Descrivere l’esperienza soggettiva in seconda persona: un metodo intervistico per la scienza della coscienza

Phenomenology and the Cognitive Sciences 5 (3-4) di Claire Petitmengin
Pubblicato ondine: 29 Novembre 2006
# Springer Science + Business Media B.V. 2006

Traduzione a cura di Fabio Negro, Centro studi ASIA

Riassunto: Questo articolo presenta un metodo intervistico che ci permette di portare una persona, che non necessariamente deve essere stata allenata, a divenire cosciente della propria esperienza soggettiva e di descriverla con grande precisione. Esso è focalizzato sulle difficoltà incontrate nel divenire consapevoli della propria esperienza soggettiva e sulla loro descrizione e sui processi usati in questa tecnica intervistica per superare ognuna di esse. L’articolo termina con una discussione sui criteri che governano la validità delle descrizioni ottenute e infine con una breve rassegna delle funzioni di queste descrizioni.

Parole chiave: esperienza soggettiva, esperienza ante-riflessa, coscienza, seconda persona, prima persona, metodo intervistico, fenomenologia

Introduzione: problema

Fino a poco tempo fa l’esperienza soggettiva era esclusa dal campo della ricerca scientifica: i dati erano considerati scientifici solo se erano riproducibili in modo identico e ottenuti da un osservatore neutrale e obiettivo esterno all’oggetto del suo studio. Questo era in particolare il credo della psicologia classica sperimentale, che è basata esclusivamente sui cosiddetti dati in “terza persona”, cioè quelli raccolti da un osservatore esterno e da uno sperimentatore. Ma recentemente un piccolo e crescente gruppo di scienziati cognitivisti è giunto alla conclusione che al fine di studiare la cognizione non ci si può più limitare a dati che possono essere osservati e registrati da fuori, e che è essenziale prenderne in considerazione la dimensione soggettiva così come essa viene vissuta dall’interno [1]. La ragione di questo fatto è chiara: la descrizione di un processo cognitivo in prima persona, per esempio mentre il soggetto ne sta facendo esperienza, è di gran lunga più precisa e ricca di una descrizione indiretta. Ma curiosamente è stato, soprattutto, lo sviluppo delle tecniche di neuro-immagine cerebrale, sempre più sofisticate, a innescare questa realizzazione: questo perché i dati ottenuti con queste tecniche generalmente non possono essere interpretati senza una descrizione dell’esperienza soggettiva del soggetto la cui attività cerebrale viene registrata.
Questo iniziale riconoscimento – la necessità di tradurre in resoconti l’esperienza soggettiva studiata – è stato subito seguito da un altro: la descrizione della propria esperienza soggettiva non è un’attività banale, ma al contrario estremamente difficile. Perchè è così? Perché una parte sostanziale della nostra esperienza soggettiva si dispiega al di sotto della soglia di coscienza. Quanti di noi sarebbero in grado di descrivere precisamente la rapida successione delle operazioni mentali che avvengono nella memorizzazione di una lista di nomi o del contenuto di un articolo, per esempio? Non sappiamo come ci muoviamo nell’attività del memorizzare, o nell’osservare, immaginare, scrivere un test, risolvere un problema, relazionarsi alle altre persone… o persino nel mettere in atto una qualche azione pratica come preparare una tazza di tè. In generale sappiamo come eseguire queste azioni, ma abbiamo una coscienza piuttosto parziale di come lo facciamo. La nostra esperienza più immediata e più intima, quella che stiamo vivendo qui e ora, è anche la più sconosciuta e la più difficile ad essere penetrata. Indirizzare la nostra attenzione alla nostra esperienza cosciente, e a fortiori descriverla, richiede uno sforzo interiore, un tipo speciale di allenamento, un tipo speciale di competenza [2].
Una parte sempre più ampia della comunità scientifica è perciò giunta alla conclusione che è essenziale sviluppare rigorosi metodi che ci mettano nelle condizioni di studiare in modo molto preciso l’esperienza soggettiva, con l’obbiettivo di allenare i ricercatori e i soggetti studiati. Le tecniche buddiste di esplorazione dell’esperienza interiore, provate e raffinate lungo un arco di tempo di venticinque secoli da generazioni di meditanti, ci forniscono di percorsi e mezzi di inestimabile valore per la costruzione di questi metodi di investigazione. Ma padroneggiare le tecniche meditative richiede un allenamento intenso di molti anni. Per di più queste tecniche sono state concepite per permetterci di divenire consapevoli delle dimensioni più profonde della nostra esperienza soggettiva, ma non necessariamente di tutti i nostri processi cognitivi in tutte le loro dimensioni e dettagli. Infine, non sono state concepite per produrre una descrizione verbale dell’esperienza, la quale richiede un tipo veramente speciale di competenza. Per tutte queste ragioni, la partecipazione, di un meditante esperto, ai protocolli di raccolta dei dati in prima persona non è sempre possibile, o sufficiente.
Questo articolo propone e presenta un metodo d’intervista che ci consente di portare una persona, non necessariamente allenata, a divenire cosciente della sua esperienza soggettiva e di descriverla con grande precisione. Questo, perciò, è un metodo che consente la raccolta di dati in prima persona, per esempio dati che esprimono il punto di vista del soggetto stesso, nella forma grammaticale ‘io…’. Ma nel momento in cui questi dati vengono raccolti attraverso un’altra persona (un ‘tu’), è stato chiamato metodo in ‘seconda persona’ (Varela & Shear, 1999b).
L’articolo si focalizza sulle difficoltà incontrate nel divenire consapevoli e nel descrivere l’esperienza soggettiva e sui processi attraverso i quali questa tecnica d’intervista tenta di superare questi ostacoli. Anche se queste difficoltà sono interconnesse e i processi attuati sono strettamente intrecciati, tenterò di evidenziarli individualmente con lo scopo di rendere più chiara questa complessa questione.
Concluderò l’articolo con una discussione dei criteri che supportano la validità delle descrizioni ottenute e con una breve rassegna delle funzioni di queste descrizioni.

Fonti del metodo e contesti d’uso

Questo articolo si sviluppa in modo tale da rimanere ancorato alla realtà: non intende essere una riflessione astratta sulle condizioni che governano la possibilità di una descrizione dell’esperienza soggettiva, ma piuttosto l’esposizione delle difficoltà pratiche incontrate nei nostri tentativi di esplicitazione, l’esperienza di relazionarsi all’esperienza vissuta propria di un soggetto. Questo obbiettivo mi porterà a riferirmi attraverso l’intero articolo a quei ricercatori che hanno studiato questo tipo di esperienza e hanno:

– fatto luce sulla dimensione ante-riflessa dell’esperienza soggettiva
– descritto gli atti interiori che ci consentono di divenire consapevoli e di descrivere questa esperienza
– sviluppato processi che possono aiutare un’altra persona ad attuare questi gesti nel corso di un’intervista
– forgiato termini per riferirsi in modo preciso a questi gesti: conversione, evocazione, riferimento diretto, posizione d’attenzione, posizione di parola, ecc.

Perciò, in questo testo evocherò la psico-fenomenologia husserliana, la teoria di Piaget del divenire consapevoli, le teorie della “memoria affettiva” (Ribot, Gusdorf), e il lavoro di James e Tichener. Farò riferimento alle pratiche di alcuni psicoterapeuti che hanno inventato atti linguistici che permettono ad altre persone di divenire consapevoli della loro esperienza vissuta e di descriverla (per esempio Carl Rogers o Milton Erikson). Descriverò alcuni processi del ‘Focusing’, un metodo psicoterapeutico creato da Gendlin (1962/1997, 1996), il cui principio basilare è quello di far entrare il paziente in contatto con la dimensione dell’esperienza soggettiva sentita attraverso il corpo, o ‘sensazione significativa’ [3]. Descriverò alcune tecniche di Neuro Programmazione Linguistica (NPL), che aiutano l’intervistato a scoprire i processi cognitivi interni o ‘strategie’ da lui usati allo scopo di implementarli o di appropriarsene. Lungo tutto l’articolo mi avvicinerò spesso alle dettagliate analisi psico-fenomenologiche fatte da Vermersch (1994/2003) dei vari gesti che consentono di passare dalla coscienza ante-riflessa alla coscienza riflessa e al metodo da lui sviluppato, l’intervista d’esplicitazione [4], da cui derivano molti dei processi da me descritti.
Infine, mi riferirò alla pratica di Mindfulness (samatha-vipasyana), una gamma di tecniche meditative [5] derivate dal Buddismo Indiano che consentono all’inizio di stabilizzare l’attenzione e in un secondo momento di osservare il flusso d’esperienza allo scopo di ricavarne la struttura.
Ho controllato l’accuratezza delle descrizioni a cui mi riferisco e l’efficacia dei processi che descrivo in due modi: (1) per mezzo di me stessa, in prima persona, nella mia propria esperienza, che è, come potremo vedere, il criterio finale di validità per una descrizione [6] e (2) in seconda persona in vari contesti di ricerca e allenamento.
Il primo contesto è costituito da uno studio volto ad indagare l’esperienza soggettiva che accompagna l’apparire di un’intuizione, definito “conoscenza che appare senza l’intermediazione di meccanismi deduttivi o dei sensi usuali”. Ho perciò ricavato una descrizione di una varietà di esperienze intuitive per mezzo di interviste. Quindi, dopo l’analisi e il confronto di queste descrizioni, sono stata in grado di fissare una successione molto dettagliata di stati e gesti interiori, che si è mostrata essere strettamente simile da un’esperienza all’altra e da un soggetto a un altro, in altre parole una struttura generale dell’esperienza intuitiva (Petitmengin-Peugeot, 1999; Petitmengin, 2001).
Ho in seguito usato queste tecniche in un progetto di ricerca ‘neurofenomemologica’ sull’anticipazione delle crisi epilettiche (LeVan Quyen & Petitmengin, 2002; Petitmengin, 2005; petitmengin et al., 2006). Un gruppo guidato da Francisco Varela ha rilevato sottili cambiamenti nell’attività cerebrale pochi minuti prima dell’inizio di una crisi epilettica grazie a un’analisi elettroencefalografica non-lineare e a un’analisi sincronica (Le Van Quyen et al., 2001a, b; Marinerie et al., 1998). Il problema che mi è sorto è questo: queste modificazioni neuro-elettriche corrispondono a modificazioni dell’esperienza soggettiva dei soggetti epilettici e, se è così, a quali? Per tentare di rispondere a questa domanda, ho usato lo stesso metodo ‘in seconda persona’ per ottenere dai pazienti epilettici una descrizione il più dettagliata possibile della loro esperienza ante-attacco con lo scopo di rilevare la struttura dinamica dell’esperienza e identificare qualche caratteristica regolare.
Infine ho applicato questo metodo d’intervista in un ambito d’insegnamento. Per quasi dieci anni ho allenato vari gruppi di studenti con una specializzazione di cinque anni dopo la laurea e in procinto di iniziare la loro vita professionale: futuri psicologi o managers nel campo del sapere. L’obiettivo è quello di mettere questi studenti nelle condizioni di prendere coscienza dei loro processi cognitivi e di esplicitarli così da essere in grado di usare questa tecnica nella loro pratica professionale.

Perché è così difficile divenire consapevoli della nostra esperienza soggettiva?

Dispersione dell’attenzione

La prima ragione per cui abbiamo difficoltà a divenire consapevoli della nostra esperienza soggettiva è legata al fatto che per noi è molto difficile stabilizzare la nostra attenzione. Questo può essere mostrato facilmente se tentiamo di focalizzare la nostra attenzione per esempio su un’immagine interna (io immagino una mela, un tulipano, un elefante, ecc.), o anche su un’immagine esterna (la mia penna, la pietra che uso come fermacarte). Dopo un periodo di tempo molto breve, pochi secondi, sorgono pensieri, per esempio ricordi legati all’immagine e all’oggetto che è il mio punto di partenza, commenti sull’esperienza vissuta o pensieri senza alcuna relazione con questa esperienza. Inoltre questi pensieri mi assorbono a tal punto che mi ci vuole un certo tempo (parecchi minuti in alcuni casi) prima di accorgermi che la mia attenzione si è allontanata dal suo punto di partenza e che mi sono lasciato ‘trasportare via’. E nel momento in cui me ne accorgo (se me ne accorgo), mi rendo conto anche che per tutto questo tempo non ero consapevole che la mia mente stava girovagando, che ero distratto ma non consapevole di esserlo [7]. Infatti durante l’attività dello scrivere in atto adesso, spesso ‘mi perdo’ e realizzo presto o tardi che la mia mente era indaffarata in un’attività piuttosto differente dallo scrivere. Frequentemente mi ritrovo a riprendere a scrivere senza essermi accorta di essere stata momentaneamente distratta: in altre parole in nessun momento mi accorgo che la mia attenzione è stata distolta da ciò su cui avrebbe dovuta essere focalizzata. Questo significa che non abbiamo solo una grande difficoltà a stabilizzare la nostra attenzione ma anche che in generale non siamo consapevoli di questa difficoltà. Per diventare coscienti della natura estremamente fluttuante della nostra attenzione sono necessarie particolari circostanze o un allenamento appropriato.

