Una panoramica sull’ autopoiesi biologica e la sua relazione con la cognizione
Bologna, 1 Luglio 2006.
In effetti, come ha detto Franco [Bertossa, ndr.], ci troviamo in una fase interessante di nuove frontiere tra scienza e spiritualità. Francisco Varela è stato quello che, forse più di ogni altro, ha
contribuito a costruire questa interfaccia così nuova e il lavoro che lo ha reso famoso, quello sull’autopoiesi e sulla cognizione, ne è testimonianza. Io ho avuto il piacere e la gioia di conoscere Francisco all’inizio degli anni ‘80 ad un famoso congresso a Halpback, in Austria. Fu così un amore a prima vista e siamo rimasti uniti per tutto il tempo successivo. Pensando agli anni insieme, quello che ricordo, oltre ai lavori che abbiamo fatto in collaborazione e alle discussioni, sono i momenti di gioia trascorsi all’isola d’Elba, sotto il sole con i fichi d’india, oppure nella casa al mare di
Francisco ed Amy… Ho immagini che mi vengono in mente piene di luce e di bellezza, unite poi all’ultima immagine che ho di Francisco, decisamente più triste: quella in cui dovetti pronunciare l’omelia funebre sulla sua bara, indubbiamente per me il discorso più difficile della mia vita. Ma penso a Francisco come una faccia ilare, positiva e bella e questo mi rimarrà di lui.
L’autopoiesi è forse l’opera che l’ha reso più famoso; in seguito è venuta la neurofisiologia e tutte le altre cose come l’interazione con le cognitive sciences. L’autopoiesi ha a che fare con il blueprint della vita. C’erano alcune domande essenziali sul vivente sull’agenda di Varela e Maturana, maestro di Francisco nei suoi primi anni all’università di Santiago del Cile, la cui combinazione si può riassumere in “What is life?”, “cos’è la Vita?” Come si può comprendere, con parole e con concetti, questa cosa così complessa e difficile? È possibile fare questo? E unita a queste, la domanda sulla cognizione: come il vivente riconosce il proprio ambiente?
Come riconosce gli altri viventi e li distingue?
Oggi vi presenterò un percorso logico riguardo a come il concetto dell’autopoiesi è nato per fare questo, per discutere la domanda scientifica “cos’è la vita?” La parola vita, così ricca di tanti connotati. Per affrontare questa domanda, dicevo, in termini scientifici bisogna andare là dove la vita ha la sua espressione più semplice possibile, ovvero al livello microscopico, quello dei microbi, degli organismi unicellulari che rappresentano la forma più semplice della vita come la conosciamo sulla terra, ma al tempo stesso decisamente viventi. Essi si riproducono, hanno un
metabolismo, sono cose lunghe solo qualche micron, cioè millesimi di millimetro. Sembrano semplici, ma se uno ci guarda dentro, con lo ‘zoom’ del biochimico, trova una complessità estrema, come vedete in questo schema.
E’ la ‘mappa’ di una cellula: ogni punto rappresenta un composto chimico e ogni linea rappresenta una reazione chimica che unisce due composti. Ogni reazione chimica è catalizzata, come diciamo in biochimica, da una grossa molecola, che chiamiamo enzima. In un microbo ci sono migliaia e migliaia di reazioni e decine di migliaia di componenti, il tutto interconnesso: una complessità tale che ci fa chiedere se il nostro cervello possa essere capace di comprenderla!
Lo scienziato però non si spaventa e dice: “Sì, è complicato, ma posso fare un modello!“ Cos’è una cellula vivente? Per rispondere e capire lo scienziato si fa una figurina di questo genere (la
scienza non andrebbe avanti senza queste figurine che sono molto utili…).
Questo schema ci mostra la cellula come un affare sferoidale, con una membrana che distingue il vivente dall’ambiente esterno, che permette l’entrata di nutrienti indicati come N e l’uscita di composti catabolizzati indicati come H. All’interno di questa sferetta ci sono sì migliaia e migliaia di reazioni, trasformazioni di ogni genere a velocità altissima, ma una cellula rimane sempre se stessa! Una cellula di fegato rimane sempre una cellula di fegato, non si trasforma nel tempo dell’omeostasi, come una cellula di lievito rimane sempre una cellula di lievito.
Come è possibile questa costanza dell’identità a dispetto di tutte queste trasformazioni? La nostra figurina ci suggerisce questa domanda e ci propone la risposta.
