1996.
[22] Bertossa, 2002. Bertossa e Ferrari, 2005.
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Morato v. (2011), Commento a Neuromania di P. Legrenzi e C. Umiltà, Seminario “Neuro-mania: un dibattito sui limiti della neuroriduzione” Università di Bologna, Aula Magna via S. Filippo Re – 16 marzo 2011.
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