Assorbimento nell’obiettivo

Il secondo motivo per cui abbiamo difficoltà nel raggiungere consapevolezza della nostra esperienza soggettiva è dovuto al fatto che anche nei momenti in cui la nostra attenzione è concentrata in una data attività siamo completamente assorbiti dall’obiettivo, dai risultati da raggiungere, dal ‘cosa’ e non siamo consapevoli, se non in modo molto blando, del modo in cui tentiamo di raggiungere questo obiettivo, cioè il ‘come’. Per esempio, mentre sto scrivendo queste righe, sono completamente assorbita dal mio obiettivo, che è quello di esprimere una sequenza di idee in modo più chiaro e preciso possibile. Ma ho pochissima consapevolezza dei processi interni che mi permettono di raggiungere questo obiettivo. Per ottenere questa consapevolezza devo spostare la mia attenzione dall’obiettivo stesso verso i processi che mi mettono nelle condizioni di raggiungerlo. Per primo divento consapevole del contatto tra le mia dita e la penna, delle tensioni nella mia schiena, quindi di una rapida successione di immagini, giudizi e confronti, di sottili emozioni, ecc., che nell’insieme costituiscono la mia attività dello scrivere e che normalmente rimangono nascoste perché la mia attenzione è assorbita dall’obiettivo da raggiungere. Allo stesso tempo mi accorgo che pochi istanti prima non ero consapevole del modo in cui scrivevo, che una parte significativa della mia attività mi sfuggiva. Però ero consapevole di star scrivendo, ma ‘in azione’ [8], in un modo ‘non riflesso, ‘ante-riflesso’ [9], o ‘diretto’.
Questa strana caratteristica sembra una costante in tutti i nostri processi cognitivi: nell’attività del leggere, dello scrivere, immaginare, calcolare, osservare, ascoltare, ecc., facciamo uso di processi precisi, ma che in gran parte eludono la nostra coscienza. Questa natura ante-riflessa non necessariamente riduce la loro efficacia: come ha mostrato Piaget, non abbiamo bisogno di sapere come espletiamo un’azione fisica o mentale affinché questa abbia successo: le nostre abilità cognitive sono ‘piuttosto efficaci, anche se non siamo consapevoli di esse’ (Piaget, 1974a, p. 275). La profondità di questa parte ante-riflessa e implicita sembra essere proporzionale al livello di abilità raggiunto (Dreyfus, 1986): più una persona diviene esperta in un certo campo più le sue abilità divengono personali, incarnate, estranee a una conoscenza trasmissibile in forma di concetti e regole che spesso è tipica dei principianti (anche se una parte dell’attività ante-riflessa sembra essere presente indipendentemente dal grado di abilità). Questa specializzazione implicita, che Polanyi chiama ‘tacita’ per evidenziarne la non trasmissibilità (Polanyi, 1962, 1966), è il prodotto di un apprendimento implicito (Perruchet & Vinter. 2002; Reber, 1993), e si evolve e aggiusta per mezzo di un modo implicito di riflessione, una riflessione-in-atto (Schön, 1983). La cosa sorprendente è che, non solo non sappiamo cosa sappiamo, ma non sappiamo che non sappiamo, per esempio, non siamo consapevoli di essere non consapevoli, e questo è il primo ostacolo nella via per diventare consapevoli: perché dovrei pormi il compito di acquisire uno stato di coscienza che non ho, e della cui assenza non sono consapevole? Poiché i nostri processi cognitivi sono le cose più intime e personali di noi stessi, pensiamo di aver familiarità con essi e non ci viene il dubbio, nemmeno per un istante, di dover compiere qualche particolare sforzo interiore per divenirne consapevoli.
Questa mancanza di coscienza riflessa è differente dall’assenza di coscienza risultante dalla distrazione interiore della mente che abbiamo descritto nel paragrafo precedente. Ritorniamo al nostro esempio: nel secondo caso sono consapevole di star scrivendo, ma sono completamente assorbito dal mio obiettivo e non sono consapevole in modo riflesso dei mezzi che sto usando per raggiungere tale obiettivo. Nel primo caso ho perso completamente coscienza della mia attività iniziale (lo scrivere), la mia attenzione è assorbita dalle mie distrazioni interne (dialoghi immaginari, immagini ed emozioni associate, etc.) senza avere alcuna coscienza riflessa del fatto di essere distratto. Non solo non sono consapevole dello stato di distrazione, ma nemmeno, come per l’attività dello scrivere, dei mezzi attraverso cui sono impegnato nel far emergere questo stato di distrazione (come per esempio precise caratteristiche delle mie immagini mentali o il modo in cui le costruisco). Sono perciò in uno stato due volte non conscio. Un’altra differenza consiste nel fatto che nel momento in cui mi accorgo di essere stato ‘portato via’, posso talvolta attivarmi (se mi sforzo) per ricostituire il corso dei miei pensieri durante questo episodio di assenza. Nonostante si tratti della mia propria esperienza, è veramente difficile per me divenire cosciente dei miei processi ante-riflessi implicati nello scrivere o nell’immaginare. Questi due tipi di mancanza di coscienza vengono spesso confusi. Come possiamo vedere i processi usati per colmarli sono differenti.

Confusione tra esperienza e rappresentazione

La terza difficoltà è la seguente: non solo non sappiamo che non sappiamo (come i nostri processi cognitivi avvengono), ma crediamo di sapere, per esempio, in molti casi abbiamo una rappresentazione sbagliata della nostra attività cognitiva, una rappresentazione cui teniamo molto fermamente, a tal punto da essere il maggiore ostacolo per divenire consci di come essa ha avuto luogo. Nella maggior parte dei casi questa rappresentazione errata viene appresa e corrisponde a credenze tipiche di un dato ambiente sociale. Essa è in larga parte veicolata e rafforzata dal nostro linguaggio e particolarmente dalle metafore da noi usate, le quali hanno il potere di strutturare in modo profondo la nostra esperienza. La tenacia delle nostre rappresentazioni e credenze ha due effetti differenti:

(1) un effetto deformante: sostituiamo la descrizione dell’esperienza stessa con una descrizione della nostra rappresentazione di questa esperienza. Proprio come qualcuno che spontaneamente disegna un tavolo, lo disegna così come lo conosce: rettangolare. In realtà, egli deve imparare a vedere il tavolo come gli appare realmente, cioè come un parallelogramma deformato (Vermersch, 1997b, p.7)
(2) un effetto celante: quando certe dimensioni della nostra esperienza non coincidono con la nostra rappresentazione o comprensione, vengono scartate dal campo della nostra coscienza, o “represse”. Come Piaget ha sottolineato noi percepiamo ciò che comprendiamo: “L’interpretazione delle osservabili dipende dal comprendere e non dalla percezione. (…) Divenire consapevoli e capire sembrano supportarsi necessariamente l’un l’altro” (Piaget, 1974a, p.188). [11]

Per esempio, l’intera trattazione medica dell’epilessia è vincolata dalla credenza che gli attacchi siano improvvisi, che non si possa anticiparli o prevenirli. Abbiamo osservato che questa convinzione ostacola considerevolmente la consapevolezza e la descrizione da parte del paziente dei primi sintomi che potrebbe permettergli di anticipare e gestire i suoi attacchi.
Quando una persona tenta di descrivere il modo in cui attua un processo cognitivo, generalmente inizia descrivendo la sua rappresentazione del processo, ovvero ciò che essa crede o immagina di star facendo. Spesso inoltre la persona tende a giudicare, valutare o commentare l’attuazione del processo (per esempio ‘è stato difficoltoso’ o ‘fluiva bene’), o a darne una conoscenza teorica o una spiegazione. Tutti questi dati possono avere un valore, ma non ci danno alcuna informazione circa il reale modo con cui la persona attua un processo cognitivo. Una sforzo particolare è richiesto alla persona per avere accesso alla propria esperienza, quella che giace sotto le proprie rappresentazioni, credenze, giudizi e commenti. Per raggiungere questo obiettivo è utile un’assistenza.

Verso quale dimensione dell’esperienza si dovrebbe dirigere l’attenzione?

Come ha osservato Titchener le principali difficoltà dell’introspezione sono ‘mantenere un’attenzione costante’ e ‘evitare i pregiudizi’. Ma, ha aggiunto, un’ulteriore difficoltà che non è affatto la meno significativa è ‘sapere cosa cercare’ (Titchener, 1899, pp. 24-25).
La nostra profonda ignoranza della nostra esperienza significa che non sappiamo verso quali dimensioni di essa dirigere la nostra attenzione. La difficoltà è simile a quella incontrata da un biologo novizio: non è sufficiente che egli abbia un microscopio se non lo sa usare. Senza allenamento e senza una conoscenza teoretica dettagliata egli non sa cosa cercare e non è in grado di riconoscere ciò che sta di fronte ai suoi occhi. L’osservazione scientifica con un microscopio è un’abilità che deve essere appresa. Lo stesso si applica all’osservazione dell’esperienza soggettiva: senza allenamento e senza una dettagliata meta-conoscenza delle diverse dimensioni dell’esperienza siamo in un certo senso ciechi.
Con l’aiuto di un appropriato allenamento, come quello fornitoci dalla pratica della meditazione samatha-vipasyana, è possibile scoprire da soli le varie dimensioni della nostra esperienza. Col passare dei mesi, il meditatore diviene consapevole in successione e spesso con meraviglia dei vari strati che costituiscono il tessuto della propria esperienza soggettiva. Generalmente il meditante per prima cosa è sorpreso dai vari gradi del discorrere interiore, il “dialogo silenzioso dell’anima con sè stessa”, quello che Platone (1981a) ha chiamato il pensiero stesso (Sofista, 263e). Il meditante quindi scopre, accompagnando questo mormorio pressochè ininterrotto, una sorta di ‘rumoreggiare con le parole’ (Gusdorf, 1950), un rapido flusso di immagini interne e ‘films’ provenienti dalla memoria o costruiti: ricordi recenti o lontani, piacevoli o traumatizzanti, scene future, temute o desiderate vengono messe in scena senza interruzione. Questa attività immaginativa interna è accompagnata la maggior parte delle volte da emozioni di gradi differenti d’intensità. Le immagini e le emozioni stesse coprono uno strato ancora più profondo difficilmente accessibile, uno strato silente in cui il confine tra me e le altre persone, tra il mondo interno e quello esterno, e quello tra le varie modalità sensoriali è molto più permeabile (Petitmengin, 2006).
Oltre a questi vari ‘strati’, il meditante diviene gradualmente consapevole anche della dimensione dinamica della propria esperienza, come per esempio della rapida successione delle operazioni interne – comparazioni, prove e diagnosi – che costituiscono il flusso incessante della sua esperienza soggettiva.
Ma senza allenamento nella maggior parte dei casi favorevoli siamo coscienti solo parzialmente e vagamente di queste diverse dimensioni. La nostra esperienza soggettiva, nonostante sia strutturata in modo molto preciso, ci sembra confusa come un primo abbozzo di progetto. Addirittura siamo spesso semplicemente inconsapevoli dell’esistenza di queste diverse dimensioni. Molte persone che ho intervistato hanno scoperto proprio in questa occasione l’importanza del proprio dialogo interno e molte non avevano coscienza riflessa delle proprie immagini interne. La soglia di percezione delle nostre sensazioni fisiche è generalmente molto alta e noi percepiamo solo le emozioni più intense, dolorose e piacevoli, mentre l’intera gamma delle sensazioni più sottili rimane non percepita.
Per accedere a queste dimensioni è richiesta una particolare ‘posizione d’attenzione’. Questo fatto è illustrato da un’affermazione di James:

“Supponiamo che tre persone ci dicano in successione: ‘Aspetta!’ ‘Ascolta!’ ‘Guarda!’ La nostra coscienza è messa in tre atteggiamenti di attesa del tutto diversi, sebbene in alcuno di questi tre casi non ci sia di fronte ad essa alcun oggetto definito. Tolti i diversi atteggiamenti corporei in atto, tolte pure le immagini che si riflettono nelle tre parole, che naturalmente sono diverse, probabilmente nessuno negherà l’esistenza di una residua affezione consapevole, un senso di direzione da cui è in procinto di formarsi una impressione, sebbene non ci sia ancora alcuna impressione positiva. Frattanto per gli stati psichici in questione non abbiamo altri nomi che ascolta, guarda, e aspetta.” (James, 1890, p. 251)
Allo stesso modo, in apporto alla dimensione interiore che desidero esplorare (visiva, uditiva, emozionale, etc.), non solo devo spostare la mia attenzione dall’esterno all’interno, ma anche adottare una differente ‘posizione d’attesa’ o ‘posizione d’attenzione’, caratterizzata dal proprio centro (una particolare parte della testa o del corpo, ecc.), dalla propria direzionalità (focalizzata o panoramica), e dai propri modi (di tensione verso qualcosa o ricettivo). Queste differenti posizioni d’attenzione, che danno accesso alla consapevolezza delle varie dimensioni della propria esperienza soggettiva, possono essere apprese. Nell’ambito dell’intervista la mediazione di un esperto che guida il soggetto in queste diverse posizioni facilita considerevolmente l’apprendimento del processo grazie alla sua meta-conoscenza [13] di queste dimensioni e al modo in cui l’accesso ad esse può essere raggiunto.

Fino a quale grado di precisione dobbiamo portare l’osservazione?

Se non siamo del tutto inconsapevoli di una dimensione, la consapevolezza che abbiamo di essa è generalmente confusa e approssimata. Dobbiamo imparare ad aggiustare la lente del nostro microscopio psicologico per osservarla con precisione e nei suoi dettagli. Indipendentemente dal fatto che si tratti della dimensione visiva, uditiva o cinestesica della nostra esperienza, o della sua dimensione dinamica, questo tipo preciso di osservazioni non solo ci richiede di avere stabilizzato sufficientemente la nostra attenzione, ma anche di avere una certa conoscenza del grado di precisione possibile e che desideriamo raggiungere. In questo modo viene estremamente facilitata la mediazione di un intervistatore esperto che, guidato dalla sua conoscenza delle categorie descrittive di queste differenti dimensioni, incoraggi il soggetto a scendere nella scala della precisione della descrizione a profondità che egli non immagina neppure.

L’accesso in tempo reale è impossibile

La sesta difficoltà è costituita dal fatto che non abbiamo altra possibilità che accedere all’esperienza che in modo retrospettivo dopo un periodo di tempo più o meno lungo. Come quando per ragioni di ricerca ritorniamo a un’esperienza passata che non può essere riprodotta: per esempio, l’emergenza di una nuova idea, o le sensazioni che precedono un attacco epilettico. Ma anche nel caso più favorevole, ovvero quando l’esperienza può essere riprodotta a volontà, è impossibile descriverla come se fosse in atto; possiamo solo descriverla retrospettivamente per svariate ragioni.

– Primo a causa della rapidità del processo. Per esempio quando pronuncio una parola o quando memorizzo un’insieme di figure, le operazioni sono così numerose e così rapide che risulta impossibile anche con un intenso allenamento osservarle nello stesso istante in cui le attuo. Questo fatto è stato sottolineato da James:

“La corsa del pensiero è così impetuosa che ci porta quasi sempre alla conclusione prima che possiamo restare in esso. O se siamo abbastanza lesti da fermarlo, esso svanisce immediatamente. (…) Il tentativo di un’analisi introspettiva in questi casi equivale ad arrestare una trottola per afferrarne il movimento o a spegnere il gas abbastanza velocemente per vedere l’apparire dell’oscurità…” (James, 1890, 244).

Per divenire cosciente dell’emergenza del processo, devo rimetterlo-in-scena, rievocandolo in una modalità introspettiva. E devo per di più rimetterlo-in scena molte volte: la prima volta posso solo identificare le fasi principali del processo. Devo rimettere-in-scena ognuna delle fasi per descriverla nella forma di una gamma di operazioni che devo poi rimettere-in-scena una dopo l’altra per accedere a un livello più dettagliato e così via fino a raggiungere la precisione richiesta.

– Anche la complessità del processo gioca un ruolo. Mi è impossibile infatti focalizzare in un sol colpo l’attenzione su tutte le dimensioni esperienziali (visiva, uditiva, cinestesica, emotiva, ecc.).
Devo rimettere-in-scena il processo molte volte, ogni volta focalizzando la mia attenzione su una dimensione diversa.
– Ma la rapidità e la complessità del flusso dell’esperienza non sono l’unica motivazione della necessità di un accesso retrospettivo ad essa. La ragione principale consiste nel fatto che è impossibile dirigere la nostra attenzione su un oggetto del processo e allo stesso tempo sul ‘cosa’ esso è e sul ‘come’ esso emerge. Per esempio, il contenuto di un’immagine e i suoi modi di apparire costituiscono due conenuti d’attenzione differenti, che richiedono due modi, due orientazioni e due ‘posizioni’ d’attenzione differenti. Dopo che mi è apparsa un’immagine interna, se voglio divenire cosciente del modo con cui appare, devo ‘ri-mettere-in-scena’ l’emergenza iniziale dell’immagine mentre dirigo la mia attenzione in modo differente. Questo aspetto è stato sottolineato da John Stuart Mill più di 100 anna fa:

“Un fatto può essere studiato attraverso la mediazione della memoria, non nel momento stesso in cui lo percepiamo, ma nel momento che lo segue: e questo è realmente il modo in cui la

conoscenza dei nostri atti intellettuali viene acquisita. Riflettiamo su ciò che stavamo facendo l’atto è passato mentre le sue impressioni sono ancora fresche nella memoria.” (Mill, 1882/1961, 64)

In ogni caso questo accesso retrospettivo è tutt’altro che semplice. Anche quando un’esperienza è appena finita la sua ‘ri-messa-in-scena’ o ‘presentificazione’ è un processo cognitivo complesso che richiede allenamento e preparazione e che può essere considerevolmente facilitato dall’assistenza di una persona esperta.