Da un lato ci sono tutte queste trasformazioni, ma la cellula è in grado di riprodurre, di rifare dall’interno tutto quello che viene eliminato in un’altra trasformazione chimica. La cellula è effettivamente complicata, ma non fa altro che mantenere e difendere la propria identità: questo fenomeno prende il nome di automantenimento, self manteinance. A dispetto di questo enorme numero di trasformazioni, la cellula mantiene se stessa.
Come fa la cellula a mantenere se stessa nonostante questo numero enorme di trasformazioni?
La cellula lo fa grazie a un processo di rigenerazione dall’interno, per cui si arriva a una prima descrizione della vita cellulare come un sistema definito spazialmente da un confine generato
dal sistema stesso, sistema che è ‘automantenente’ , che si auto-mantiene, rigenerando tutti i componenti del sistema dall’interno… Quindi la cellula vivente, il sistema vivente minimale, può essere caratterizzato così, come qualcosa che si rifà dal didentro e la generazione di questi concetti è la base della teoria dell’autopoiesi di Maturana e, soprattutto in seguito, di Francisco. Nel loro principale articolo risalente al ’74, di cui Francisco era il primo autore insieme a Maturana e Uribe, definirono l’unità autopoietica come un’unità che è capace di autogenerarsi grazie a una rete di reazioni che hanno luogo all’interno di uno spazio confinato.
Questo discorso si presta a un’altra figurina che rappresenta la vita come un sistema che segue una logica di natura ciclica, un sistema organizzato (bounded system), il quale genera una rete di
reazioni, per esempio metabolica (metabolic reaction network), ma, in generale, qualsiasi rete di reazioni, che a sua volta genera composti molecolari (molecular components), che, poi, si riassemblano nel sistema stesso e così via, in questa logica ciclica nella quale non c’è inizio né fine.
Mi piace citare qui una recente frase di Maturana in un’intervista che dice:
“quando guardi un sistema vivente trovi sempre una rete di processi o di molecole che reagiscono tra di loro in tale modo da produrre la rete che li ha prodotti e che determina il proprio confine: tale rete chiamo autopoietica. Ogni volta che incontri una rete le cui operazioni producano se stessa come risultato, sei di fronte a un sistema autopoietico. Produce se stesso. Il sistema è aperto all’ingresso di materia, nutrienti, energia dall’esterno, ma è chiuso rispetto alla dinamica delle reazioni che lo generano”, chiuso nel senso che il sistema contiene tutte le informazioni capaci di dare luogo a questa riproduzione dall’interno, che è la base.
Da tutto questo è evidente che l’autopoiesi appartiene epistemologicamente alla teoria sistemica, secondo la quale è l’organizzazione dei componenti che caratterizza la qualità del sistema; così la vita di una cellula è una proprietà globale, estesa, e non può essere ascritta a nessun singolo componente.
Il DNA per sé non è vivente: prendetelo e mettetelo in una provetta avrete una molecola che si degrada e non fa niente da sola. Solo l’interazione reciproca di tutte queste molecole dà luogo a una tale auto-organizzazione che chiamiamo vita. La vita cellulare, quindi, è una proprietà che si definisce, nella teoria della complessità, ‘emergente’: una proprietà che ‘salta fuori’ qualitativamente nuova, a un certo livello di complessità, dall’interazione di certe parti; qualità che, però, non è presente in nessuna delle parti distinte, separate.
E una volta che avete definito così la vita a livello cellulare, beh, un elefante funziona nello stesso modo! Un elefante è una fabbrica che si rifà dall’interno: c’è un metabolismo dove migliaia, forse milioni di molecole, continuamente si trasformano le une nelle altre… ma un elefante rimane sempre se stesso, perché rifà dall’interno tutto quello che viene trasformato. Così funziono io e anche voi: perdete ogni secondo milioni di cellule della pelle, ma queste vengono rifatte dall’interno; le nostre molecole di emoglobina si trasformano nel giro di pochi giorni, però vengono rifatte dall’interno; io mi faccio la barba ogni mattina e questa caparbiamente ritorna fuori dall’interno; tutto in questa ‘fabbrica’ si rifà dall’interno.
Se venisse qui sulla terra un alieno e chiedesse “cos’è vivente e cosa non è vivente?”, qualsiasi semplice uomo potrebbe distinguere nella sua lunga lista il vivente dal non-vivente: l’albero, il fungo, l’ameba, la mosca appartengono alla categoria del vivente; mentre il cristallo, la luna, il computer, la radio no. Se questo alieno chiedesse “ma cos’è che discrimina il vivente dal non vivente?”, cioè “qual è la qualità che è presente in tutti i membri della lista del vivente a dispetto della loro grande differenza, dalla mosca, al bambino, all’albero? qual è l’elemento che accomuna tutti i viventi e che non può essere presente in nessuno dei non viventi?”