La trasposizione in parole

Un’ulteriore difficoltà nasce nel momento in cui diamo espressione alla nostra esperienza. Il vocabolario a nostra disposizione per descrivere le molteplici dimensioni della nostra esperienza soggettiva è piuttosto povero e questa povertà probabilmente deriva dal fatto che nella nostra cultura l’esperienza è stata poco esplorata. Per esempio non abbiamo parole precise per descrivere le sensazioni cinestesiche [14] o i sottili processi interni che ci consentono di ridirigere la nostra attenzione verso l’interno per stabilizzarla e per focalizzarla su una specifica dimensione, al fine di confrontare rapidamente una sensazione presente con una ricordata. Inoltre, come Schooler (2002) si chiede, la verbalizzazione non provoca una interruzione e una ‘sovraimpressione verbale’ nell’esperienza descritta?

I processi intervistici

L’attenzione instabile, l’assorbimento nell’oggetto, il perdersi nelle rappresentazioni, la mancanza di consapevolezza delle dimensioni e del grado di precisione del dettaglio da osservare, l’impossibilità di un accesso immediato – tutte queste ragioni spiegano perché le descrizioni in prima persona spontanee sono generalmente così povere (come viene evidenziato in Lyons, 1986 e Nisbett & Wilson, 1977). Quali processi possono essere sfruttati da un esperto intervistatore per superare queste difficoltà e permettere all’intervistato di divenire consapevole della propria esperienza soggettiva e di descriverla?

Stabilizzare l’attenzione

Prima di tutto, il contesto e le condizioni dell’intervista (che è importante stabilire all’inizio dell’intervista o ristabilire se l’intervista è stata precisata durante il suo svolgimento) aiutano il soggetto a mantenere l’attenzione sull’esperienza che deve essere esplorata: “Stiamo insieme per un tempo prestabilito, con un obiettivo specifico, quello di ottenere una descrizione di questa esperienza”. Questo contesto rende la stabilizzazione dell’attenzione più semplice rispetto al tentativo del soggetto di descrivere la propria esperienza da solo. La situazione dell’intervista e la mera presenza dell’intervistatore agiscono durante l’atto intervistico come una sorta di ‘contenitore’ dell’attenzione dell’intervistato e lo aiutano a rimanere all’interno dei confini dell’esperienza che deve essere esplorata.
Il contesto comunque non è sufficiente per evitare che il soggetto cada in commenti, valutazioni e giudizi sulla propria esperienza o in digressioni sulle proprie preoccupazioni del momento, che naturalmente non centrano con l’esperienza da esplorare. Onde percui sono necessari alcuni processi complementari per fare in modo che il soggetto stabilizzi la propria attenzione. Uno di essi, derivante dal metodo Focusing, consiste all’inizio dell’intervista nell’incoraggiare il soggetto ad abbandonare le preoccupazioni che lo assillano allo scopo di ripulire lo spazio interno. L’obiettivo non è quello di liberarsene ma di metterle momentaneamente da parte per la durata dell’intervista in modo tale da entrare in una relazione rilassata con l’esperienza da esplorare.
Un terzo processo che può aiutare il soggetto a stabilizzare la propria attenzione è la riformulazione sistematica da parte dell’intervistatore di quello che il soggetto ha detto. Di fronte ad ogni divagazione l’intervistatore riformula incessantemente e a costo di ripetersi tutti gli elementi descrittivi riguardanti l’esperienza in questione e questo serve effettivamente a rifocalizzare ogni volta l’attenzione del soggetto sull’esperienza. Inoltre l’intervistatore chiede al soggetto di rilevare l’accuratezza delle proprie riformulazioni. Per attuare questo controllo la sola cosa da fare da parte del soggetto è quella di ritornare all’esperienza. Per esempio:

“Ho intenzione di ripetere spesso ciò che tu mi dici, così puoi verificare se ho capito correttamente e se ho tralasciato qualcosa. Non esitare di interrompermi. Così se ti ho capito correttamente, tu hai iniziato leggendo il soggetto della dissertazione alla lavagna e poi ti sei detto che tutto ciò è facile. In questo modo ti sei ricordato di una lezione che è stata dedicata precisamente a questo argomento (…).”

Un quarto processo consiste – ogni volta che il soggetto perde di vista la descrizione della propria esperienza per dare commenti o giudizi su di essa o addirittura si perde in considerazioni ancora più distanti – nel porgli una domanda che lo riporti indietro, fermamente ma non duramente, all’esperienza in sé. Per esempio:

“Questa dissertazione è stata un completo fallimento e sei deluso. Ti sei detto che potresti far meglio. Io comprendo la tua delusione e ti propongo di analizzare il modo con cui ti appresti a scriverla. Come hai cominciato?”

Un quinto processo consiste nell’uso del ‘riferimento diretto’ (Gendlin, 1962): si tratta di incoraggiare la persona intervistata, quando una sensazione o un’operazione interna ancora vaga e sfocata, difficile da stabilizzare, inizia ad emergere dalla coscienza, a designarla con termini generici come ‘questa sensazione’, ‘quella’, ‘questa strana cosa’. Questi simboli agiscono come indicatori, essi isolano le sensazioni dal flusso dell’esperienza. Sono come agganci che ci aiutano a mantenere a fuoco e a stabilizzare la nostra attenzione su una sensazione o su un’operazione interna.
Questa funzione di indicatore può essere svolta da una parola o da un gruppo di parole o anche da simboli non-verbali, visivi o cinestesici. Per esempio, prima che l’intervistato divenga cosciente di una sensazione o di un’operazione interna spesso le designa per mezzo di un gesto. L’intervistatore può sfruttare questi gesti per aiutare la persona a divenire cosciente della sensazione o dell’operazione e poi a mantenere l’attenzione su di esse.

Spostare l’attenzione dal ‘cosa’ al ‘come’

Il divenire coscienti della parte ante-riflessa della nostra esperienza implica una rottura con le nostre attitudini abituali, che, come abbiamo visto prima, tendono ad attuarsi senza che noi siamo coscienti del modo in cui ciò avviene, addirittura senza essere coscienti di questa mancanza di coscienza. Abbiamo bisogno di distogliere la nostra attenzione dal ‘cosa’, che normalmente la assorbe completamente, per dirigerla sul ‘come’. Questo riindirizzamento dell’attenzione talvolta viene innescato da un ostacolo o da un fallimento, ma può essere ottenuto attraverso l’allenamento e l’apprendimento. Si tratta precisamente della cosiddetta ‘conversione fenomenologica’ husserliana, che consiste nel distogliere l’attenzione dagli oggetti che appaiono alla coscienza verso i modo soggettivi con cui questi oggetti appaiono (Husserl, 1913/1950, 1925/1962). L’attenzione è spostata dall’oggetto percepito all’atto del percepire, dall’oggetto immaginato all’atto dell’immaginare, dall’oggetto ricordato all’atto del ricordare. Questa conversione dell’attenzione dal contenuto al processo, che permette di passare dalla coscienza diretta alla coscienza riflessa (Vermersch, 2000a), può essere attuata in tutte le attività, da quelle più ampiamente praticate (immaginare, memorizzare, ricordare, osservare, risolvere un problema, relazionarsi ad altre persone), a quelle più specializzate, specifiche di un particolare campo in cui si è esperti.
Per spiegare questo movimento di conversione ai partecipanti a una sessione d’allenamento nell’intervista d’esplicitazione (Vermersch, 1994/2003) l’istruttore suggerisce a ognuno di essi di eseguire un semplice compito: scomporre una parola, memorizzare una lista di parole o una matrice di figure. Non appena il compito è stato completato, li viene richiesto di descrivere il modo con cui hanno attuato questo compito. Finchè si rimane sul piano generale, gli studenti non hanno alcuna difficoltà nell’eseguire il compito precedentemente spiegato. Ma piuttosto differente è descrivere il modo con cui essi eseguono il compito: l’assistenza di un intervistatore diviene essenziale per aiutarli a staccare la loro attenzione dal contenuto (che può per esempio essere memorizzato) e spostarla sull’atto (del memorizzare). Ci vuole 1 ora per spiegare un compito per realizzare il quale basta 1 minuto.
A questo proposito riporto nell’Appendice 1 un estratto di un’intervista in cui l’intervistatore, dopo aver chiesto all’intervistato di ‘pensare un elefante’, mette l’intervistato nelle condizioni di spostare la propria attenzione dall’immagine prodotta (della quale egli avrebbe facilmente fatto una descrizione) verso i modi di apparire dell’immagine, esplorando gradualmente le dimensioni visive, uditive ed emozionali dell’esperienza. Questo stralcio dell’intervista offre il vantaggio di illuminare la grande varietà di operazioni interne, la maggior parte delle quali ante-riflesse e susseguentesi una dopo l’altra durante i 3 secondi necessari per attuare questo compito quotidiano (una varietà che può sorprendere un lettore che non ha mai partecipato a un esperimento di esplicitazione).
Attraverso ogni intervista di questo tipo è la questione del ‘come’ ad innescare la conversione dell’attenzione dell’intervistato verso i propri processi interni ante-riflessi. Questo può essere in contrasto con la questione del ‘perché’, la quale devia l’attenzione verso la descrizione degli oggetti e verso considerazioni astratte e deve perciò essere evitata. Per esempio:

1 Cosa accade quando ti ho chiesto di scomporre la parola ‘gazzella’?
2 Ho letto le lettere contenute nella parola.
3 Come le hai lette?
4 Ho visto la parola nella mia testa.
5 Cosa hai visto esattamente, com’era questa parola nella tua testa?
6 Etc.

Se l’intervistato rimane assorbito nella descrizione dell’oggettivo, attraverso domande appropriate lo si può aiutare a spostare la propria attenzione dall’oggettivo ai processi che portano ad esso. Per esempio: “E per raggiungere questo obiettivo cosa fai precisamente? Come inizi?” O in alternativa: “Come sai che hai raggiunto il tuo obiettivo?”, “Come riconosceresti che l’obiettivo è stato raggiunto?”
Da notare che la tecnica talvolta raccomandata per ottenere una descrizione di un processo cognitivo, consistente nel chiedere all’intervistato di ‘pensare ad alta voce’ mentre esegue il compito richiesto (Ericsson, 2003; Ericsson & Simon, 1984/1993), non induce il riindirizzamento dell’attenzione dal ‘cosa’ al ‘come’ e nemmeno la consapevolezza della dimensione ante-riflessa del processo studiato. Questa tecnica nel migliore dei casi permette di avere accesso al dialogo interno dell’intervistato durante l’esecuzione del compito: questo dialogo, che normalmente è limitato ai giudizi e ai commenti che l’intervistato pronuncia durante l’esecuzione del compito, rappresenta solo una piccola parte della propria attività.

Passare da una rappresentazione generale a una singola esperienza

Allo scopo di indurre nell’intervistato questa conversione d’attenzione e di descrivere cosa stia realmente facendo e non cosa egli pensi o stia immaginando di fare, è essenziale aiutarlo a passare da una descrizione generale alla descrizione di una situazione particolare, precisamente situata nel tempo e nello spazio. Nessuno ha un’esperienza ‘in generale’. Un’esperienza vissuta è necessariamente unica. “Un’esperienza vissuta che non sia un momento singolare nella vita di una data persona non è un’esperienza vissuta” (Vermersch, 1997a, p. 8, 1997b). Se chiedi all’intervistato: “Come lo fai?” (scomporre una parola, memorizzare qualcosa), è quasi certo che otterrai una descrizione piuttosto generale, corrispondente alla rappresentazione che egli ha di ciò che sta facendo. Senza capire che questa distorsione sta avvenendo, egli descriverà le regole che ha imparato e le sue conoscenze teoretiche circa i processi cognitivi in questione. Ti darà una descrizione astratta che risulterà considerevolmente impoverita e in cui la dimensione ante-riflessa dell’esperienza vissuta non sarà messa in evidenza. L’obiettivo è di guidare la persona da una descrizione, una definizione o una spiegazione generale (come “Le idee mi vengono quando non le cerco più, quando sono rilassato, quando cammino per esempio”) verso la descrizione di una singola esperienza:

“Esattamente in questo periodo lasciai Caen, dove vivevo, per partecipare a un’escursione geologica sotto gli auspici della scuola mineraria. (…) Dopo aver raggiunto Coutances prendemmo un autobus per cambiare luogo. Nel momento in cui appoggiai il piede sulla pedana mi venne l’idea che le trasformate che avevo usato per definire le funzioni di Fuchsian erano identiche a quelle della geometria non-euclidea.” (Poincaré, 1947)

È solo aiutando l’intervistato a identificare un’unica esperienza che hai una possibilità (se poni le domande giuste) di metterlo nelle condizioni di divenire cosciente della dimensione ante-riflessa della propria esperienza e di descriverla. Più l’intervistato è a contatto con una specifica e genuina esperienza vissuta, meno rischi corre la sua descrizione di scivolare in una rappresentazione generale. La scelta di un’unica esperienza è perciò uno stadio essenziale nell’intervista [15].

Come scegliere una singola esperienza

Esistono tre casi di base:

(1) Se il processo cognitivo da esplorare è facilmente riproducibile, il ricercatore può escogitare un protocollo che permetta all’intervistato di far emergere il processo qui e ora, e più tardi di descrivere attraverso domande il modo in cui egli si muove attraverso l’attuarsi del processo. Questo è il caso tipico dell’allenamento nella tecnica d’esplicitazione: noi proponiamo una varietà di compiti cognitivi agli studenti (memorizzazione, osservazione, immaginazione, risoluzione di problemi) dei quali devono dare un resoconto dopo averli eseguiti. È anche quello che accade in alcuni protocolli della neuro-fenomenologia, in cui mentre gli intervistati eseguono un compito cognitivo ne registriamo gli elettroencefalogrammi, per esempio il protocollo di visione in 3D sviluppato da Luz (2002): la descrizione dell’esperienza soggettiva può essere ottenuta immediatamente dopo che il compito è stato eseguito.
(2) Dal momento che l’esperienza studiata non può essere riprodotta a volontà, il ricercatore deve aiutare l’intervistato a trovare nel passato una particolare occorrenza di questa esperienza. È quello che ho fatto nelle mie ricerche sull’esperienza intuitiva: mettere l’intervistato nelle condizioni di cogliere l’esatto momento dell’emergenza di una nuova idea, dell’introspezione terapeutica, dell’ispirazione poetica. Questa difficoltà è maggiormente evidente negli studi neuro-fenomenologici sull’anticipazione degli attacchi epilettici: a causa dell’imprevedibilità degli attacchi, la descrizione del periodo che precede un attacco attraverso un’intervista può essere attuata solo a distanza. Inoltre non tutti i periodi che precedono un attacco possono essere descritti. Infatti gli attacchi spesso sono notturni: il paziente è non-cosciente durante questi periodi. E anche quando l’attacco avviene durante il giorno, spesso cancella completamente la memoria dei momenti che lo precedono e talvolta persino il ricordo di avere avuto un attacco. Quindi la scelta dell’attacco su cui concentrare il lavoro è un momento dell’intervista importante e delicato.
(3) Nel caso in cui il processo studiato si protragga per molte ore o giorni dobbiamo selezionare più di un momento specifico. Per esempio, se una sensazione che precede un attacco all’inizio è appena percettibile e poi si amplifica per molte ore prima che l’attacco abbia luogo, o se una nuova idea all’inizio vaga e sfocata impiega molti mesi per maturare, è necessario identificare alcune caratteristiche o momenti decisivi sui quali concentrare il processo d’esplicitazione.

Come guidare il soggetto verso una singola esperienza

Sia che il processo studiato sia stato esperito qualche istante prima o qualche anno addietro, l’intervistato spesso tende a cadere in generalizzazioni, per esempio egli si muove furtivamente da un descrizione della singola esperienza che ha vissuto verso una descrizione della rappresentazione che egli si fa di essa o verso un’esposizione delle proprie conoscenze teoretiche circa il soggetto. La citazione seguente, estratta da un’intervista concernente l’emergenza improvvisa di una nuova idea scientifica, illustra questo slittamento (evidenziato in caratteri italici) spesso osservato durante le interviste:

“A quel punto ho un’immagine nella mia testa. Perciò io appartengo a quella categoria che i matematici chiamano geometri, persone con un’intuizione di tipo visivo, al contrario degli algebristi. Quel tipo di persone hanno bisogno di costruirsi una figura per risolvere un problema incontrato…”

L’intervistatore quindi necessità di una grande dose di determinazione e di delicatezza per portare l’intervistato indietro in prossimità dei limiti della propria esperienza. Egli è spesso costretto a interromperlo e poi, dopo aver riformulato con attenzione le sue parole in segno di ascolto e non per interrompere la relazione che si è instaurata, a portarlo con decisione ad evocare la propria esperienza per mezzo di un suggerimento del seguente tipo:

“Dal momento che appartieni alla categoria dei geometri in quel momento avevi un’immagine nella tua testa. Torniamo a quell’immagine. Riesci a descriverla? Di che dimensioni è?”

Accedere all’esperienza in modo retrospettivo

Sia che l’esperienza esplorata sia stata vissuta appena pochi istanti prima sia alcuni anni fa, è necessario accedervi in modo retrospettivo, come abbiamo visto. L’intervistato deve perciò guidare l’intervistato verso la ‘ri-messa-in-scena’ dell’esperienza passata. Questa tecnica è la chiave di volta del modello intervistico della Programmazione Neuro Linguistica e dell’intervista d’esplicitazione. Come spiega Vermersch (1994/2003), il suo modello teoretico è quello della memoria affettiva o ‘memoria concreta’ (Gusdorf, 1950; Ribot, 1881), che recentemente è stato nominato ‘memoria episodica’ (Cohen, 1989) o ‘memoria autobiografica’ (Neisser, 1982). Questa teoria, che permette di riscoprire il passato in tutta la sua freschezza, densità vissuta e incarnata, si contrappone alla memoria intellettuale, basata sulla conoscenza concettuale, che non è legata a una specifica esperienza vissuta con memoria affettiva. Nella memoria concreta esperiamo una coincidenza immediata con il passato, riviviamo il passato come se fosse presente [16]. Una delle sue caratteristiche principali è l’involontarietà, cioè non avviene in seguito a un pensiero discorsivo, ma spontaneamente e generalmente attraverso un innesco sensoriale [17]. La memoria non può essere deliberatamente attivata. Ma è possibile preparare indirettamente la sua emergenza riscoprendo la sensorialità legata all’esperienza. Per esempio, se ti chiedo: “Qual è stato il primo pensiero che ti è venuto in mente quando ti sei svegliato stamattina?” è alquanto probabile che tu non abbia altra soluzione per recuperare questo ricordo che quella di ritornare col pensiero nel tuo letto al momento del tuo risveglio.
Nel contesto di un’intervista per guidare l’intervistato verso una concreta evocazione di una situazione passata o di una situazione appena accaduta, l’intervistatore lo aiuta a riscoprire il contesto spazio-temporale dell’esperienza (quando, dove, con chi?) e poi a individuare con precisione le sensazioni visive, uditive, tattili e cinestesiche, olfattive e gustative associate con l’esperienza, affinché la passata esperienza sia ‘ri-vissuta’, al punto tale che essa sia più presente della situazione intervistica stessa [18].
L’estratto seguente è preso da un’intervista a cui ci siamo già riferiti e riguarda l’emergenza istantanea di una nuova idea scientifica cinque anni prima:

7 Ti propongo di ritornare a questa esperienza, nel Febbraio del 1997, con l’obiettivo di ri-metterla-in-scena com’era. Sei in ufficio e stai leggendo un articolo di Griffiths…
8 In realtà non ero seduto alla scrivania ma a un piccolo tavolo posto sotto la finestra.
9 Sotto la finestra quindi. Che ora era, approssimativamente?
10 Era sera tra le cinque e le sette. C’era una luce… la lampada sul tavolo era accesa.
11 C’era qualche rumore attorno?
12 No, c’è silenzio, sono solo. Sto leggendo l’articolo. Lo leggo rapidamente, scorrevolmente senza prendere note…

La transizione al tempo presente nell’ultima parte dello stralcio è uno dei segni del fatto che l’intervistato sta di fatto tornando all’esperienza passata. Una gamma di indizi di questo tipo, verbali e anche para-verbali (come il rallentamento del flusso delle parole) e non-verbali (lo spostamento e la non messa a fuoco degli occhi, per esempio il fatto che il soggetto lascia il contatto con gli occhi dell’intervistatore e guarda nello spazio vuoto, lontano nell’orizzonte), permette all’intervistatore di valutare l’intensità dell’evocazione. La persona è quindi in uno specifico stato interiore che può essere facilmente identificato per mezzo di questa gamma di criteri oggettivi ma anche attraverso un criterio soggettivo altrettanto specifico. In questo stato interiore, chiamato ‘stato evocativo’ nell’intervista d’esplicitazione e ‘stato di associazione’ nel modello intervistico NPL, la persona è in contatto con la propria esperienza passata. È solo quando l’intervistatore, grazie a questi indizi, osserva che lo stato evocativo è sufficientemente intenso e stabilizzato che egli può aiutare l’intervistato, con l’aiuto delle appropriate domande, a dirigere la propria attenzione verso gli stati interni e descriverli.
Anche nel caso in cui l’esperienza da esplorare sia recente, nel senso che è appena emersa, l’intervistatore deve guidare precisamente il soggetto verso l’evocazione dell’inizio dell’esperienza. In questo caso il compito appena concluso consisteva nel ‘pensare a un elefante’:

“Ciò che ci stiamo approssimando a fare insieme, ora, è di tornare indietro nel tempo come se avessimo un videoregistratore. A questo fine voglio che tu torni al momento in cui ti ho chiesto: “Pensa un elefante”. Vorrei che tu sentissi nuovamente la mia voce pronunciare queste parole…”

Quando l’esperienza è fatta emergere poco prima dell’intervista per gli scopi della ricerca, è consigliabile inserire nel protocollo uno o due riferimenti o segni per aiutare l’intervistato a ritornare all’inizio della sequenza (un intervento orale o gestuale dello sperimentatore, un segnale specifico). Se l’inizio dell’esperienza da esplorare non può essere identificato precisamente, è possibile iniziare dalla fine della sequenza. Per esempio, per rintracciare alcune sensazioni premonitrici di un attacco epilettico è più facile per il paziente ritornare all’impressionante istante iniziale dell’attacco. In questo modo l’esperienza può essere ri-messa-in-azione e descritta ‘al contrario’.
È comunque raro che l’intervistato rimanga nello stato di evocazione per tutta l’intervista a causa dell’instabilità della sua attenzione e della tendenza a passare dal caso singolo al generale. Talvolta una domanda mal suggerita o una riformulazione da parte dell’intervistatore o un disturbo esterno sono sufficienti a far perdere all’intervistato il contatto con l’esperienza passata. Quando l’intervistatore osserva che l’intervistato sta emergendo dallo stato di evocazione uno degli espedienti che l’intervistatore può attuare per riportare l’intervistato all’interno di questo stato consiste nel riformulare la descrizione del contesto sensoriale dell’esperienza, o nel formulare domande circa questo contesto alle quali la persona non può replicare senza riferirsi alla passata situazione, senza ‘ritornare ad essa’, per esempio:

“Così stai leggendo questo articolo di Griffiths, seduto al tuo piccolo tavolo situato appena sotto la finestra, e la tua lampada è accesa… Sei seduto in modo comodo? Che temperatura c’è? È un articolo di giornale o di un libro? Puoi descrivermi il documento?”

Dirigere l’attenzione alle differenti dimensioni dell’esperienza

Quando lo stato di evocazione è sufficientemente stabilizzato l’intervistatore può ricorrere a domande appropriate per guidare l’intervistato verso la presa di coscienza delle differenti dimensioni della propria esperienza. Un processo utile consiste nel mettere in atto, prima che l’intervista inizi, un piccolo esercizio di allenamento per far sorgere nell’intervistato la consapevolezza di queste dimensioni. Per esempio incoraggiandolo a richiamare il ricordo di una vacanza e poi a descrivere in successione le dimensioni visive, uditive, cinestesiche, emozionali, olfattive e gustative del ricordo. Durante l’intervista stessa questo allenamento aiuterà l’intervistato ad accedere alla ‘posizione d’attenzione’ richiesta per divenire cosciente di queste differenti dimensioni della propria esperienza attraverso domande del seguente tipo:

“Cosa accade nella tua esperienza mentre leggi questo articolo di Griffiths? Assicurati che non ci sia qualcos’altro. Mentre leggi le parole forse vedi qualcos’altro? Forse ti dici qualcosa attraverso una voce interna? Forse esperisci una particolare sensazione o sensazioni?”

Per guidare l’intervistato verso la presa di coscienza di queste differenti dimensioni, l’intervistatore conta su di una gamma di indizi non-verbali altamente precisi come i movimenti degli occhi e i gesti co-verbali. James aveva già osservato che il pensiero è accompagnato da micro-movimenti:

“Nell’occuparsi di un’idea o di una sensazione riguardante una particolare sfera sensibile, il movimento è l’aggiustamento di un organo di senso, sentito nel momento in cui avviene. Non posso pensare in termini visivi, per esempio, senza sentire fluttuazioni di pressione, convergenza, divergenza e accomodazione nei miei occhi… (…) Finchè posso rilevare, queste sensazioni sono dovute a una rotazione attuale degli occhi verso l’esterno e verso l’interno.” (James, 1890, pp. 193-194)

Svariati articoli da allora hanno mostrato che i movimenti oculari indicano precisamente il registro sensoriale usato. [19] Un’attenta osservazione di questi movimenti consente all’intervistatore di identificare il registro sensoriale in cui l’intervistato si trova nel compiere un dato movimento, senza essere necessariamente consapevole di esso, e di dirigere la propria attenzione a questo registro. Per esempio, se l’intervistato guarda in su, probabilmente si sta formando un’immagine mentale. Una domanda adeguata, come per esempio “Mentre parli guardi là in alto (in su e a sinistra). Cosa accade in te stesso quando guardi in questa direzione?”, probabilmente gli permette di divenire consapevole di questa immagine e di descriverla. Similmente, quando i movimenti oculari dell’intervistato sono orizzontali, si tratta spesso di un segno che egli sta ascoltando un suono o parlando fra sè e sè. Una domanda appropriata gli permetterebbe di divenirne consapevole.
Nell’arco dell’intervista i suggerimenti dell’intervistatore sono basati anche sull’osservazione dei gesti che accompagnano, in modo non-conscio, le parole dette (o che le sostituiscono). Tra questi gesti co-verbali abitualmente viene fatta una distinzione tra i gesti che costituiscono il ritmo del discorso e che sottolineano l’intonazione vocale senza alcuna relazione al contenuto in sé, e i gesti referenziali che rappresentano qualcosa. Tra i secondi, che sono i soli che ci riguardano in questo contesto, distinguiamo tra gesti iconici, gesti metaforici [20] (per esempio, McNeil, 1985, 1992) e gesti deittici. Un gesto iconico in ultimo riproduce parzialmente un gesto attuale, la forma o il movimento di un oggetto, o ne indica la localizzazione spaziale: per esempio, mimo il movimento di urtare un ostacolo mentre racconto un incidente automobilistico. Un gesto metaforico è associato alla descrizione di un’idea astratta o di un processo interno: per esempio attuo lo stesso gesto di prima evocando però una difficoltà incontrata nella risoluzione di un problema [21]. Un gesto deittico designa la zona del corpo in cui viene sentita una sensazione o un processo interno. L’osservazione di questi differenti tipi di gesti permette all’intervistatore di aiutare il suo interlocutore a divenire consapevole della dimensione cinestesica ed emotiva della propria esperienza e ad approfondirne la descrizione. Per esempio, un gesto deittico verso la gabbia toracica può dirigere l’attenzione dell’intervistato verso la sensazione sentita con l’aiuto di una domanda del tipo: “Cosa sta accadendo al centro della tua gabbia?”.

“Christelle mi descrive le sue sensazioni nei minuti che precedono un attacco epilettico. Ripetutamente passa la mano sopra la propria fronte e io infine glielo faccio notare: in questo modo diviene cosciente di una sensazione che fino a quel momento era ante-riflessa, una sorta di ‘tocco leggero, come una brezza, un velo che delicatamente tocca la mia fronte’.”

Similmente intervistando alcuni ricercatori circa il processo di emergenza delle loro idee, ho osservato un grande numero di gesti metaforici (che sono generalmente ante-riflessi): gesti circolari, fluttuanti, di esplosione, di apertura, di chiusura, di piani che si avvicinano o si allontanano, talvolta mimando qualcosa di consistente o di morbido, gesti di solidità, di fluidità o di evanescenza. Questi gesti mi hanno permesso ripetutamente di aiutarli a divenire consapevoli dei loro processi interni attraverso domande quali: “Cos’è separato in questo modo?”, “Cosa si apre in alto come questo?”.

Approfondire la descrizione al livello di precisione richiesto

Per aiutare l’intervistato ad approfondire la descrizione della propria esperienza il ricercatore può attingere alla conoscenza che ha acquisito delle differenti dimensioni dell’esperienza soggettiva:

– la sua dimensione temporale, dinamica o diacronica che corrisponde al suo dispiegamento nel tempo: l’esperienza è un flusso e può essere descritta nella forma di una successione di istanti,
– la sua dimensione sincronica e non-temporale: una specifica configurazione dell’esperienza spaziale dell’intervistato è associata a ognuno di questi momenti, che non possono essere descritti da relazioni di successione: i registri sensoriali usati, il tipo di attenzione mobilizzato, i toni emotivi, ecc.

Approfondire la dimensione diacronica

Guidato dalla propria meta-conoscenza della struttura diacronica dell’esperienza soggettiva, l’intervistatore pone delle domande che guidano l’attenzione dell’intervistato verso i differenti momenti dell’esperienza, indicandoli senza suggerire alcun contenuto (Vermersch, 2004). Questo modo di domandare ‘vuoto di contenuto’ permette al ricercatore di ottenere una descrizione precisa non inficiata dalle proprie presupposizioni. Egli, quindi, sottolinea l’inizio: “Come hai iniziato? Cosa è successo per prima cosa?”, poi evidenzia il passo successivo: “Poi, cosa hai fatto?” e la fine: “Cosa è successo alla fine? Con cosa hai terminato?”. Queste descrizioni danno accesso a un livello iniziale della descrizione nella forma di una successione di fasi. Lo stesso tipo di domande viene ripreso per approfondire la descrizione di una frase: “Puoi ritornare al passo numero 2? Come lo hai fatto? Come lo hai iniziato?” così da ottenere una descrizione di una successione di operazioni. E così via per ogni operazione fino a raggiungere il livello richiesto di dettaglio.
Prendiamo come esempio il compito di memorizzare questa matrice di figure (un esercizio preso da Guillaume, 1932):

Ecco uno stralcio di un’intervista tra due studenti il cui scopo era quello di descrivere le operazioni mentali messe in atto per memorizzare la matrice fino al più fine livello di dettaglio. L’approfondimento non viene effettuato per tutte le operazioni, ma scegliendo ad ogni stadio una o due operazioni nella sequenza accumulata (mostrate in carattere italico):

Le domande: “Quando ti do la matrice da memorizzare, cosa fai? Come inizi? (…) E successivamente?” permettono di raggiungere un primo livello di descrizione nella forma di una sequenza a quattro-passaggi:

Leggo l’intera matrice/memorizzo la prima linea/memorizzo la seconda linea/memorizzo l’ultima linea.