Quello che distingue i componenti della ‘lista del vivente’ è questa capacità di mantenere l’identità grazie a un sistema di trasformazioni coordinate e organizzate, facenti parte del sistema stesso. Questo insieme di trasformazioni e la loro auto-organizzazione sono le chiavi del concetto di autopoiesi, e determinano e caratterizzano l’interazione del vivente con l’ambiente esterno, dall’evoluzione all’ecologia: il mondo è visto dall’interno del sistema vivente stesso. Quindi si arriva a questa definizione del vivente che è vera così per una cellula come per un albero.
L’albero che perde i frutti e le foglie nell’inverno, li riproduce dal proprio interno nella primavera e nell’estate, anch’esso assimilabile alla definizione di ‘fabbrica che si rifà dall’interno’.
Tutto questo definiamo come automantenimento dall’interno: mediante una rete dinamica di interazioni definite, costruite dal sistema stesso, il sistema produce la stessa dinamica di interazioni, che ha come scopo la produzione del sistema stesso! Semplice ma complicato al contempo. Questo sistema è un complesso equilibrio di reazioni chimiche, di trasformazioni, di continua distruzione e generazione di una moltitudine di molecole facenti parte del sistema: migliaia di reazioni di generazione in competizione con altrettante reazioni di decomposizione. Se la velocità di
generazione è uguale alla velocità di decomposizione, il sistema rimarrà sempre se stesso, non importa quanto grande sia il numero delle reazioni in gioco.
Se un ‘chimico’ guardasse quest’altra figura potrebbe pensare:
“Mah, se un sistema autopoietico è così, io un sistema del genere me lo faccio in laboratorio! Prendo un liposoma e ci metto dentro dei componenti che facciano queste cose… Vuol dire che allora ho un sistema autopoietico? E’ questo un sistema vivente oppure no?” Non entro in questa problematica: vi voglio solo indicare che una volta che avete definito un sistema autopoietico di questo genere potete pensare a fare esperimenti.
Passando dal piccolo al grande, l’autopoiesi oggigiorno è importante anche nella scienza sociale, perché questo discorso di un sistema che è definito dalle sue stesse regole e che tende ad auto-mantenersi a dispetto di trasformazioni interne, grazie al proprio sistema di rigenerazione, vale per una cellula ma vale, ad esempio, anche per un partito politico. In un partito politico entrano dei membri, è definito da certe regole, è delimitato da un certo confine nel quale i nuovi membri entrano. Questi vengono trasformati in membri del sistema dalle regole stesse.
I membri diventano così parte del sistema e fanno, a loro volta, sì che altri vengano accettati grazie alle regole del sistema. Questo meccanismo vale per un ospedale o per una grossa compagnia, e si può applicare anche nello studio del marketing, come nel caso di Luman.
Il meccanismo che abbiamo descritto guida anche l’evoluzione: un organismo può essere visto come un depositario di una lunga storia di cambi di adattamento.
Importante è il discorso della ‘cognition’, cognizione. Questo termine che, come diceva Francisco anche nel suo ultimo libro in spagnolo ‘El fenomeno vida’, forse non è stato il più indovinato dal punto di vista semantico, perché il concetto di cognizione è quello della interazione intelligente (vedremo cosa vuol dire intelligente, un’altra parola forse tropo azzardata) con l’ambiente, che è ciò che caratterizza il processo vita: autopoiesi e cognizione sono usati insieme per definire questa cosa più complessa che si chiama vita.
L’autopoiesi da sola è più una condizione necessaria, ma non sufficiente: su questo ‘necessaria’ e ‘sufficiente’ ci sono diversi lavori scritti, anche dal qui presente Michel Bitobol, dei quali non vi
darò dettagli. Invece, questo discorso dell’interazione con l’ambiente è importante.
Una cellula, ossia un sistema autopoietico, prende dall’ambiente quello che gli serve per la propria sussistenza: è come se questa roba che si prende dal di fuori, sia cibo o altro, sia necessario per definire la vita stessa.
Gli autori qui usano dire che l’organismo crea il proprio mondo dall’ambiente! La parola creare può suonare molto pesante ed esagerata, ma è usata anche dai biologi e in ambito filosofico, per esempio da Merleau-Ponty (filosofo contemporaneo o quasi), che dice che “l’organismo stesso con i suoi recettori, i suoi centri nervosi, con i movimenti degli organi, sceglie gli stimoli ai quali essere sensibile.