La domanda: “Cosa fai per memorizzare la prima linea?” permette un maggiore grado di precisione nel secondo passaggio:

leggo i tre numeri/Poi li leggo mentalmente.

La domanda: “Cosa fai per rileggerli mentalmente?” permette un approfondimento del secondo sotto-passaggio:

Mi faccio una rappresentazione mentale della matrice vuota/Poi i numeri appaiono su di essa una dopo l’altro.

E così via: “Come ti fai una rappresentazione della matrice vuota?”

Chiudo gli occhi/La vedo/Si trova a 50 cm da me, leggermente in alto sulla destra della mia testa/ Appare come la matrice del foglio, ma circa due volte più larga.

Come appaiono i numeri su di essa uno dopo l’altro?

I posti della matrice vengono riempiti uno dopo l’altro con il corrispondente numero/Il numero che viene scritto dentro è chiaro/Quando sposto l’attenzione al posto successivo il numero nel posto precedente rimane scritto ma diviene confuso.

In che modo i posti vengono riempiti?

Li inserisco/Mi sussurro il numero e allo stesso tempo li metto nella matrice.

Le domande: “In che modo ti sussurri il numero?” e “Cosa fai per mettere il numero nella matrice?” permettono il raggiungimento di una scala di precisione ancora maggiore.

Dal secondo o terzo livello di descrizione la dimensione ante-riflessa del processo di memorizzazione viene ottenuta. Per approfondire la descrizione l’aiuto dell’intervistatore diviene essenziale. Le sue domande aiutano l’intervistato a stabilizzare l’attenzione su questo livello inusuale di dettaglio allo scopo di divenire consapevole delle operazioni interne ante-riflesse, particolarmente dei test, dei confronti e delle diagnosi che sono altamente impliciti. Per esempio la domanda: “Come sai che hai memorizzato la prima linea?” permette all’intervistato di divenire cosciente di un test particolarmente implicito (che potrebbe essere stato ulteriormente approfondito):

Deliberatamente penso a qualcos’altro (il mio weekend in Alsazia)/Richiamo la matrice su cui i tre numeri appaiono allo stesso tempo distintamente/Poi so che li ricorderò e passo alla line successiva.

Ecco qui un’altra sequenza di domande che permettono l’approfondimento di un’operazione di concentrazione interna altamente implicita:

– Mi sto concentrando
– Cosa fai per concentrarti?
– (…) [22] Sto ascoltando quello che sta accadendo dentro di me.
– Cosa fai per ascoltare? Se volessi insegnarmi come farlo, cosa mi diresti?
– (…) Per prima cosa mi accingo a spingere ulteriormente la mia coscienza verso la parte posteriore del cranio.
– Cosa fai per portare la tua coscienza nella parte posteriore del cranio? (…)

E quando a domande del tipo: “Cosa fai …”, “Come sai che …”, l’intervistato inizia rispondendo: “Non faccio alcunché”, oppure “non so”, l’intervistatore, allo scopo di incoraggiare l’affioramento nella coscienza della dimensione ante-riflessa, può usare il linguaggio ‘Ericksoniano’: [23]

E quando non fai nulla, cosa fai?

E quando non sai, cosa sai?

Come sai che non sai?

Approfondire la dimensione sincronica

Guidato dalla propria meta-conoscenza della struttura sincronica dell’esperienza soggettiva l’intervistatore aiuta l’intervistato ad approfondire la descrizione delle caratteristiche non temporali della propria esperienza. Di nuovo le sue domande si riferiscono alla struttura dell’esperienza senza indurre alcun contenuto [24]. Per esempio, se l’intervistato diviene cosciente di un’immagine mentale, il ricercatore dovrebbe dirigere la sua attenzione alle caratteristiche strutturali di questa immagine mentale di cui abitualmente non ha coscienza riflessa [25]. Un’immagine mentale può prendere due forme differenti:

– Essa può apparire di fronte agli occhi del soggetto: per esempio sul tavolo, sul muro, nello spazio di fronte al soggetto o su di un supporto immaginario come uno ‘schermo’. In questo caso l’immagine appare a una data distanza, in una data direzione, con una certa grandezza. È il caso della rappresentazione mentale della matrice descritta sopra e dell’immagine dell’elefante descritta nell’appendice 1. In questo caso l’intervistatore deve guidare l’attenzione dell’intervistato sulle caratteristiche spaziali del’immagine con l’aiuto di queste domande: “Che dimensione ha questa immagine? Dove la vedi (su, giù, sulla destra, sulla sinistra)? A quale distanza la vedi? È bi- o tri-dimensionale?” L’intervistatore può anche guidare l’attenzione dell’intervistato sulle caratteristiche cinematiche dell’immagine: “Si tratta di un’immagine in movimento? Si muove nello spazio?”
– Nel secondo tipo di immagine mentale non c’è n’è distanza n’è un supporto poiché il soggetto è all’ ‘interno dell’immagine’. In questo caso l’intervistatore può guidare l’attenzione dell’intervistato sulla ‘posizione percepita’ all’interno della scena: “Sei identificato con te stesso? Oppure con un altro personaggio? O stai vedendo la scena come uno spettatore non coinvolto (e se così, da dove esattamente?)” [26] Ecco una descrizione di questo tipo di immagine:

Ricordo questa scena molto bene. Era una sera di Aprile. Sono solo in cucina, sto cucinando. La porta è aperta sul giardino, posso ancora vedere la luce particolare di questa serata primaverile. All’improvviso Marie appare sulla soglia nel suo vestito blu corto con nelle sue braccia tutti i tulipani del giardino.

In entrambi i casi le seguenti domande aiutano l’intervistato a divenire cosciente delle caratteristiche visive dell’immagine: “È a colori o in bianco e nero? È dettagliata o confusa? È chiara od oscura?” L’intervistatore può inoltre chiedere se l’immagine è stabile o fluttuante, se è stata costruita o ricordata e se è accompagnata da suoni, odori o sensazioni fisiche (ricordati o costruiti).
Se si tratta di descrivere un suono l’intervistatore guiderà l’attenzione dell’intervistato verso le caratteristiche generiche di un suono: il suo volume, la tonalità, la distanza, la direzione e la sua persistenza… Se l’intervistato parla con sè stesso, come spesso accade, lo fa con la propria voce o con un’altra? Da quale direzione viene questa voce? Per esempio:

– Se ho capito correttamente quando questa immagine appare tu dici a te stesso: “Non voglio questo elefante.” Descrivimi questa voce interna.
– E’ la mia voce normale.
– E’ la tua voce. Che volume ha?
– E’ leggera e gentile.
– Dove la senti?
– Viene dalla destra della mia testa, leggermente da dietro.

Una sensazione fisica può essere descritta molto precisamente nello stesso modo in termini di intensità, locazione o dimensiona. Il metodo intervistico Focusing è piuttosto adatto ad aiutare una persona a dirigere l’attenzione alle proprie sensazioni fisiche (circa un problema, una persona, una situazione), ad intensificare la percezione delle sensazioni e a descriverle.
Tutto questo lavoro di approfondimento delle dimensioni diacronica e sincronica viene considerevolmente favorito dalle frequenti riformulazioni dell’intervistatore. Mentre aiutano l’intervistato a stabilizzare la propria attenzione sulla propria esperienza, lo aiutano a controllare l’accuratezza della descrizione e a correggerla se necessario. Inoltre gli consentono di completare gradualmente la descrizione e aumentare ogni volta la precisione.
Ma diversamente dall’intervista Rogersiana [27] che si limita a riformulare e aprire domande, il metodo qui usato lungo tutta l’intervista è sia non-induttivo che direttivo. Non-induttivo perché è ‘vuoto di contenuto’, esso guida l’attenzione dell’intervistato verso le caratteristiche strutturali della sua esperienza senza indurre alcun contenuto. Direttivo perché in modo alquanto fermo mantiene l’intervistato nella rete della singola esperienza che egli sta esplorando, e lo dirige e lo guida risolutamente nell’esplorazione di queste caratteristiche, verso la profondità richiesta. Questa fermezza è essenziale per permettere all’intervistato di far emergere gli inabituali gesti interiori richiesti per raggiungere questa descrizione. In questo sforzo la meta-conoscenza del ricercatore agisce da pilota verso la presa di coscienza dell’altra persona. Questa meta-conoscenza consiste di tipi differenti:

(1) Conoscenza della struttura dell’esperienza elaborata gradualmente durante le interviste e le loro analisi che costituisce il soggetto della ricerca corrente. [28]
(2) Questa conoscenza gradualmente arricchisce la conoscenza del ricercatore riguardo alla struttura dell’esperienza soggettiva in generale.
(3) Una conoscenza intima dei gesti interni che permettono di relazionarsi con la propria esperienza, gesti con cui il ricercatore deve avere familiarità allo scopo di aiutare l’intervistato a farne esperienza (Vermersch, 1999, p.40, 2000b p.11).

Questa meta-conoscenza deve rimanere aperta e flessibile. Un esempio del secondo tipo: durante le mie ricerche sull’esperienza intuitiva ho avuto modo di vedere la graduale comparsa della descrizione, all’inizio timida ed esitante, delle sensazioni che erano né interocettive né esterocettive e senza una modalità sensoriale definita e che non rientravano nelle categorie descrittive di una sensazione che avevo già iniziato a costruire. Includendo il loro riconoscimento nella mia propria esperienza mi ha permesso gradualmente di guidare altre persone nella presa di coscienza di esse e di descriverle e di creare nuove categorie descrittive che si stanno progressivamente affinando. Questo processo di emergenza e di rifinizione della meta-conoscenza è ancora poco studiato e compreso.

Una nota riguardante il processo DES

Il processo DES (Campionamento dell’Esperienza Descrittiva) usato da Hulburt e Heavey (2001, 2004), che consiste nell’usare un emettitore di suoni, ad intervalli casuali, per dirigere l’attenzione dell’intervistato verso ciò che sta vivendo in quel preciso momento, sembra, secondo il mio punto di vista, evitare solo parzialmente le sei difficoltà che ho indicato:

– Il suono permette la stabilizzazione dell’attenzione dell’intervistato su ciò che sta esperendo solo per un breve istante (difficoltà 1).
– Nel momento in cui l’esperienza esplorata è in realtà una singola esperienza, esso gli permette di divenire consapevole di ciò che egli ha realmente fatto in questo istante (probabilmente differente da ciò che egli immagina di star facendo (difficoltà 2).
– Se l’esperienza su cui è stata diretta l’attenzione è ancora fresca, l’analisi retrospettiva è facilitata (difficoltà 5).
– Ma dubito che il suono riesca a dirigere l’attenzione dell’intervistato dal ‘cosa’ al ‘come’, se non per caso. Per esempio esso gli permette di divenire consapevole del fatto che sta immaginando una scena futura, ma non del processo che gli permette di costruire questa immagine (difficoltà 3).
– Inoltre il suono non gli indica verso quali dimensioni della sua esperienza dirigere l’attenzione (difficoltà 4).
– E’ anche meno utile nell’aumentare la scala di precisione dell’osservazione (difficoltà 6). Come i due ricercatori hanno ammesso “DES non è utile nell’indagare lo sconosciuto o il difficile. È utile solo nell’ovvio, in ciò che si apprende facilmente” (Hulbert & Heavey, 2004, p.119). Il suono non è adatto per osservare eventi soggettivi molto brevi o sottili.

Trasporre in parole

Per sopperire alla povertà del nostro linguaggio nel descrivere l’esperienza soggettiva il ruolo dell’intervistatore è quello di incoraggiare l’intervistato a trovare le proprie parole anche se la sensazione o l’operazione interna viene indicata con la parola ‘quello’, ‘quella strana cosa’ o viene descritta con una strana frase, piuttosto che usare una parola che insidiosamente le mascheri con il suo significato abituale e gli facciano perdere contatto con esse. Se persevera l’intervistato poi scopre di poter usare le parole in modo differente, di dire attraverso di esse qualcosa di nuovo [29] e che è possibile descrivere l’esperienza in un modo genuino con un livello di precisione inaspettato. L’uso di parole che gli consentono di descrivere precisamente nuovi aspetti della propria esperienza soggettiva ha l’effetto di rifinire le percezioni dell’intervistato: in una intervista successiva per esempio, attingendo da questo vocabolario condiviso con l’intervistatore, egli produrrà una descrizione ancora più precisa. Sembrerebbe perciò che noi siamo in grado di arricchire gradualmente il nostro linguaggio con parole e con categorie descrittive più precise che ci consentono di riferirci alla nostra propria esperienza. [30]
Alla domanda ‘la trasposizione in parole dell’esperienza non introduce un’interferenza con l’esperienza descritta?’ darei la seguente risposta: si certamente, se la verbalizzazzione e l’esperienza sono concomitanti. Ma l’attenta osservazione del processo di verbalizzazione rivela che non lo sono. L’intervista sembra essere un’alternanza di istanti in cui l’intervistato mette-in-scena o ri-mette-in-scena la propria esperienza in silenzio e di momenti in cui descrive le tracce, l’impronta interna lasciata da questa esperienza.

Quando inizio a parlare di essa non ho più la sensazione. Parlo sulla base del ricordo della sensazione che ho avuto, ma non ne parlo mentre la sto sentendo. È come se la sensazione lasci un’impronta, forte, abbastanza forte da permettermi di parlarne, come se fosse una traccia. [31]

Sembra quindi che la verbalizzazione, attuata a posteriori, non introduca alcuna interferenza nel corso reale dell’esperienza.

Rapporto con l’intervistatore

Affinché l’intervista giochi il ruolo di contenitore in modo efficiente, è cruciale che si instauri una relazione di fiducia tra le due persone coinvolte. Essenzialmente due sono le ragioni. Innanzitutto perché questa tecnica intervistica è diretta in modo definitivo. L’intervistatore deve mostrare una grande fermezza (e delicatezza), interrompendo l’intervistato quando tende a perdersi, così da tenerlo all’interno della sua esperienza attraverso l’uso di riformulazioni e domande dirette. L’intervistato dal canto suo, per comprendere e accettare questa fermezza, deve innanzitutto aver ben capito l’obbiettivo dell’intervista ed avere una grande fiducia nell’intervistatore. Inoltre lo scopo dell’intervista è di mettere l’intervistato nelle condizioni di avere accesso a una dimensione intima di sé stesso che non ha ancora conosciuto. Per il raggiungimento di questo obiettivo, l’intervistato deve abbandonare le proprie rappresentazioni e credenze su di sé e abbandonare per la durata dell’intervista le proprie difese abituali, rilassarsi ed entrare in uno stato di vulnerabilità. Per consentirgli di essere guidato in questa dimensione e di mettere in atto questo sforzo personale alla presenza dell’intervistatore, deve sentire l’intervistatore totalmente presente, attento e aperto mentalmente. Il senso di sicurezza così generato gli permette di rallentare, di dilatare i tempi, di entrare in una dimensione di silenzio e di latenza, in cui l’assenza di risposte immediate permette l’emergenza della presa di coscienza della dimensione ante-riflessa della propria esperienza.
Oltre ad essere molto determinato nel modo di condurre l’intervista, il ricercatore deve rimanere aperto mentalmente e essere modesto. Mentre l’intervistato non sa cosa sa, l’intervistatore non sa cosa sta cercando. La meta-conoscenza acquisita dal secondo gli dà qualche idea sulla direzione in cui guidare l’attenzione dell’altra persona. La colonna portante dell’intervista è la relazione di fiducia instaurata: essa è ciò che permette all’intervistato e all’intervistatore di abbandonare le loro percezioni e aspettative per fare strada a qualcosa di nuovo, non ancora conosciuto, e per dargli il tempo di emergere. È questa relazione di fiducia che consente il miracolo di divenire consapevoli.

Domande validanti

Queste tecniche intervistiche sono rigorose e ci consentono di ottenere risultati attendibili? Quali sono i criteri a nostra disposizione per garantire la validità di una descrizione? Come possiamo essere certi che la descrizione ottenuta corrisponda all’esperienza attualmente vissuta e non a un’immaginaria esperienza o a un’esperienza ricostruita attraverso una conoscenza teoretica dell’esperienza?

• Il primo criterio è metodologico e consiste nel rispettare le regole per condurre un’intervista. L’intervistatore ha a disposizione alcune tecniche rigorosamente definite per indurre l’intervistato:

– a stabilizzare la propria attenzione sull’esperienza descritta,
– a convertire la propria attenzione dal ‘cosa’che normalmente assorbe il suo interesse al ‘come’,
– a passare dalle rappresentazioni e credenze generali sull’esperienza in questione alla descrizione di una singola esperienza,
– a dirigere la propria attenzione alle differenti dimensioni della propria esperienza,
– a essere più preciso nella propria descrizione.

La registrazione o la trascrizione dell’intervista rende possibile controllare che le domande e i suggerimenti siano stati formulati in accordo con queste tecniche, in una modalità che sia precisa e non-induttiva allo stesso tempo.
L’uso di tutti questi processi ha come prerequisito l’abilità dell’intervistatore di rimanere costantemente concentrato lungo tutta l’intervista. Tutti questi processi sono lontani dall’essere ‘naturali’; dal punto di vista del metodo condurre un’intervista di questo tipo non è un’attività semplice, ma un’abilità da veri esperti, acquisita attraverso uno specifico processo di apprendimento e di allenamento.
• Il secondo criterio è intersoggettivo: si tratta del carattere riproducibile dell’esperienza, il fulcro di tutte le validazioni, comprese quelle delle scienze classiche.
Se l’esperienza descritta è accessibile al ricercatore [32], egli può controllare attraverso la propria personale esperienza l’accuratezza di una descrizione prodotta da un’altra persona. È inoltre possibile controllare la convergenza delle descrizioni prodotte da soggetti differenti. Se l’esperienza descritta è poco conosciuta e non ci sono nè un vocabolario nè categorie descrittive pre-costruite attraverso cui riferirsi ad essa e se inoltre le descrizioni sono ottenute da ricercatori differenti indipendenti, la convergenza delle descrizioni costituisce un criterio molto convincente della loro autenticità. [33]
• Il fatto che una persona possa potenziare un processo cognitivo ‘appropriandosi’ di una parte o dell’intera strategia di qualcun altro costituisce un criterio di validità pragmatico altamente convincente. Per esempio, il fatto che un paziente epilettico facendo emergere una sequenza di micro-operazioni interne descritte da un’altra persona riesca a interrompere una crisi incipiente, rivela il carattere funzionale della descrizione prodotta.
• Nel caso dei progetti di ricerca neurofenomenologica un criterio euristico molto convincente talvolta conferma la validità di una descrizione: il fatto che una categoria fenomenologica permetta la scoperta di una struttura in dati neuroelettrici che altrimenti apparirebbero caotici.

Per esempio, le descrizioni in prima-persona di tre stati intenzionali distinti prima della realizzazione di una dato compito cognitivo (un compito di visualizzazione 3-D), ha permesso agli sperimentatori di rilevare tre caratteristici modelli di sincronia di fase tra segnali EEG durante l’esecuzione del compito (Lutz, 2002). In altre parole l’uso di categorie fenomenologiche come criterio per analisi neurologiche permette agli sperimentatori di rilevare una struttura neuronale originale: questo conferma la rilevanza di questa categoria.

• Ma il criterio principale per la validità delle descrizioni sembra essere la ‘posizione linguistica’ del soggetto che sta descrivendo la propria esperienza. Come abbiamo visto prima, l’intervista consiste dell’alternanza di momenti in cui l’intervistato rivive e in modo silenzioso viene in contatto con la propria esperienza e momenti in cui descrive la traccia o l’impronta interiore lasciata dalla propria esperienza. Affinché la descrizione prodotta sia accurata, è essenziale perciò che il soggetto, nel momento in cui sta esprimendo sé stesso, sia in contatto con la propria esperienza e la tenga ben stretta. Ogni volta che questa impronta sta per svanire egli deve riviverla e rinnovarla, altrimenti non starà che pronunciando vuote parole. Come un intervistato conferma:

“Se sono stato realmente ri-impregnato con l’esperienza allora sono in grado di parlare direttamente del momento in cui, ‘wham!’, mi troverò solo con parole, perciò esso non significherà nulla, e così mi accingo a tornare all’esperienza per ravvivarla.”

In questa prospettiva, l’osservazione di molte persone nel processo di descrizione della loro esperienza soggettiva ha portato alle seguenti ipotesi:

(1) Ci sono due tipi di espressione, che per analogia con le ‘posizioni percettive’ Vermersch (1994/2003) chiama ‘posizioni linguistiche’, legate al fatto che una persona nel parlare sia o non sia in contatto con la propria esperienza (probabilmente con un’intera gamma di posizioni intermedie):

– una posizione ‘incarnata’ di espressione [34] quando la persona è in contatto con la propria esperienza,
– una posizione disincarnata quando, avendo perso contatto, si esprime sulla base di un vago ricordo di un’esperienza, o sulla base del ricordo di un resoconto di un’esperienza o delle proprie rappresentazioni, credenze o giudizi.

(2) Esiste una gamma di indicatori soggettivi e oggettivi (sia per la persona che parla sia per quella che ascolta) che permettono l’identificazione di queste due posizioni di espressione.
Quali sono gli indicatori che permettono l’identificazione di una posizione incarnata di espressione? Gli indicatori oggettivi sono i meglio conosciuti: verbali, non-verbali e para-verbali. Gli indicatori verbali sono costituiti dall’uso di ‘Io’, il tempo presente, gli indicatori specifici di contesto (luogo e tempo), il carattere concreto e dettagliato dei vocaboli usati (in opposizione a quello concettuale e generale): tutti questi segni indicano che il soggetto sta tentando di descrivere una situazione particolare e che non è coinvolto in un processo di conoscenza teoretica recitata. Un esempio di un indicatore non-verbale è la direzione degli occhi: quando il soggetto sta rivivendo l’esperienza passata distoglie gli occhi dall’intervistatore per guardare ‘nello spazio’, all’orizzonte. Contemporaneamente il flusso del parlare rallenta e le parole sono spesso inframezzate da silenzi: questi segni para-verbali indicano che il soggetto si sta immergendo in sé stesso per entrare in contatto con la dimensione ante-riflessa della propria esperienza. Allo stesso tempo appaiono gesti co-verbali metaforici o deittici. Questi gesti normalmente inconsci, che si manifestano anche nelle persone cieche e anche quando l’intervistatore non li può vedere, non sembrano attuati con l’intenzione di trasmettere informazione all’intervistatore, ma avvengono perché il soggetto è in contatto o ha l’obiettivo di entrare in contatto con la propria esperienza.
Tutti questi segni rendono percettibile in modo molto chiaro il momento in cui il soggetto abbandonando le proprie rappresentazioni, credenze e giudizi entra in contatto con la propria esperienza e inizia a descriverla, lentamente e spesso con un inaspettato grado di dettaglio. Persino un ascoltatore o un lettore non allenati non possono non essere colpiti da questo cambiamento.
(3) Il criterio interno di una posizione linguistica incorpata, che permette al soggetto di distinguere quei momenti in cui è in contatto intimo con la propria esperienza da quelli in cui egli slitta gradualmente verso una generalizzazione, o conoscenza della propria esperienza, non è ancora stato indagato a fondo. Ho ipotizzato che il soggetto in questi momenti sia in contatto con una dimensione molto profonda della propria esperienza, che è prediscorsiva, preconcettuale, profondamente gestuale e prima della separazione nelle cinque modalità sensoriali, in cui il confine interno/esterno e Io/altri è ancora permeabile (Petitmengin, 2006).
Ciò di cui siamo testimoni qui è l’emergenza di una nuova concezione della validità di una descrizione: questa validità non è più misurata in termini di ‘verità’, di rigore rappresentativo o di adeguatezza in relazione a un’esperienza pre-esistente, ma nei termini di accordanza con il modo in cui si genera, con la qualità del contatto con l’esperienza in cui la descrizione ha origine e con la distanza dalla sua sorgente.
Questa gamma di criteri può essere usata per assicurarsi che le descrizioni ottenute non siano inevitabilmente deformate dalle interpretazioni del soggetto mentre le produce e mentre l’intervistatore le raccoglie. Ma come abbiamo appena visto non abbiamo l’ingenuità epistemologica di credere che una descrizione, anche se prodotta con disciplina, possa essere ‘vera’ nel senso che essa rifletterebbe esattamente l’esperienza vissuta originaria. Ogni momento d’esplicitazione introduce una trasformazione: l’esperienza rivissuta, l’esperienza riflessa, l’esperienza tradotta in parole costituiscono nuove esperienze. Piuttosto di tentare di evitare ad ogni costo questo fatto ovvio o assumere la posizione contraria, che consiste nel rigettare tutte le descrizioni in prima-persona o in seconda-persona, consideriamo essenziale osservare e descrivere precisamente queste trasformazioni. La nostra ricerca attuale perciò consiste nello studiare in una modalità ‘superriflessiva’(Marleau-Ponty, 1964, p.61) con i mezzi d’esplicitazione stessi, i vari momenti e le differenti dimensioni dell’atto di divenire consapevoli [35]: le operazioni interne o i ‘gesti’ che mi permettono di entrare in contatto con la mia propria esperienza o di distanziarmene, che mi permettono di evocare un’esperienza passata, di spostare la mia attenzione dal ‘cosa’ al ‘come’, di dirigerla alle differenti dimensioni della mia esperienza, di alternare la trasposizione in parole e il ‘rinfrescare’ l’esperienza passata… e anche, a un livello più alto di astrazione, come viene gradualmente costruita la meta-conoscenza del ricercatore … noi crediamo che una rigorosa descrizione di queste operazioni possa contribuire a una nuova descrizione della ‘verità’ di una descrizione e rifinire i suoi criteri di validità.

Lo stadio successivo alla descrizione

Formalizzazione

Dopo che la descrizione è stata ottenuta e trascritta una considerevole parte di lavoro – riorganizzazione, analisi e poi astrazione e formalizzazione – è necessaria per delineare e rappresentare la struttura dell’esperienza descritta. L’approccio [36] che propongo include quattro stadi principali come segue:

(1) Riordinare la descrizione. La cronologia del processo del divenire consapevoli e la cronologia dell’esperienza non sono identiche. Quando il soggetto rivive l’esperienza per la prima volta, egli fornisce una descrizione a ‘maglie larghe’ piuttosto grezza. Egli necessita di ritornarci sopra molte volte per divenire successivamente conscio di tutte le dimensioni della propria esperienza e quindi per provvedere a una descrizione a ‘maglie sottili’. Inoltre, come visto prima, il processo di consapevolezza può avvenire nell’ordine cronologico inverso dell’esperienza.
(2) Delineare e rappresentare la struttura diacronica dell’esperienza: delineando i punti cardine possiamo identificare le fasi e le sotto-fasi principali fino al livello desiderato di dettaglio.
(3) Per ogni fase identificare le componenti esperienziali che non possono essere rappresentate nella forma di una successione (come lo stato interno richiesto, il tipo di attenzione e i registri sensoriali mobilizzati, ecc.), e costruire una rappresentazione sincronica di essa.
(4) Se l’obbiettivo è quello di confrontare molte descrizioni, costruire, da rappresentazioni strutturate di ogni esperienza, una rappresentazione generica che evidenzi la loro struttura comune e le possibili varianti, sia da un punto di vista diacronico che sincronico.

Tra le difficoltà incontrate in questo lavoro di formalizzazione troviamo, a un livello più alto di astrazione, quella già menzionata del vocabolario usato per la descrizione stessa: la povertà di concetti e vocaboli disponibili spesso forza chi costruisce il modello a inventare un nuovo nome quando una nuova categoria esperienziale emerge. La nascita di questo linguaggio, che testimonia l’emergenza della meta-cognizione riguardo all’esperienza soggettiva, è comunque uno stadio essenziale verso la costituzione di una comunità di conoscenza di questo nuovo campo.

Funzioni delle descrizioni dell’esperienza soggettiva

A cosa serve la rappresentazione strutturata di una descrizione o di una gamma di descrizioni? Tre funzioni principali stanno emergendo.

Funzione cognitiva

La prima è una funzione cognitiva: per il ricercatore in scienze cognitive la descrizione strutturata di un processo cognitivo permette una migliore conoscenza delle sue dimensioni principali non dispiegate. Se una rappresentazione generica è stata costruita ci mette nelle condizioni di identificare regolarità e varianti nella realizzazione di questo processo. Si tratta di questo tipo di lavoro che ho messo in atto nello studio dell’esperienza soggettiva associata all’apparizione di un’intuizione e nello studio delle esperienze che precedono un attacco epilettico.

Funzione euristica

Per il neuroscienziato questa funzione cognitiva è combinata con una funzione euristica: è la scoperta di varianti nella realizzazione di un dato processo cognitivo che può guidare l’analisi neurologica. Se la variabile fenomenologica strutturante è identificata a posteriori attraverso il confronto delle descrizioni ottenute dopo gli esperimenti (Lutz, 2002), o a priori e poi inserita nel disegno sperimentale attraverso il supporto di istruzioni date al soggetto circa il modo di condurre il compito come proposto da Gallagher (2003b), è la scoperta di una struttura nell’esperienza soggettiva a permettere il rilevamento di una struttura nell’attività neuronale. Un altro esempio è preso dalla nostra ricerca nell’esperienza soggettiva che precede un attacco epilettico:
abbiamo ottenuto la descrizione delle contromisure adottate dai pazienti nel tentativo di bloccare una crisi incipiente (Petitmengin, 2005; Petitmengin et al., 2006). Quali sono i correlati neuroelettrici di queste contromisure? Anche qui ci viene in aiuto l’analisi fenomenologica.