L’ambiente viene fuori dal mondo con l’attualizzazione dell’essenza dell’organismo”. Capire questo è forse un po’ più difficile, mentre capire un biologo è più facile.
Lewontin, un famoso genetista, ha detto che non esiste un ambiente in qualche modo astratto e indipendente: così come non c’è un organismo senza ambiente, così non c’è ambiente senza organismo. Gli organismi non esperiscono gli ambienti, ma li creano! Basta pensare all’uomo che crea il proprio ambiente con ospedali, case, strade, chiese, e tutto quello che volete aggiungere, anche l’inquinamento. Tutto questo sistema-ambiente che l’uomo crea, permette a sua volta la vita dell’uomo stesso; c’è quindi una doppia creazione, l’uomo che crea l’ambiente e l’ambiente che permette la vita dell’uomo… Come il ragno che si costruisce la tela, ma poi è la tela che determina totalmente l’essenza del ragno. Discorso valido nel caso delle termiti o di un alveare, del castoro che costruisce la diga che gli permetterà di vivere, degli uomini con tutte le loro cosine…
Questa entità autopoietica e l’ambiente, in un processo di enaction (parola che più o meno corrisponde al concetto di co-emergenza) si uniscono per dare luogo, attraverso la cognizione, a quel
processo che è la vita. Questa figura, che naturalmente è una costruzione dello scienziato, non è precisa in quanto assume che sia una separazione di base tra struttura autopoietica e ambiente mentre queste due cose non possono essere separate. Esiste questa trinità: unità autopoietica, ambiente e questa operazione di cognizione che li abbraccia e che permette il concetto più grande
che definiamo vita.
Il concetto di cognizione, nella definizione di Varela, è stratificato. C’è cognizione a livello dell’ameba, poi, quando nell’evoluzione sono comparsi organismi più sofisticati (dalla cellula più semplice è cominciato a svilupparsi un flagello, che permette all’organismo di muoversi meglio; poi, sono spuntati piccoli tentacoli per afferrare meglio il cibo e, quindi, organi si senso…) anche la cognizione, questa possibilità di conoscenza, si è sempre più perfezionata, migliorata, fino ad arrivare all’uomo, dove la cognizione diventa percezione e, quindi, mente.
Il libro di Francisco The embodied mind dovrebbe essere letto e riletto a questo proposito, perchè indica questa unità essenziale tra struttura organica e mente. L’una non può esistere senza l’altro.
Esiste una complementarità che può arrivare (forse questo è un po’ più discutibile) fino al livello di coscienza: non ha infatti molto senso parlare di vita come noi la intendiamo, a livello umano, senza che ci sia una coscienza e non appena c’è una coscienza dovete avere un posto dove ospitarla. Le due cose non possono essere astratte e separate l’una dall’altra ma sono abbracciate.
Questa semplice e complessa teoria dell’autopoiesi/cognizione apre la porta a tutta una serie di scenari: per esempio, quando parlate di relazione con l’ambiente cadete nel campo bello e interessante dell’ecologia. Anche qui si apre la porta a una diversa visione, e questo è di nuovo Lewontine che parla, dicendo che dobbiamo dimenticare l’idea che ci sia un mondo costante e fisso, ma piuttosto esso è in perenne mutazione, perché lo stiamo sempre cambiando. E’ da ciò che deriva la difficoltà di trovare un equilibrio sano che preservi, per quanto sia possibile, l’identità
del vivente.
E ancora tutta una serie di aspetti filosofici. Nella scuola di Santiago, di Maturana e Varela, l’assunzione dell’equivalenza tra struttura organica e cognizione del processo della vita, fa sì che il cervello diventi non più necessario per spiegare (giustificare) l’atto di cognizione: i batteri e le piante non hanno un cervello, ma posseggono capacità cognitive anche se non in senso antropomorfo.
Concludo dicendo che la cosa più importante ed essenziale, per molti di noi, è questo tentativo, nell’eredità di Francisco Varela, di armonizzare il mondo scientifico, il mondo delle molecole e delle loro interazioni, siano esse anche molto complesse (come a livello dei neuroni), con gli aspetti umanistici e spirituali della vita: l’etica, la coscienza, l’arte, la poesia, la religiosità.
Una grande eredità della quale siamo tutti consci e fieri, e che io cercherò di portare avanti, così come spero continueranno a fare tutti i colleghi qui presenti.
Grazie
Pier Luigi Luisi
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