Funzione pedagogica e terapeutica

La terza funzione delle descrizioni dell’esperienza soggettiva è pedagogica e terapeutica: se una persona diviene conscia della propria esperienza soggettiva e la descrive, questo permette una migliore conoscenza di come egli opera e sotto certe condizioni gli consente di trasformare il suo modo di operare.
Per esempio, la consapevolezza – negli studenti che sto allenando nelle tecniche d’esplicitazione – dei loro processi ante-riflessi gli consente di vedere la loro esperienza in prospettiva e quindi di essere meno imprigionati da essa. Questa consapevolezza introduce nella loro vita quotidiana una piena capacità operativa, una boccata d’aria, una spazialità… che li rendono più liberi… e più curiosi e attenti agli eventi che accadono nei primi passi della loro vita professionale; gli dona una maggior capacità di sorprendersi. Questo spazio dà loro una maggiore lucidità in relazione ai particolari delle pratiche, delle metodiche, dei modi di comunicazione e delle relazioni interpersonali che stanno scoprendo negli ambienti professionali. Inoltre essa dà loro una coscienza più precisa e più precoce delle difficoltà che stanno per incontrare e una coscienza più esplicita delle strategie da attuare per risolverle.
Divenire consapevole di un processo cognitivo significa inoltre aprirsi alla possibilità di trasformarlo. Non sono condannato ad avere una ‘memoria povera’, se innanzitutto ne ho preso coscienza posso trasformare la sequenza molto precisa di micro-operazioni interne che attuo per memorizzare o ricordare. Non sono arrabbiato con la natura perché posso cambiare la sequenza di operazioni interne che spesso mi portano a perdere la mia tempra.
Come può essere ottenuta una tale trasformazione? Quali sono le condizioni che ne governano la possibilità? Una vasto campo di ricerca, poco esplorato, è stato aperto.
In campo medico la possibilità per un paziente di divenire consapevole dei propri processi interni apre nuove prospettive. Per esempio il fatto che un appropriato allenamento permetta ai pazienti epilettici di divenire consapevoli dei sottili sintomi che annunciano l’arrivo di una crisi e di prendere le adeguate contromisure per interromperli (Petitmengin, 2005), apre nuove e inaspettate linee di ricerca nella terapia non-famacologica e cognitiva per l’epilessia e forse una nuova conoscenza di questa malattia. Sulla scia degli studi sull’epilessia, la raccolta dei resoconti dell’esperienza soggettiva dei pazienti, la possibilità di studiarli e di descriverli apre un vasto campo di ricerca nel campo medico e trasforma in modo considerevole la nostra visione di molte malattie.
La consapevolezza della nostra esperienza soggettiva apre promettenti vie per la sua trasformazione, nel campo pedagogico e medico ma anche potenzialmente in tutti i campi dell’esperienza umana.

Conclusioni

Ci troviamo sulla soglia di una vasta area di ricerca poco esplorata nella nostra cultura, quella dell’esperienza soggettiva. Abbiamo molto lavoro da fare: abbiamo bisogno di implementare i nostri metodi per studiarla e creare un linguaggio comune per parlare di essa così da raccogliere una comunità di ricercatori provenienti da ambiti diversi che si stanno costituendo attorno a questo nuovo campo. Questa esplorazione potrebbe trasformare considerevolmente non solo la nostra visione del mondo ma anche il nostro modo di vivere.

Ringraziamenti

Voglio ringraziare Pierre Vermersch e Shaun Gallagher per i loro commenti molto utili, Jean-Michel Nissou, che ha condotto l’intervista finale, per le discussioni chiarificatrici e Peter Thomas per la traduzione di questo testo dal francese. Sono inoltre molto grata a tutte le persone che hanno partecipato a questa ricerca come soggetti intervistati.

Appendice

Esempio di intervista

J. Bene, Chantal, prima ti ho parlato di un oggetto, in realtà ti ho mentito leggermente. Non si tratta di un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto per chiedere, esattamente ora, di pensare a un elefante.
C. Silenzio (5 s), quindi ciondola la testa, sorridendo.
J. OK. Ciò che stiamo per fare ora è… come posso dirtelo? È come se avessimo un videoregistratore: riavvolgiamo e rimettiamo in onda la sequenza, in questo modo vediamo cos’hai fatto per pensare a questo elefante. OK? È molto semplice, così come hai appena fatto, ci stiamo accingendo a riavvolgere e ti chiedo di immergerti ancora in questa esperienza. Ricordi, ho iniziato dicendo che ti ho mentito. Mi piacerebbe che tu sentissi ancora la mia voce dirti: “Ti ho mentito. Non è un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare un elefante.” Così hai fatto qualcosa, è accaduto qualcosa. Nel momento in cui ti ho detto: “Pensa un elefante”, cos’hai fatto, cos’è successo?
C. La prima cosa che è accaduta è stata un’oscurità, cioè lo schermo davanti a me non era illuminato. O piuttosto si è resettato, è come se fosse stato cancellato, infatti non ero preparata a evocare un elefante.
J. Ti ripeterò spesso cosa mi dici per assicurarmi di aver capito correttamente e le informazioni ottenute mi aiuteranno a memorizzare. Non esitare a dirmi se sto sbagliando, perché potrebbe accadere che ciò che ripeto non corrisponda esattamente a quello che hai esperito. OK? Allora secondo ciò che ho capito della tua esperienza, c’ero io che dicevo: “Pensa un elefante”, e secondo ciò che tu mi hai detto c’è stato prima un’oscurità, o meglio uno schermo che si è resettato perché non eri pronta ad evocare un elefante. Puoi descrivermi questo schermo? Torniamo indietro nel tempo. Mi stavi dicendo: “C’è questo schermo, c’è oscurità.” In che modo si è resettato lo schermo?
C. (…) Mi sembra… gradualmente.
J. Gradualmente…
C. Le immagini sbiadiscono per lasciare qualcosa di nuovo dietro.
J. Gradualmente le immagini svaniscono e lasciano qualcosa di nuovo dietro di esse. Ciò che stai per fare ora, Chantal, è di ritornare dentro questa esperienza. Senti di nuovo la mia voce. Ti ho detto, ricordi, ti ho detto: “Chantal, prima ti ho mentito. Non è un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare un elefante”. E poi c’è lo schermo e mi dici che su di esso ci sono delle immagini. Che tipo di immagini ci sono sullo schermo?
C. (…) Quando mi hai parlato non c’erano oggetti, o più precisamente è come se alcuni oggetti, di cui avevo un vago pensiero, stessero per svanire.
J. Stavano per essere cancellati.
C. Questo è il motivo per cui mi sposto sullo schermo [37].
J. Ti sposti sullo schermo per cancellarli?
C. (…) Per mandarli via. Erano piuttosto sfocati ma se ne sono andati gradualmente non appena lo schermo si è aperto.
J. Tutto bene. Uno schermo che è apparso e si è posto di fronte?
C. Di fronte. Molto… molto chiaramente. Da sinistra a destra.
J. Molto chiaramente, da sinistra a destra.
C. Di fronte a me, potevo vederlo da sinistra a destra.
J. L’hai visto venire da sinistra verso destra ed è venuto esattamente di fronte a te.
C. Esatto.
J. Di che grandezza era lo schermo?
C. …
J. Cercalo di nuovo, inizia nuovamente. Ora sei in grado di farlo molto bene. Torna indietro nel tempo, trova di nuovo la mia voce: “Sai, Chantal, ti ho mentito. Non si tratta di un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare un elefante.” E poi ci sono pochi oggetti residui e questo schermo. Di che grandezza è questo schermo?
C. (…) Non è molto grande, ma anche così riempie tutto lo spazio che riesco a vedere.
J. Non è molto grande, ma anche così riempie tutto lo spazio che riesci a vedere.
C. E’ circa 1 m per 40 cm, più largo che alto.
J. Bene. Questo schermo che arriva da sinistra a destra, di circa 1 m per 40 cm, più largo che alto, di che colore è?
C. Ah, è nero.
J. E’ nero, è ciò che hai detto all’inizio: c’è oscurità, o piuttosto c’è lo schermo. Bene, abbiamo un po’ più di dettagli riguardo a questo breve momento. Ti sto per fare una domanda per un controllo finale. Non abbiamo ancora finito l’intervista in quanto per il tempo restante ci dobbiamo dedicare alla comparsa dell’elefante. Sappiamo che ci sono questi oggetti, c’è lo schermo che arriva da sinistra a destra, di 1 m per 40 cm, e che è nero. Controlla se c’è qualcos’altro nella tua esperienza: ci sono sensazioni? Ci sono suoni? Controlla. Vai in dietro nel tempo.
C. (…) Si, ci sono alcuni rumori prodotti da oggetti che se ne vanno e dallo schermo che si sta aprendo. Un lieve rumore, un lieve rumore che… mi dice che sta accadendo qualcosa.
J. Un lieve rumore che ti dice che qualcosa sta accadendo, che ti dà informazioni riguardo a…
C. Che mi dà informazioni… si, sull’apertura dello schermo.
J. Eccolo lo schermo… cosa accade subito dopo? È molto importante iniziare dallo scricchiolio, perché gradualmente forse diverrai consapevole degli altri elementi, oppure no, o di ciò che non è esattamente come quello. Perché stiamo andando sempre più in profondità in questa esperienza del pensare un elefante. Torniamo ancora all’inizio. Prendi coscienza di ciò che accade immediatamente dopo l’apertura dello schermo.
C. (…) In realtà penso che lo schermo non abbia occupato tutto lo spazio. Penso ci siano stati dei movimenti nella parte più bassa dello schermo. Ovvero degli oggetti che accennavano ad andarsene, l’apertura dello schermo e alcune cose sono accadute davanti allo schermo.
J. Alcune cose stavano accadendo davanti allo schermo…
C. Cose indistinte, che si sono mosse leggermente.
J. Bene. C’è stato un movimento…
C. Esatto, un movimento. Si, ma non era vuoto. Era come… un segno di…
J. Un segno di cosa?
C. … non necessariamente di qualcosa di vivo, ma… di animato.
J. E se ti corrisponde… poiché tutto è così breve, è accaduto molto velocemente, quasi come uno schiocco di dita. Per situarlo in questo processo di dispiegamento, ora ti accingi a dirmi in quale momento gli oggetti se ne sono andati e quando è arrivato lo schermo… Come era organizzato tutto ciò? Nel dirmelo hai a disposizione le parole che ho pronunciato io, quando è iniziato? Quando ti ho detto: “Sai, Chantal, ti ho mentito. Non si tratta di un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare un elefante”. Ecco, hai le parole. Come si dispiega? Scorri attraverso di esso ancora.
C. (…) Allora, “ti ho mentito”: diventa grigio-marrone, gli oggetti non erano molto distinti ma c’era una forma anche così, e… poi c’è un momento di sospensione, perché… perché in realtà credevo che tu mi stessi per chiedere di pensare una persona.
J. Avevi un’idea, è interessante, tra il momento in cui ti ho detto: “Ti ho mentito, Chantal, non ti sto chiedendo di pensare un oggetto”, e il momento in cui lo schermo nero appare da sinistra a destra, avevi l’idea che io ti stessi per chiedere di pensare una persona. È esatto?
C. Si è esatto.
J. Si tratta di un’altra sequenza da inserire. Ma non la esploreremo. Ti propongo invece di continuare a dedicarti a questo elefante, perché esso è simpatico e ti ho vista sorridere quando lo pensavi. Lascia che questa sequenza si dispieghi: “Ti ho mentito, Chantal. Non si tratta di un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare un elefante”. Gli oggetti se ne stanno andando, lo schermo nero sta arrivando da sinistra a destra, e poi cosa è successo?
C. (…) Bene, dal fondo dello schermo…
J. Dal fondo dello schermo?
C. Da davanti allo schermo. Quando hai detto: ‘elefante’, è come se il mio schermo fosse stato steso sopra. E… velocemente, si. Poi potevo fare qualcosa. Così per riempire lo schermo da davanti qualcosa è apparso, qualcosa che non mi piaceva, perché mi sono detta che un elefante è un’altra cosa, e così ho fatto in modo che un altro elefante apparisse all’improvviso.
J. Esatto, esatto. Quando dico: ‘elefante’, il tuo schermo è già dispiegato, c’è questo movimento là, questo movimento leggermente indistinto di cui parlavi prima, che è là di fonte allo schermo. Quando dico ‘elefante’, cosa appare per primo venire fuori da quella zona, quella zona piuttosto indistinta o da un’altra zona dello schermo? Scorri ancora una volta attraverso di essa, la migliore cosa da fare è di scorrere attraverso di essa. “Ti ho mentito Chantal, Non si tratta di un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare un elefante.”
C. (…) Oh no, essa appare da qualche altra parte. Cioè per prima cosa ho detto: ‘Elefante, Asia’…
J. Hai detto: ‘Elefante, Asia’. Hai pronunciato quelle parole internamente, parlavi a te stessa.
C. Poi c’era un maharajah apparso davanti allo schermo, sul suo elefante… Così era sullo schermo (…) E poi volevo trasformarlo.
J. E’ proprio quello che hai detto prima: hai detto: “Non è un elefante”, e hai fatto in modo che qualcosa apparisse.
C. No, non ho detto a me stesso quella cosa. Ho detto: ” Non voglio quell’elefante”.
J. Esattamente, hai detto: “Non voglio quell’elefante.”
C. Perché… c’era un’altra cosa in attesa.
J. Come sapevi che c’era un’altra cosa in attesa?
C. (…) Perché era sulla sinistra, dello schermo… c’era qualcosa… in attesa.
J. C’era qualcosa in attesa sulla sinistra dello schermo.
C. E poi mi sono ricordato… dov’era, quell’elefante. Mi sono detta che era ciò che volevo… vedere.
J. Ora passo in rassegna l’intera sequenza per vedere se ho colto tutto quello che vi è contenuto. E al contempo ti permette di controllare come scorriamo la sequenza e se siamo accurati nella descrizione. È iniziato così: ti ho detto “Sai, Chantal, ti ho mentito. Non è un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare, proprio adesso, un elefante”. A questo punto lo schermo è già in luogo. E ti dici: “Elefante, Asia”. E c’è un maharajah che arriva sul suo elefante. E al contempo sai che alla sinistra dello schermo c’è qualcosa in attesa. Ti dici: “Non voglio quell’elefante”. Quindi ti ricordi che c’è un elefante, dov’è e da dove appare…
C. E esso gradualmente appare. Si rivela gradualmente sullo schermo.
J. A partire da sinistra? Come accade?
C. No, era in attesa sulla sinistra, ma… perché… è un’immagine di un elefante che ho visto poco tempo fa… inusuale. Così mi sono dovuto concentrare un po’ per ricordare i dettagli.
J. Per ricordare i dettagli, ti devi concentrare. Era qualcosa… era un’immagine in attesa sulla sinistra, cos’era?
C. No, non era un’immagine in attesa sulla sinistra. Era qualcosa. Una presenza.
J. Era una presenza. Ed è stata questa presenza a richiamarti alla memoria questo elefante, in ogni modo a indicarti che esso era là e a farti concentrare per ricordare i dettagli.
C. Esatto.
J. E poi esso è apparso gradualmente, un po’ alla volta. Come in dissolvenza d’apertura (di una pellicola cinematografica). Come è apparso?
C. Successivamente sono io a mettere i dettagli.
J. Sei tu a mettere i dettagli.
C. Si.
J. Come ti accingi a mettere i dettagli?
C. Innanzitutto metto lo sfondo, un’immagine presa da un documentario, sulla guerra in Vietnam, in cui si vede un elefante mentre aiuta i mezzi militari ad uscire dal pantano. Così ho visto la scenografia, gli alberi, il fango, le truppe… e questo elefante. (…) Si, l’elefante è stato l’ultimo ad apparire.
J. L’elefante è apparso per ultimo. In questo modo tu hai di fatto seguito le istruzioni per pensare un elefante. È in quel momento che hai capito che le istruzioni erano state seguite. In quale momento hai saputo: “OK, sto pensando un elefante”? In quale momento?
C. Si quando ho visto… quando l’ho visto muoversi.
J. Quando l’hai visto muoversi, quando hai visto l’elefante muoversi nella scena che avevi ricostruita, allora hai saputo che le istruzioni erano state seguite. Se ti va, possiamo ritornare di nuovo a un piccolo passaggio, ho ancora una o due domande da porti. Penso sia interessante vedere come ti sei detta ogni cosa che hai fatto, cioè: ‘Elefante, Asia’, “non voglio vedere l’elefante”. A questo scopo passiamo in rassegna ancora una volta la sequenza. Nel farlo ti chiederò gli aspetti uditivi della tua esperienza. Ti dico: “Chantal, prima ti ho mentito. Non è un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare un elefante”. Quindi lo schermo è gia là. Ti dici: ‘Elefante, Asia’. Appena dopo appare il maharajah.
C. Si, sento un sacco di cose, naturalmente. Sento un sacco di cose… Asia, maharajah… che significa… sento… Le immagini che vedo sono quelle piuttosto comuni dei maharajah, così sento la musica di quei film. Ecco questo è quel che sento.
J. Bene, uditivamente ci sono molte cose. In un certo senso potremmo dire che è la tua voce interna a dire: ‘Elefante, Asia’, e che le immagini appaiono con la loro musica.
C. E’ esatto.
J. ‘Elefante, Asia’, è la tua voce a dire quelle cose. Da dove viene, se dovessi definire il luogo di questa voce, dove lo localizzeresti? Scorri di nuovo attraverso di essa, lascia che riaffiori, la voce. Quando ti dici: ‘Elefante, Asia’, appena prima che l’immagine appaia.
C. (…) E’ di fronte a me, leggermente dietro lo schermo.
J. Leggermente dietro lo schermo?
C. Si, sopra.
J. Come descriveresti il volume della tua voce: forte, debole?
C. Debole… debole normale.
J. Debole normale. E il tono, l’intonazione? È veloce o lenta?
C. E’ lenta, leggera e sorridente.
J. Lenta, leggera, sorridente. Continua. Poi appare un’immagine, con la musica di quei vecchi film. E immediatamente dopo ti dici: “Non voglio l’elefante”.
C. E la voce non è la stessa, no, non è venuta dallo stesso luogo.
J. E da dove è venuta?
C. Da là, è venuta da qualche parte sulla sinistra.
J. E’ venuta da qualche parte sulla sinistra. E come la descriveresti, in termini di volume, intonazione…
C. Bene, era… (…) era un’altra voce.
J. Cosa intendi con: “Era un’altra voce”? Ti sto per chiedere un’altra simpatica domanda, ma se volessi avere la stessa voce, come mi dovrei approcciare? So che viene dalla sinistra, ma… dovrei parlare a voce alta? Come dovrei parlare per avere la stessa voce?
C. No, non era più alta della voce precedente, ma… era mia. Al contrario dell’altra… no, non era mia… più impersonale.
J. Una voce più impersonale. Un ultimo flashback, e poi ci fermiamo. Per controllare e per farlo completamente ancora una volta. Ti sei seduta e subito ti ho detto: “Sai, Chantal, ti ho mentito. Non è un oggetto che ti sto chiedendo di pensare. Ti sto chiedendo di pensare, proprio adesso, un elefante”. E poi ecco là lo schermo. La voce è là. L’immagine, la musica dell’immagine. E poi una presenza sulla sinistra dello schermo e il tuo sforzo per porre tutti i dettagli, gli alberi, il fango, le truppe. E infine questo elefante. Questo elefante che si muove e tu che sai che le istruzioni sono state seguite. In quel momento, ti dico: “OK” … Appaiono altri elementi?
C. Appena hai detto “OK”, la luce si è attenuata.
J. La luce dell’immagine si è attenuata.
C. La luce dell’intera cosa.
J. La luce dell’intera cosa. Un altro punto: in termini di sensazioni, non ne abbiamo parlato, ma c’è stata una successione di sensazioni interne? Stati interni differenti, od era qualcosa di continuo? Vedo che stai di nuovo riattraversando quel momento…
C. (…) Forse una sensazione iniziale con una prima abbozzata impressione di un elefante, la sensazione di qualcosa… di magnifico.
J. La sensazione di qualcosa di magnifico.
C. E poi un’altra sensazione quando ho fatto in modo che l’altra apparisse, ero… il fatto di avere riattivato questa immagine mi ha fatto sentire bene.
J. Ti sei sentita bene per il fatto di avere riattivato questa immagine. Come sapevi di sentirti bene? Cos’è la sensazione di sentirsi bene? Dov’è, cosa significa?
C. (…) E’… in un certo modo è un’assenza di sensazioni… una sorta di… equilibrio.
J. Una sorta di equilibrio. Bene ci fermiamo qui. Grazie, Chantal.

 

Note:

1 Per una panoramica sullo stato dell’arte riguardo ai metodi descrittivi dell’esperienza soggettiva e sulle discussioni circa la validità dell’introspezione, vedi questi tre articoli del Journal of Consciousness Studies (Jack & Roepstorff, 2003, 2004; Varela & Shear, 1999a).

2 Tichener, che un secolo fa negli Stati Uniti dedicò la sua vita allo sviluppo di tecniche introspettive, considerava dati validi solo quelli ottenuti nel suo laboratorio da un soggetto sottoposto per mesi a un allenamento intensivo. Il suo manuale di allenamento introspettivo (Experimental Psychology: A Manual of Laboratory Practice), consiste di non meno di 1600 pagine. Prima di questo allenamento, ‘lo studente medio, nell’iniziare l’attività di laboratorio, è semplicemente incompetente per partecipare agli esperimenti come osservatore introspettivo’ (Tichener, 1901-1905, II.2, p. cliv). Schwitzgebel (2004) ha scritto recentemente un’analisi del lavoro di Tichener.

3 Molti articoli di Gendlin (2004) sono disponibili nel suo sito web (http://www.focusing.org ).

4 Riferimenti possono essere trovati in molti suoi articoli disponibili nel suo sito web (http://www.expliciter.net ).

5 Wallace (1999. 2003) fornisce una descrizione di queste tecniche.

6 Questo è il motivo per cui illustriamo le difficoltà e i processi descritti con l’aiuto di esempi, ogni qualvolta sia possibile, per consentire al lettore a sua volta di controllare l’accuratezza di queste descrizioni all’interno della sua stessa esperienza.

7 Schooler (2002) e Schooler e Schreiber (2004) hanno studiato questo stato distratto della mente in connessione con il processo della lettura: i risultati di questo studio mostrano che i soggetti sono spesso non consci del fatto che la loro mente è distratta, perfino quando essi sono impegnati in un esperimento in cui gli viene espressamente richiesto di porre attenzione a queste assenze.

8 Per usare il modo di esprimersi di Piaget (1974a, b).

9 Nel vocabolario di Husserl (1913/1950), ripreso da Sartre (1936, 1938), e da Ricoeur (1950).
(aggiunta del traduttore) Petitmengin usa il termine “ante-riflessa” per enfatizzare il fatto che questa dimensione non è inconscia, ma solo non ancora cosciente.

10 Secondo Vermersch (1996, 1997b, 2000a, 2004). Sono in debito con Pierre Vermersch per aver descritto molto precisamente le difficoltà che incontriamo nel divenire consapevoli della nostra esperienza vissuta e nel verbalizzarla.

11 Vedi anche Bowers (1984). La questione della possibile distorsione tra l’esperienza e la sua rappresentazione è stata sollevata di recente da Svhooler (2002), Schooler & Schreiber (2004), Marcel (2003).

12 E andando dritti all’etimologia della parola ‘epilessia’: il termine greco epi-lambanein significa ‘sorprendersi’.

13 Con il termine meta-conoscenza ci riferiamo alla conoscenza acquisita dal ricercatore grazie all’analisi e al confronto di differenti descrizioni dello stesso tipo di esperienza, di una generica categoria esperienziale. La meta-conoscenza è distinta dalla conoscenza riflessa (talvolta nominata meta-consapevolezza) da un soggetto di una dimensione della sua stessa esperienza, che non richiede il riconoscimento di questa dimensione come generica.

14 Sinestesia: termine che indica quelle situazioni in cui una stimolazione uditiva, olfattiva, tattile o visiva è percepita come due eventi sensoriali distinti ma conviventi. Nella sua forma più blanda è presente in molti di noi, basti pensare a quelle situazioni in cui la presenza di un odore o di un sapore evoca un’altra reazione sensoriale (la vista della frutta che viene percepita anche come sapore). Si presenta anche come effetto dell’assunzione di droghe quali lsd e allucinogeni.

15 Questo sembra essere l’approccio inverso rispetto al dialogo platonico. La maieutica di Socrate, l’arte di ‘liberare le menti’ consiste infatti nell’aiutare l’interlocutore a staccare la propria attenzione dalle singole esperienze per contemplare l’idea generale: “Riguardo alle virtù, per quanto numerose e diverse possano essere, sempre hanno qualcosa in comune ed è ciò che le fa essere virtù. È verso questo carattere che gli occhi devono essere girati per rispondere alla domanda e mostrare in che cosa consiste la virtù. Capisci cosa intendo?” (Platone, 1981b, Menone 72 c-d)
16 Questo tipo di esperienza è descritta sottilmente da Proust (1929) in Alla ricerca del tempo perduto.

17 Il famoso tuffo nel tè del biscotto madeleine.

18 Quando possibile, il ‘rivivere’ l’esperienza passata può essere aiutato attraverso la visualizzazione dell’espisodio come in un video filmato. D. Stern usa questa tecnica nelle sue ‘interviste micro-analitiche’ allo scopo di studiare l’esperienza soggettiva dell’interazione madre-bambino (Stern, 1985, 1995).

19 Buckner, E. Reese e R. Reese (1997); Dilts (1983); Ellickson (1983); Galin e Ornstein (1974); Grinder, Delozier e Bandler (1997); Kinsbourne (1972); Loiselle (1985).

20 Il termine ‘metaforico’ dovrebbe essere inteso nel suo senso etimologico e non in quello linguistico.

21 Per esempio, nel corso del suo approccio semiologico al gesto che accompagna la parola, Calbris (2003) ha raccolto una lista dei gesti differenti che mimano l’azione del ‘tagliare’ e i diversi tipi di uso iconico o metaforico di questi gesti. In rapporto alla posizione della mano (verticale, orizzontale, parallela o perpendicolare al corpo), ai suoi movimenti (singoli o ripetuti), all’uso di una o due mani, il gesto di tagliare esprime differenti modi di separare (dal taglio di un oggetto concreto al lavoro di analisi concettuale), e di interrompere un processo (fermarsi su un percorso, sia esso spaziale, spazio-temporale, logico-temporale o mentale).

22 (…) indica un lungo silenzio, un segno che il soggetto sta diventando consapevole della dimensione ante-riflessa della propria esperienza.

23 Ci stiamo riferendo allo psicoterapeuta americano Milton Erickson (Bandler & Grinder, 1975), le cui tecniche sono state adattate da Vermersch (1994/2003) per lo scopo dell’intervista d’esplicitazione.

24 L’intervista può avere luogo nella sua interezza anche senza alcuna descrizione di contenuti. Una volta ho intervistato un ricercatore per 2 ore sulla sua improvvisa intuizione della ‘struttura logica della meccanica quantistica’, senza sapere o conoscere alcunché del contenuto di questa intuizione, concentrandomi solamente sulla struttura, particolarmente visiva, della suo apparire.

25 Le sotto-modalità visive e sensoriali sono state esplorate in grande dettaglio dal Programma Neuro-Linguistico (Dilts, 1983; Dilts, Grinder, Bandler, & Delozier, 1980).

26 C. Andreas e T. Andreas (1991) e Dilts (1998), per esempio (p.48), parlano della 1a posizione, 2a posizione e 3a posizione di percezione. Gallagher (2003a, b) introduce categorie descrittive leggermente differenti: prospettiva egocentrica in-prima-persona, prospettiva egocentrica in-terza-persona, prospettiva allocentrica in prima-persona e terza-persona.

27 Il termine deriva dal nome dello psicologo americano Carl Rogers ideatore della Terapia Centrata sul Cliente e iniziatore del Counseling. Questo tipo di terapia, da lui sviluppato tra gli anni ’50 e ’60, è fondato su due punti fermi: primo, sulla constatazione che per capire un individuo dobbiamo concentrare la nostra attenzione non sugli eventi che egli esperisce ma sul modo in cui li esperisce, perché ogni individuo è unico; secondo sul fatto che il terapeuta non deve manipolare gli eventi per conto del cliente, ma deve creare le condizioni in grado di facilitare un processo decisionale autonomo da parte sua. Il compito del terapeuta è quello di creare le condizioni per cui durante la seduta il cliente possa entrare in contatto con la sua natura più profonda e valutare da solo quale stile di vita è per lui intrinsecamente gratificante. Secondo Rogers e gli altri terapeuti del filone umanistico ed esistenziale, la persone devono assumersi la responsabilità della propria vita anche quando sono disturbate. I rogersiani si attengono strettamente alla regola secondo cui, data un’atmosfera terapeutica calda, sollecita e ricettiva, l’innata capacità di crescita e di autorealizzazione dell’individuo alla fine si affermerà.

28 Le tecniche per estrarre la meta-conoscenza dalle interviste sono descritte in Petitmengin-Peugeot (1999) e Petitmengin (2001).

29 “Un certo tipo di sentenze può usare una parola al di là del suo significato abituale, così che essa parla dalla sensazione significativa.” (Gendlin, Introduction to the thinking at the edge, p.2). Questa affermazione ne richiama una scritta da Merleau-Ponty (1953): “mi esprimo quando uso tutti questi strumenti linguistici, faccio in modo che essi dicano ciò che non hanno mai detto” (p.84).

30 Questa è la questione posta in modo molto preciso da Wittgenstein (1992): “- Descrivi l’aroma del caffè! Perché non riusciamo a farlo? Perché non abbiamo le parole? E per quali dettagli non le abbiamo? Ma da dove ci viene il pensiero che tale descrizione dovrebbe essere possibile? – Hai tentato di descrivere l’aroma senza riuscirci? (…) James: ‘Manchiamo delle parole’. Allora perché non introdurle ? Quale dovrebbe essere il caso in cui saremmo in grado di farlo?” (§ 610 p. 291)

31 Le citazioni senza riferimenti, come questa, sono estratte da interviste che ho ottenuto con il metodo intervistico descritto in questo articolo.

32 Non è sempre questo il caso (l’esperienza che precede un attacco epilettico, etc.).

33 Se questa convergenza ha il valore di conferma, la mancanza di convergenza non significa che le descrizioni proposte siano in accurate, dato che un ampio numero di parametri può spiegare queste variazioni (Vermersch, 2000a, p. 285).

34 Vermersch (1994/2003) usa questa espressione per descrivere il radicamento delle parole nell’esperienza corporea, nello stesso senso di Varela, Thompson e Rosch (1991) in The Embodied Mind.
35 Petitmengin (2001) e Depraz, Varela e Vermersch (2003) costituiscono esempi di questo tipo di lavoro.

36 Questo approccio, che non costituisce il soggetto di questo articolo, è descritto in Petitmengin-Peugeot (1999) e Petitmengin (2001).

37 La parola ‘schermo’ viene usata per tradurre la parola francese ‘écran’, che significa una superfice usata per nascondere qualcos’altro. Questa superfice verrà quindi usata, nel resto dell’esperienza, come sfondo per eventuali immagini. Non deve essere intesa nei termini di una tv immaginaria o di uno schermo cinematografico.

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